La crisi del volontariato

Una trentina di anni fa, quando facevo l’assistente religioso della San Vincenzo, e questo gruppo di cristiani impegnati sul fronte della solidarietà aveva “voce in capitolo” nella nostra città, invitammo il responsabile nazionale del volontariato a parlare al Laurentianum sui problemi di questo settore della nostra società. Ricordo ancora come questo signore, che oltretutto era un cristiano convinto, sciorinava numeri su numeri di gruppi di volontari operanti in tutti i settori della vita del nostro Paese.

Oggi, purtroppo, le cose non stanno più così! Per grazia di Dio ci sono ancora volontari, davvero molti; basta rifarsi ai drammi recenti dei nostri conterranei colpiti dal terremoto, però questa schiera di volenterosi, dal cuore grande e generoso, pare che non stia crescendo come sarebbe necessario in una società così complessa e fragile come la nostra. La cultura del quotidiano e la preoccupazione per il proprio benessere hanno falcidiato questo movimento di persone che avvertono l’importanza sociale del valore della solidarietà.

Tante volte incrociando uomini e donne di tutte le età, che si lasciano trascinare dai capricci dei loro cani, pronti a mettersi il guanto per raccogliere la cacca del loro amato “amico” per mettersela poi in borsa, avverto una fitta al cuore pensando agli accorati appelli rivolti ai miei concittadini affinché mettano a disposizione di chi ha bisogno qualche ora della propria settimana, appelli che molto spesso non trovano ascolto e risposta.

Al don Vecchi e nel suo indotto, contiamo su circa quattrocento volontari, ma sono pochi, troppo pochi per quello che potremmo fare per il nostro prossimo. Abbiamo bisogno di volontari di tutte le età, di tutte le esperienze di vita e di tutti i ceti. Abbiamo bisogno di operatori per i servizi più elementari ed abbiamo ancor più bisogno di chi sappia dirigere la nostra grande impresa solidale. Garantisco che è mille volte più esaltante vivere questa magnifica avventura che portare a passeggio il proprio cane anche se simpatico ed affettuoso.

Un’avventura di mezza estate

I mercati generali di frutta e verdura di Treviso sono uno dei più vecchi fornitori, prima della “Bottega solidale di Carpenedo”, poi de “La buona terra” del centro don Vecchi e del “Banco alimentare” dello stesso centro.

Una trentina di anni fa aprimmo la “Bottega solidale” nel piccolo chiosco appoggiato per una parete alla canonica e per l’altra alla chiesa e che un tempo conteneva un chiosco di fiori. Con grandi difficoltà e pure con qualche spesa  riuscii  a  liberare il chiosco dall’attività precedente per collocarvi la nuova attività benefica e la distribuzione dei  generi alimentari di frutta e verdura che con una certa enfasi denominammo “La bottega solidale” perché commerciava si nel settore alimentare come ogni altro negozio,  ma a differenza degli altri, donava la merce. Gli inizi furono come ogni altra attività benefica,  quanto mai  difficili. Soprattutto per il reperimento della merce da farci donare per poterla a nostra volta offrire gratuitamente. Per quanto  riguardava la frutta e verdura la andavano a “mendicare” presso il mercato generale in via Torino, però il suddetto mercato era di modeste proporzioni e perciò riuscivano a portare a casa poca “roba” e non sempre di qualità. A questo proposito voglio però ricordare il signor Vito  Guadaluppi, che a differenza di altri era particolarmente generoso, però nonostante questo generoso benefattore, che ricordo   con particolare riconoscenza perché poi ci lasciò in eredità la sua casa, la frutta e verdura da distribuire era sempre troppo poca.

Sennonché, durante una riunione della San Vincenzo, nella quale discutevamo questo problema senza riuscire a trovare vie di uscita, il “confratello” così si chiamavano i soci di questa attività associativa, e precisamente il signor Gino Fattore, si ricordò che un suo congiunto occupava un posto di rilievo presso i mercati generali di frutta e verdura di Treviso. Egli interessò il suo parente e “ottenemmo” così la possibilità di entrare gratis nel mercato per ottenere dai vari “padroncini” qualche cassetta di frutta e verdura. Un altro “confratello” Mario Bobbo, al quale non manca né parola né il coraggio, si offrì ad andare due volte alla settimana a fare “il frate da cerca” presso questo mercato. In vent’anni di attività questo membro della San Vincenzo di Carpenedo è riuscito a conquistarsi la fiducia e la simpatia dei gestori dei vari Stand tanto che il martedì e il venerdì “porta a casa” un furgone con quindici venti quintali di frutta e verdura. Da qualche anno si affiancò in questa attività un altro parrocchiano di Carpenedo Carlo Gavin, tutto l’opposto del primo, quando questi parla, altrettanto l’altro rimane silenzioso, ma nel compenso è quanto mai operativo.

Qualche settimana fa questi due volontari mi chiesero di accompagnarli a Treviso perché il loro vecchio prete quasi novantenne facesse da garante  di dove andavano a finire le donazioni e potesse ringraziare a nome dei poveri di tutta Mestre i benefattori di Treviso. Mi pareva doveroso accettare l’invito.

Eccovi ora il diario della visita ai mercati generali di frutta e verdura di Treviso: alzata mattiniera, il mercato apre quando è ancora buio, e poi via verso la capitale della Marca. Dopo mezz’oretta mi trovai in mezzo ad un mondo nuovo da scoprire! Penso che neanche Cristoforo Colombo rimase frastornato quanto me quando egli scoperse il mondo nuovo, un vociare da tutte le parti, un traffico intensissimo di “muletti” a batterie di tutte le fogge e le grandezze, cariche di ogni tipo di frutta e verdura, tutta ordinata e in bella mostra nelle cassette.

Rimasi subito un po’ frastornato dal quel mondo brulicante ed irrequieto; di primo acchito mi pareva un formicaio per il suo andirivieni, assurdo per un visitatore inesperto, ma quanto mai funzionale per la miriade di operatori che si muovevano con una destrezza indescrivibile. Al frastuono si aggiunse per me anche un certo barcollamento delle gambe che ormai sono ben lontane dall’essere come quelle di Mennea. Strinsi i denti e bevetti fino in fondo, come Socrate la cicuta, ma tenni duro superando il mio naturale riserbo.

Strinsi tante mani, dissi tanti grazie, ma avvertii pure tanta cordialità, tanta condivisione e tanto rispetto e affetto da parte della nostra gente veneta rimasta buona e fiduciosa verso i suoi vecchi preti. Mentre Mario tesseva un rapporto confidenziale e alla pari con padroni e responsabili, Carlo, in silenzio, caricava il camion tanto ch’esso era pieno zeppo prima che noi terminassimo tutto il giro.

Verso le otto eravamo già sulla via del ritorno perché alle nove dovevo celebrare nella mia cattedrale tra i cipressi. Durante la messa pregai per i poveri morti e pregai altrettanto agli altrettanto poveri vivi, ma nel mio animo mi sentivo ancora immerso nel mondo per me tanto nuovo, del mercato e ricordai al Signore ad uno ad uno quella gente che raccoglie dai contadini i frutti della terra per offrirli tutti in buon ordine ai cittadini che vivono tra l’asfalto e il cemento.

Ho ringraziato poi il Signore perché a questo mondo ha mantenuto ancora tanta buona gente: contadini, commercianti, volontari, tutti coloro che rappresentano il volto buono della vita.

Tornando a casa ho chiesto al signor Bobbo che mi facesse un elenco delle persone di buon cuore che provvedono anche ai poveri. Ne voglio fare un elenco da mandare a San Pietro perché quando questa cara gente si presenterà alla porta del cielo, non faccia tante storie, semmai chiuda un occhio perché comunque entrino senza intoppi perché hanno donato ben di più di “un bicchier d’acqua fresca” che, a parere di Gesù, è sufficiente per entrare nel Regno!

La “religione” di Papa Francesco

La catechesi di Papa Francesco si esprimono soprattutto con i gesti e le scelte pastorali.

Mi pare che al primo posto ci siano le sue prese di posizione a favore degli “ultimi”, delle “periferie” e le sue iniziative, pur minimali, ma di grande significato, che sono sempre a favore di quelle creature che egli afferma che la società attuale definisce “gli scartati”, ma che lui coerente con la logica del vangelo ritiene invece “pietre d’angolo!”

Ho letto con estremo interesse la notizia apparsa su l’ultimo numero de “Il Cenacolo”, la bellissima rivista dei padri sacramentini, l’ultimo gesto di carità cristiana di Papa Francesco. Il nuovo “parroco” in tonaca bianca della comunità cristiana de “Il Vaticano” giorno per giorno sta portando avanti con estrema coerenza e con gesti sempre più in linea col Vangelo e una sua linea pastorale che privilegia la solidarietà, annunciata mediante il suo insegnamento papale, immediatamente tradotta con queste scelte pastorali.

E’ da una vita che vado ripetendo che per la quasi totalità delle parrocchie mestrine “la Carità” rappresenta la cenerentola delle attività pastorali, e che è tempo che sia le singole comunità per conto loro, che assieme alle altre, comincino a dar vita a sempre nuove iniziative a favore dei concittadini in disagio.

Solamente allora il volto di Gesù sarà visibile nella Chiesa di Mestre.

Bisogna che ci convinciamo sempre più che se la fede in Dio che non si traduce in gesti concreti di carità cristiana, si riduce ad una pia illusione che può essere ritenuta tutto, ma non proposta evangelica.

 

Ambulatorio in Vaticano per i poveri

Ambulatorio medico-sanitario, recita la targhetta su un portone ligneo sotto il colonnato di piazza San Pietro. È il dono fatto qualche mese fa da papa Francesco ai senzatetto romani, avviando un nuovo servizio accanto a quelli già attivi, e sempre molto frequentati, delle docce e della barberia. Il servizio è stato affidato all’associazione Medicina solidale onlus. “Siamo grati a papa Francesco per aver voluto, ancora una volta, dare un segno concreto di misericordia in piazza San Pietro alle persone senza fissa dimora o in difficoltà”- ha dichiarato in una nota Lucia Ercoli, direttrice dell’associazione. “I nostri medici insieme a quelli del Policlinico di Tor Vergata hanno accettato con grande passione questa nuova sfida che unisce idealmente il lavoro fatto in questi anni nelle periferie con il cuore della cristianità.”

L’ambulatorio, come già accade a Tor Bella Monaca, Tor Marancia, Montagnola e Regina Coeli, garantirà visite, analisi e terapie per i più bisognosi. Il lunedì i circa 150 beneficiari dei locali docce e barberia, inaugurati lo scorso anno, vanno a cambiarsi i vestiti, lasciando gli indumenti sporchi e indossando quelli puliti messi a disposizione dal reparto biancheria. Servizi potenziati con la casa-alloggio per ricoveri notturni nella sede aperta pochi mesi fa a via dei Penitenzieri.

Fuoco sotto la cenere

Ormai m’ero rassegnato. Da almeno vent’anni avevo sognato che a Mestre parroci e parrocchie sentissero il bisogno di avere un centro che da un lato razionalizzasse e controllasse tutte le associazioni e le “agenzie” cattoliche che sono impegnate sul fronte dei poveri, e dall’altro lato fosse pure operativo concentrando in uno stesso luogo le attività più consistenti in maniera che ai concittadini in difficoltà fosse facile trovare una grande istituzione dove sia possibile avere risposte adeguate alle necessità più diverse. Non è che in questi anni sia stato con le mani in mano, tanto che nel seminterrato del don Vecchi c’è già un abbozzo di questo centro, che io ho denominato con una certa enfasi “il polo solidale del don Vecchi”.

Però è una struttura ancora troppo piccola ed inadeguata. Nel recente passato vi fu un momento in cui mi illusi che il progetto prendesse corpo, tanto che avevamo individuato un terreno e si aveva incominciato a disegnare quella che sognavo fosse intitolata la “cattedrale della solidarietà”.

Il Patriarca Scola s’era lasciato coinvolgere, dando appoggio e facendo promesse, però m’accorsi quasi subito che l’ambiente cattolico non era maturo, a cominciare dalla Caritas che affermò di non crederci, e don Franco che mi disse: “Bello, don Armando, però per i soldi dovrai arrangiarti!”

L’uscita poi di scena del vecchio Patriarca e l’insorgere dei guai finanziari della diocesi, che già era poco convinta e propensa di imbarcarsi in un progetto così nuovo e impegnativo, mise una grossa pietra tombale sopra al mio sogno.

La Fondazione poi si impegnava in quello che doveva diventare un progetto pilota per prolungare ulteriormente l’autosufficienza; sennonché la scelta dell’assessore della Regione Senargiotto di candidarsi per il parlamento europeo, pur avendo promesso appoggio finanziario, impegnò a fondo la Fondazione per tentare di portare avanti senza alcun aiuto pubblico suddetto progetto.

Dati i miei quasi novant’anni m’ero rassegnato a lasciare in eredità ai posteri il sogno di razionalizzare e concentrare in una struttura polivalente uno dei più rilevanti problemi di qualsiasi comunità cristiana e in particolare della Chiesa di Mestre, che è costituito di dare autentica consistenza al progetto della carità. Sennonché qualche giorno fa è morta una persona che aveva fiducia in me tanto che aveva deciso di lasciarmi ogni suo avere, ma che per mio suggerimento aveva scelto la Fondazione dei centri don Vecchi.

Data la consistenza del patrimonio ereditato, la brace, che era ancora viva pur sotto la cenere del mio sogno, cominciò a brillare, tanto che da ora in poi ho deciso di non perdere occasione per suggerire e premere sul Consiglio di amministrazione ed impegnarmi su questo progetto.

Ora mi trovo molto di frequente a pensare: “Vuoi vedere che se le cose andranno per il giusto verso e se il Signore avrà ancora un po’ di pazienza a mandarmi “la cartolina di precetto” avrò anche la grazia di vedere questa lungamente sognata cittadella della solidarietà?

Se poi non sarà una cittadella mi accontenterei anche che fosse un piccolo borgo o un villaggio solidale!

Riassunta a novant’anni

Ultimamente la Fornero, con grande ira dei sindacati e di certi lavoratori che han sempre lavorato poco, ha elevato l’età della pensione. Renzi, giovane politico che fa un “miracolo” al giorno, spostando le montagne dell’immobilismo della burocrazia e della politica, mediante un meccanismo un po’ contorto e chiedendo qualche sconto sulla pensione, pare stia accorciando i tempi per chi ha poca voglia di lavorare e vuole sedersi in poltrona un po’ in anticipo. Comunque neanche la Fornero si sognerebbe mai di riassumere una novantenne! I sindacati di certo chiederebbero il rogo per chi si sognasse di proporre operazioni del genere! Ebbene, a me che in genere ho sempre navigato contro corrente, pare stia andando in porto una riassunzione, come operatrice di liturgia, di una signora che ha già compiuto novant’anni! Ho incontrato questa signora più di mezzo secolo fa ed è stata “alle mie dipendenze” per una trentina di anni. Il mondo dei poveri di Mestre ricorda la “Golda  Meyer” di Ca Letizia.

L’Emilia che funzionava come cuoca, gestore e diciamo pure madre, seppur burbera, per le centinaia di poveri che cenavano nella prima mensa di Mestre.

Questa volontaria copriva la sua tenerezza materna con un atteggiamento burbero che non ammetteva contraddizioni. Per una trentina d’anni la mensa di Ca Letizia ebbe un capo indiscusso che guidò quella barca di sbandati attraverso mille peripezie.

Metà poi di quel mondo di ragazzi  ch’erano giovani attorno agli anni sessanta e settanta, conobbero la stessa “Giovanna d’Arco” al Rifugio San Lorenzo, la casa di montagna della parrocchia del Duomo. Con la mia dipartita da Mestre l’Emilia s’è presa una pausa per curare il marito ed accompagnarlo all’altra sponda, godendosi un poco “la pensione” della sua lunga dirigenza caritativa.

Per questa estate mi ritrovo in difficoltà per la gestione della “mia cattedrale” e qualche giorno fa le proposi un impiego stagionale e a part-time. Non ci pensò un istante ed “ha firmato il contratto”; il paradiso glielo ho ormai garantito da decenni, ora discutiamo della fila e sul tipo di poltrona da offrirle!

La nuova galleria

Il “don Vecchi sei”, che ora ha un volto, un’articolazione dei locali ed una destinazione a soggetti diversi ai quali è destinata, non è nato per incanto ma, come avviene, per ogni creatura ha avuto una gestazione abbastanza faticosa di almeno quattro o cinque anni.

In quest’ultimo tempo, che precede l’inaugurazione, si è parlato spesso di rette, di regolamenti e di destinatari, però chi ha concepito la nuova creatura, durante questa faticosa gestazione, l’ha sognata accogliente, bella signorile, ad ha lavorato in silenzio e lungamente perché risultasse pari al sogno.

Una delle caratteristiche che si colgono di primo impatto con i centri della nostra fondazione è certamente l’aspetto signorile e la scelta dell’arredo di mobili, piante e quadri. Così è avvenuto anche per quest’ultima creatura, che pur avrà meno spazi comuni delle altre, dato che la maggior parte dei residenti saranno meno “stanziali” di quelli degli altri centri. Comunque anch’essa offre un vastissimo salone perché la popolazione che vi abiterà abbia un ampio spazio per relazioni umane e per i momenti di relax. Quando pensai all’arredo delle sue pareti trovai subito difficoltà ad immaginare una accozzaglia di poveri quadri raccogliticci e mi venne in mente di chiedere ad un mio vecchio parrocchiano, che nel passato mi ha aiutato nelle situazioni più diverse, di dipingere una serie di quadri per farne una galleria permanente. Questo signore, che di professione ha fatto il fisico, in enti di risonanza mondiale, ma nel contempo ha dimostrato di avere un ottimo rapporto con la tavolozza, alla mia richiesta, dopo qualche resistenza dovuta soprattutto alla sua modestia naturale, mi ha offerto la sua disponibilità tanto che da alcuni mesi sta lavorando a tempo pieno per offrirci una galleria di una trentina di sue opere.

La disponibilità e la generosità di questo signore dall’ingegno e dalle risorse di tipo michelangiolesco sono arrivate non solamente a donarci un numero così consistente di opere, ma a regalarci pure le cornici.

Quando penso a tutto ciò mi viene da concludere che la fatica per il “sei” trova già una sua ricompensa per la scoperta che a Mestre ci sono anche cittadini così bravi e generosi.

Ristorante Serenissima: cena ad un euro, perché ho chiuso

La stampa e la televisione ne hanno parlato talmente tanto del mio progetto di offrire un pranzo ad un euro per i concittadini in disagio economico e che soffrono in silenzio e con dignità la loro difficoltà che mi pare quasi superfluo ritornare sull’argomento, però sento il bisogno di chiarire qualche aspetto su questo progetto non riuscito. È da una vita che mi occupo dei poveri, perché, lo ripeto ancora una volta, a mio parere è aria fritta la vita religiosa e la fede se non diventano carità.

A riprova di questa affermazione ricordo il mio impegno per la San Vincenzo della nostra città, l’apertura di Ca’ Letizia con i suoi servizi di mensa serale, di fornitura di vestiti, delle docce, del barbiere, le vacanze degli anziani e gli adolescenti, il caldo Natale. Il mensile “Il Prossimo”, poi a Carpenedo l’apertura de “Il Rtrovo” per gli anziani, di Villa Flangini per le vacanze degli anziani poveri, del gruppo “Il Mughetto” per i disabili, del gruppo San Camillo per gli ammalati, poi i cinque Centri don Vecchi con i relativi 400 alloggi per anziani autosufficienti in difficoltà economiche, infine: Il Polo Solidale del don Vecchi con i suoi magazzini per vestiti, mobili, arredo per la casa, Banco di distribuzione di generi alimentari, il chiosco per la frutta e verdura, lo spaccio alimentare per la distribuzione degli alimentari in scadenza. Ciò premesso, nonostante i miei quasi 90 anni, non ho perso la voglia e sento ancora il dovere di farmi prossimo nei riguardi di chi è in difficoltà. Quindi, essendomi presentata l’occasione di raggiungere un tassello di questo curriculum, durato una vita, l’ho colto al volo. Le cose sono andate così: avendo letto su Avvenire che il manager della ristorazione in Milano, signor Pellegrini, offre mille pasti a sera ad un euro per i poveri, il mio angelo custode mi ha subito suggerito: “Perché non chiedi al catering Serenissima Ristorazione che fornisce i pasti ai residenti dei cinque Centri?” Avendo anche sentito dire che il signor Mario Putin, che è il fondatore e presidente di questa grande società di Vicenza, fornisce in Europa 200.000 pasti al giorno, perché non chiedergli un centinaio di cene al giorno? Il mio angelo custode è quanto mai intelligente e buono, e quindi una volta tanto gli ho dato ascolto. Non ci pensai un giorno e feci la richiesta a questo signore, che fino il giorno prima neppure sapevo che esistesse. A giro di posta mi giunse la risposta che avrebbe mandato Tommaso, uno dei suoi figli, per vedere cosa si poteva fare. Dopo pochi giorni giunse questo figlio di Putin, che cura la parte economica dell’azienda, e forse, vedendo il Centro don Vecchi ha capito che siamo persone serie e ci ha dato là su due piedi il via all’operazione. Il proseguo della vicenda lo conoscono un po’ tutti, perché demmo vita ad un battage pubblicitario tanto che mezza Italia ne è venuta a conoscenza.

Le testate televisive e giornalistiche andarono a gara per pubblicizzare questa insolita iniziativa benefica. Chiesi aiuto ai due miei vecchi collaboratori Graziella e Rolando Candiani, domandai il permesso alla Fondazione Carpinetum di utilizzare la sala da pranzo del Don Vecchi che alla sera era libera, in poco tempo abbiamo reclutato 60 volontari come camerieri ed organizzato al meglio l’iniziativa. Ci siamo messi in contatto con tutte le componenti cittadine che ritenevamo avessero sensibilità e conoscenza del settore del disagio sociale: i parroci, la San Vincenzo, la Caritas, la municipalità, l’apparato della sicurezza sociale, illustrando nei dettagli il progetto. Non volevo in maniera assoluta creare una nuova mensa per i poveri perché a Mestre ce ne sono già quattro: Ca’ Letizia, i frati cappuccini, la parrocchia di Altobello e la mensa Papa Francesco di Marghera. Queste mense funzionano benissimo, sono dignitose e soprattutto sono più che sufficienti per rispondere ad un tipo di povertà, che si rifà alla mendicità cronica, al disagio sociale, alla mancanza di tetto ed altro ancora. Con queste mense sono in contatto costante, tanto che ogni qualvolta abbiamo degli esuberi di alimenti li mandiamo ad esse. Quindi l’aspetto specifico ed innovativo della nostra iniziativa era quello di intercettare ed aiutare quelle persone, che per i motivi più disparati quali: disoccupazione, mobilità, malattia, famiglia monoreddito, o pensione insufficiente, pur decise di reinserirsi nel tessuto sociale normale, passavano un momento di difficoltà e che per educazione e dignità non bussano mai alle porte del Comune, delle canoniche o di suddette mense per i poveri. Questo discorso lo abbiamo fatto a chiare lettere alla stampa, alla televisione e a tutti i collaboratori sociali che abbiamo interessato con ogni mezzo attraverso comunicati stampa, lettere e telefonate.

Esito? Certamente insufficiente! In tre mesi abbiamo avuto come ospiti abbastanza intermittenti una cinquantina di persone, raccogliticce, che spesso avendo appreso dalla stampa l’iniziativa ed avendo scoperto che l’ambiente è bello, che si mangiava bene, però pareva non avessero alcuna voglia di superare il momento di disagio per reinserirsi normalmente nella società. Fare una diagnosi di questa situazione mi è alquanto difficile: o non ci sono poveri di questo tipo? O non c’è stata collaborazione sufficiente da parte degli operatori sociali: parrocchie, assistenti sociali, associazioni specifiche del settore? O io sono inviso da queste realtà, o le persone bisognose di questo tipo non riescono ad uscire allo scoperto e superare il disagio d’aver bisogno degli altri, oppure c’è un po’ di tutto questo! Comunque tutto ciò non mi permetteva moralmente di caricare di un onere consistente il benefattore che si è dimostrato tanto generoso senza che ci fosse un risultato tale da giustificare l’impegno finanziario, quello delle spese e del disagio del Centro e quello di tutti i collaboratori che hanno generosamente messo a disposizione il loro tempo, sottraendolo ai loro impegni. Siccome io non sono un uomo per tutte le stagioni soprattutto considero come mia unica padrona di casa la mia coscienza, avendo la sensazione di non aver raggiunto lo scopo del progetto che avevo sognato ho deciso di chiudere.

Ho piena coscienza di aver deluso e scontentato un po’ tutti: i signori Candiani, tanto generosamente una volta ancora a disposizione, i volontari, la Fondazione, il Comune, l’opinione pubblica e soprattutto il gruppo di utenti. Questo mi dispiace veramente, ma mi sarebbe dispiaciuto ancora di più fare qualcosa che per me non era del tutto morale.

Aggiungo che ho tentato di trovare una soluzione alternativa per chi aveva trovato comoda la soluzione della cena ad un euro. Per le famiglie ho ottenuto i generi alimentari ogni settimana del Banco Alimentare dell’associazione Carpenedo Solidale e pure i generi alimentari in scadenza dallo spaccio alimentare del don Vecchi, per gli anziani del Centro ho ottenuto il pranzo al prezzo dimezzato di euro2,50 e all’altra decina di utenti ho consigliato le mense dei Cappuccini e della San Vincenzo. Comunque tutte le persone che sono rimaste dispiaciute per la mia decisione possono continuare l’esperienza della cena, io fornisco loro l’indirizzo di chi mi ha generosamente aiutato: per la Fondazione Carpinetum il presidente don Gianni Antoniazzi, via San Donà 2; per il catering Serenissima Ristorazione il signor Mario Putin, via della Scienza 46 Vicenza, telefono 0444.348400.

L’opzione per cui sarei ancora disposto a mettermi in gioco sarebbe quella della fornitura, per asporto, a favore delle famiglie, dopo aver vagliato scrupolosamente la loro situazione. Questo però sarebbe possibile solamente se fosse potenziata la struttura del nostro centro di cottura ed aumentato il personale addetto.

Della scelta mi assumo tutte le responsabilità, e contemporaneamente ringrazio di tutto cuore chi si è messo a disposizione per la riuscita dell’impresa: la Fondazione, il signor Putin della “Serenissima Ristorazione”, i signori Candiani, tutti i volontari e la cuoca che s’è sobbarcata tanto lavoro straordinario perché il progetto andasse a buon fine. Da ultimo confido che ho capito ancor più lucidamente che a novant’anni è meglio che si lascino ai giovani queste “avventure” qualora essi avvertano il dovere di dare concretezza e verifica alla carità cristiana.

La povertà dignitosa

Io, sia alla San Vincenzo che in parrocchia e soprattutto alla mensa di Ca’ Letizia, ho toccato con mano che cosa sia la povertà con poca o con nessuna dignità: poveri grami, drogati, senza tetto, gente con poco comprendonio,viziosi, fannulloni, rissosi e via di seguito; sembra infatti che fra Mestre e Venezia vi siano almeno alcune centinaia di soggetti del genere. Sono comunque sempre stato convinto che si debbano aiutare anche questi fratelli meno fortunati o meno dotati d’intelligenza e di volontà.

Le prove di questa convinzione sono la mia pluridecennale militanza nella San Vincenzo e il mio impegno nella creazione e nella gestione della prima mensa per poveri a Mestre, con l’apertura del Ristoro di Ca’ Letizia, più di cinquant’anni anni fa assieme al mio vecchio parroco Monsignor Vecchi.

In verità soprattutto nei trentacinque anni in cui sono stato parroco ho incontrato anche qualche “caso” in cui la malattia o la morte del capo famiglia aveva ridotto all’indigenza alcune famiglie e per quanto ho potuto, soprattutto con la San Vincenzo, abbiamo cercato e talvolta siamo riusciti a offrire soluzioni efficaci. Questi casi però sono stati relativamente pochi. Nella mia comunità di quasi seimila anime si potevano contare sulle dita di due mani ma, se si cambia dimensione e ci si riferisce ad una città di 200.000 abitanti, questi “casi” diventano più consistenti.

Con l’apertura del “Ristorante Serenissima” intendevo intercettare questa “povertà dignitosa” e non quella di mestiere o di abitudine ma finora non ci sono ancora riuscito. Sono forse cinque o sei le famiglie in queste condizioni che vengono a cenare nel nostro “ristorante” (dico “ristorante” non per vezzo ma perché è tale!) e forse sono una decina i frequentatori singoli mentre gli altri trenta, quaranta sono “parenti prossimi” di quelli che frequentano le quattro mense per poveri esistenti a Mestre.

Non ho ancora perso la speranza di riuscire ad aiutare “i poveri dignitosi” ma sono vicino a perderla ma per ora mi conforta l’escamotage di offrire la possibilità dell’asporto della cena per consumarla a casa propria in famiglia e ogni sera le cene asportate sono più di una ventina. Confesso che mi sarei aspettato un risultato migliore dai parroci e dall’apparato quanto mai consistente degli operatori dell’Assessorato alla Sicurezza Sociale, comunque sono ancora lontano dallo sventolare la bandiera bianca. La vita è un combattimento!

L’offerta dell’ateo

Recentemente ho letto nella rubrica “Lettere al Direttore del Gazzettino” l’esternazione insolente e malevola contro i miei recenti interventi, riportati dalle testate cittadine su “Il Ristorante” per le famiglie povere e sul dramma dell’ingegner Cecchinato, inviata da una signora di Venezia che si è dichiarata atea. Questa signora si è erta a maestra per dirmi quello che dovevo dire e che dovevo fare.

La redazione de Il Gazzettino mi ha fatto pervenire la lettera offrendomi la possibilità di rispondere e io le ho risposto per le rime. Confesso che ho provato anche un certo rimorso pensando al “Porgete l’altra guancia” di Gesù ma poi è prevalsa la convinzione che ormai è ora di finirla con chi si erge a giudice e maestro quando in realtà è solo un soggetto pieno di sé e quanto mai settario.

Io ripeto, ancora una volta, di non avere nulla contro chi non crede perché sono convinto che si possa dialogare per crescere insieme e soprattutto per lavorare insieme alla costruzione di un mondo migliore. Il dualismo tra il credere e il non credere sembra una questione particolarmente difficile da conciliare, io comunque sull’argomento ho sempre mantenuto ben saldi due riferimenti: le affermazioni di Sant’Agostino e di Papa Giovanni XXIII. Sant’Agostino afferma che: “Ci sono persone che la Chiesa possiede e Dio non possiede e altre che Dio possiede e la Chiesa non possiede” e questo rende veramente difficile distinguere chi è credente da chi non lo è, mentre Papa Giovanni XXXIII, rivolgendosi sia agli uni che agli altri, afferma: “Sono infinitamente di più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono”.

Con la visione che scaturisce da queste due massime mi sono sempre trovato benissimo con le persone perbene sia che fossero credenti sia che non lo fossero. A conferma di ciò l’altro ieri ho ricevuto questa lettera: “Sono l’ateo che altre volte le ha inviato un modesto obolo perché so che lei ne fa buon uso non come farebbero molti prelati della Curia romana. A lei non assegnano nessun titolo onorifico ecclesiale ma quello che le assegnano le persone che la conoscono vale molto di più. Tra i motivi per cui non mi firmo c’è anche la vergogna che provo nel non poter offrire di più”. Firmato: un ateo che ammira chi si impegna per gli altri. Allegati euro 50. Questa mattina poi la figlia e il genero dell’ingegner Ernesto Cecchinato mi hanno donato altri cento quadri dipinti dal loro padre che mi stimava e mi voleva bene. Con atei del genere non solo possiamo andare d’accordo e impegnarci a costruire un mondo migliore ma io credo che possiamo anche entrare in Paradiso tenendoci per mano.

L’importante è seminare

Una delle utopie a cui ho sempre aspirato è quella di trasformare Mestre in una città solidale. Questa scelta non è nata come una propensione a una filantropia civile ma dalla convinzione profonda che la pratica religiosa, se non diventa solidarietà, rimane pietà fatua ed inconsistente.

L’inizio di questo mio cammino ha avuto origine con l’incontro casuale che ebbi, più di mezzo secolo fa, con un minuscolo gruppo della San Vincenzo presso la parrocchia del Duomo di Mestre. Mi parve allora che Federico Ozanam avesse suggerito un metodo e una finalità alquanto concreta ed anche se non aspirava a risolvere radicalmente il problema dei poveri aveva posto un mattone reale per creare questa struttura o, per dirla come madre Teresa di Calcutta, una goccia che contribuisce a dare vita al grande oceano. In qualche decennio la San Vincenzo crebbe, si diffuse in moltissime parrocchie, acquistò credibilità a livello della città e diede vita ad una serie di iniziative concrete, alcune delle quali ancora vive: Ca’ Letizia, il Ristoro, il mensile il Prossimo, il guardaroba, le docce, il barbiere, le vacanze per i vecchi e per gli adolescenti e le attività di formazione dei ragazzi alla solidarietà.

La seconda fase di questo progetto la sviluppai in parrocchia a Carpenedo con il Ritrovo, con Villa Flangini, con i Centri Don Vecchi e con la Bottega Solidale.

La terza fase si è concretizzata nel dopo pensione con il Polo della Solidarietà: vestiti, mobili, arredo per la casa, supporti per gli infermi, il Banco alimentare, lo spaccio per i generi alimentari in scadenza, il chiosco di frutta e verdura e il Ristorante Serenissima, ultimo nato.

Queste strutture penso abbiano fatto crescere lentamente una mentalità solidale a livello cittadino: vedi i numerosi lasciti, le eredità veramente consistenti che non possono essere giustificate se non dalla crescita di questa mentalità solidale. Prova ne sia: l’eredità Saccardo, il lascito dell’ingegner Cecchinato e il lascito di Anita Bergamo, ultimi segni di questo “campo coltivato” e ormai in fiore. L’origine di questa primavera della solidarietà è sempre la stessa: seminare gesti concreti di carità cristiana che prima o poi fioriranno e porteranno frutto.

I soccorritori dei poveri

L’aspetto della pastorale che riguarda i poveri mi ha sempre interessato quanto mai perché da sempre sono convinto che se la religione alla fin fine non diventa solidarietà si riduce ad essere “aria fritta”. Per questo motivo ho speso metà della mia vita per aiutare i più poveri della nostra società e l’altra metà per stimolare le parrocchie e i singoli cristiani a impegnarsi seriamente in favore dei poveri.

Sono dovuto arrivare però a questa veneranda età per comprendere che non basta darsi da fare per aiutare chi è in difficoltà organizzando la comunità per recuperare quello che serve per prestare questo soccorso perché, fino a quando non si riesce a calarsi nella realtà in cui vive il povero, si rischia di fare solo della beneficenza ma ben difficilmente “ci si fa prossimo” come ci ha insegnato Gesù nella parabola del Buon Samaritano.

Qualche giorno fa sfogliando un giornale mi è capitato sotto gli occhi l’immagine di una giovane donna che con i sandali ai piedi cammina sulle dune di sabbia del deserto. La didascalia informava che si trattava di una “piccola sorella di Gesù”, ossia un’appartenente a quella congregazione religiosa che si rifà alla testimonianza di Charles de Foucauld, religioso che ha insegnato che per comprendere e aiutare i poveri bisogna vivere “come loro”.

La fotografia mi ha fatto venire in mente un episodio di tanti anni fa. Un giorno, alla porta della mia canonica, bussarono due giovani donne, una francese e una di Napoli, “due piccole sorelle di Gesù”, che mi chiesero se potevo aiutarle a trovare un lavoro perché avevano esaurito la loro piccola scorta di denaro. Dissi prontamente che avrei provveduto io ma gentilmente mi risposero che il pane volevano guadagnarselo. Proposi allora alcune soluzioni che mi sembravano confacenti alla loro condizione di suore ma gentilmente rifiutarono nuovamente: “Noi vogliamo vivere come le donne più povere, quindi le saremmo grate se ci trovasse un lavoro umile come lavare le scale”.

Capii allora che per occuparsi veramente e in maniera efficace dei poveri bisogna calarsi nella loro condizione esistenziale. Ho tentato. Quando sono andato in pensione infatti ho scelto di vivere al Don Vecchi come gli anziani poveri che ho cercato di aiutare però, quando entro nel mio studiolo, stanzetta di cui nessuno di essi dispone, mi sento sempre un po’ in colpa!

Un incontro desiderato

Alcune settimane fa mi è stato chiesto dalla Fondazione di scrivere una lettera al Sindaco per elencare i punti critici dei Centri Don Vecchi al fine di superarli lavorando in sinergia con il faraonico apparato comunale. Ho scritto, come mi viene naturale, una lettera con tanto pepe chiedendo al Sindaco un colloquio per mettere a punto il rapporto che io ritengo assolutamente necessario con l’ente pubblico, rapporto in cui il ruolo dell’ente pubblico ritengo non debba essere quello di gestire i servizi sociali ma quello di svolgere una regia intelligente per tutte quelle realtà di base a cui, a vario titolo, sta a cuore il bene della comunità.

Quando, durante la campagna elettorale, ho avuto modo di incontrare l’aspirante Sindaco gli ho chiesto di instaurare un rapporto privilegiato con il “privato sociale” e più volte mi sono permesso di suggerirgli di mantenersi alla larga dai sindacati, dai centri sociali, dai “comitati no a tutto” e dalle nobildonne che quando s’incontrano per il tè si sentono delle dogaresse.

Ho fatto presente al Sindaco, come detto, alcuni punti critici della Fondazione, anche se essa naviga con il vento in poppa. Avrò modo, in altre occasioni, di ritornare su queste criticità per le quali è necessario il dialogo con l’Amministrazione Comunale così come è necessario per il Comune dialogare con una realtà che mette a disposizione quasi 500 alloggi per gli anziani più poveri e che rappresenta una delle strutture più avanzate e moderne per la loro domiciliarità.

Le sensazioni che ho avuto dal colloquio sono state sostanzialmente positive. Brugnaro mi è parso un uomo intelligente, concreto, con un’ottima conoscenza dei problemi, estraneo al politichese degli uomini di partito, con idee e obiettivi condivisibili, totalmente allergico alla dialettica fatua ed inconsistente degli amministratori impreparati e sapientoni espressione dei partiti di qualsiasi colore, pragmatico e in rottura con la prassi amministrativa di una sinistra che ha portato al limite del fallimento il nostro Comune. Se penso però a tutto quel mondo clientelare e interessato che dovrebbe sradicare, temo che non gli basti la semplice Ave Maria serale che gli dedico, forse non gli basterebbe neppure l’intero Rosario.

Appelli caduti nel vuoto

Carissimi amici, sono consapevole che spesso approfitto della vostra cortesia e benevolenza, comunque per vostra consolazione vi preannuncio che con la fine di quest’anno cesserò di tediarvi ripetendo spesso le solite cose. A mia giustificazione vorrei citare una bella preghiera che qualcuno ha composto pensando ai limiti che l’età impone all’anziano. Nella preghiera che è intitolata: “Le beatitudini dell’anziano” c’è una frase che recita pressappoco così: “Beati quelli che non mi fanno osservare che quella cosa l’ho detta più volte e perciò la ascoltano come fosse la notizia più interessante del mondo”.

Fatta questa premessa e offertavi questa “beatitudine” interessata vengo al motivo per il quale vi chiedo, per l’ennesima volta, di pazientare se ritorno su un argomento che so di aver già trattato: l’apertura del “Ristorante Serenissima” per le famiglie in difficoltà. Questo “ristorante” è aperto da tre giorni però delle 110 cene offerteci dal signor Mario Putin del “Catering Serenissima” finora ne utilizziamo solo 40 per mancanza di “clienti”. Lo staff che mi ha aiutato nell’organizzazione di questa “impresa” ce l’ha messa tutta: ha scritto a tutti i parroci, ha preso contatto con le assistenti sociali del Comune, con la Municipalità, con la Caritas e con la San Vincenzo. La collaborazione delle testate giornalistiche locali: Gazzettino, La Nuova, il Corriere, Gente Veneta e delle emittenti Raitre, Tele Venezia, Tele Chiara, Rete Veneta, Antenna Tre, Telepace è stata veramente meravigliosa e non avrebbero potuto fare di meglio. La risposta all’appello per la ricerca di volontari è stata entusiasmante: sessanta volontari di tutte le estrazioni sociali e di tutte le età si sono offerti in pochissimi giorni. La disponibilità della famiglia Putin del catering “Serenissima Ristorazione” è stata prontissima e generosa, come pure quella della cuoca che è di una bravura eccezionale.

Fatta questa premessa sono costretto a concludere che o a Mestre non ci sono più poveri, ma di questo dubito fortemente perché ogni settimana più di 3000 persone si presentano al Don Vecchi per ritirare i generi alimentari, oppure chi dovrebbe conoscere chi è povero e bisognoso di aiuto ed essere qualificato per offrire l’aiuto necessario o non conosce queste persone oppure non è interessato alla loro sorte. Questo discorso è assai amaro però non saprei a quale altra causa imputare questa poca adesione.

I miei dubbi

Qualche tempo fa, pur cosciente di essere un semplice untorello di periferia, riflettendo sulla questione terribilmente complessa dei profughi, anche se in maniera faceta, sono arrivato a proporre soluzioni concrete. In quel momento non ho riscontrato alcuna reazione perché i lettori de “L’incontro”, che sono persone buone ed intelligenti, certamente avevano capito che le mie esternazioni di vecchio prete non avevano la presunzione di far credere che avessi la soluzione del problema in tasca, soluzione che pare non abbiano neppure i massimi responsabili ed esperti sia nazionali che mondiali. Credo che tutti abbiano capito che si trattava solamente di una provocazione per stimolare chi ha competenze e responsabilità a impegnarsi più sollecitamente almeno per approcciare il problema in maniera più seria. Nella mia proposta, come ultimo punto, auspicavo che la Guardia di Finanza, un giorno sì ed un giorno sì, facesse delle verifiche sul comportamento delle cooperative e degli enti pubblici perché non lucrassero più di tanto sulla disperazione dei profughi. Il mio discorso non era poi così ballerino e personale perché ormai l’intera nazione è venuta a conoscenza del comportamento e delle truffe che certe cooperative romane, in odore di mafia, hanno perpetrato ai danni dello Stato e sulla pelle di quei poveri disperati che purtroppo si illudono che l’Europa darà loro accoglienza per trovare finalmente un po’ di serenità.

Ora vengo al motivo di questa lunga premessa. Il giorno dopo l’invito del Papa, rivolto ad ogni comunità cristiana, di offrire un alloggio ad una famiglia di profughi, si è riunito il Consiglio di Amministrazione della Fondazione Carpinetum. Io, pur non facendone più parte, ero stato invitato a partecipare a quella riunione di Consiglio. In quell’occasione si è discusso dell’invito del Pontefice e, anche su mia pressione che poi si è rivelata superflua, il Consiglio, seduta stante, ha messo a disposizione due alloggi. Il primo – che è al Don Vecchi – è già stato fatto ridipingere mentre per il secondo, che si trova alla Cipressina, si stanno spendendo euro 20.000 per la ristrutturazione. Di tutto questo mi sento veramente orgoglioso. Ho comunicato al Patriarca la disponibilità della Fondazione però sono passati quasi due mesi e nulla si è mosso. Non vorrei che la mafia fosse giunta anche a Venezia! Tra un po’, in mancanza di segnali positivi, proporrò di ritirare la disponibilità perché per quel che mi riguarda è doveroso pretendere serietà sia dallo Stato che dalla Chiesa!

Il ristorante Serenissima

Quando usciranno queste mie note, le sorti della nuova e pressoché unica esperienza di un ristorante vero e proprio destinato alle famiglie e ai singoli che con dignità affrontano il loro disagio economico saranno già segnate, mi auguro di tutto cuore in maniera assolutamente positiva. Mi pare però opportuno fare il punto e tirare le conclusioni della fase preparatoria. Nel momento in cui sto scrivendo mancano meno di una manciata di giorni alla sua inaugurazione. Devo sottolineare che in questa avventura le cose positive sono moltissime però vi sono anche delle lacune abbastanza deludenti che spero si risolvano nelle prossime settimane. Credo che di ogni impresa in cui si cimenta l’uomo sia doveroso sottolineare il bianco e il nero: il bianco per offrire speranza e positività e il nero per combattere i demoni dell’indifferenza e del disimpegno. Comincio con il sottolineare le positività di questa avventura

Ritengo doveroso ricordare a tutti la prontezza e l’assoluta disponibilità con le quali la famiglia Putin di Vicenza, che gestisce la grande impresa “Serenissima Ristorazione”, ha risposto alla richiesta di questo vecchio prete, a loro sconosciuto, che chiedeva 110 pasti al giorno gratis per i poveri.

Quando si è posto il problema dello staff di governo ho richiamato in servizio Graziella e Roberto Candiani, ormai “pensionati” dopo 20 anni di assoluta dedizione al prossimo, e il sì è stato immediato ed entusiasta.

L’esigenza di reperire “manovalanza”, dopo il deludente comportamento degli scout sui quali, avendone fatto l’assistente per mezzo secolo contavo in maniera assoluta, si è risolta quando mi sono rivolto direttamente alla città e in una settimana ben 60 volontari di ogni ceto e di ogni età si sono offerti per svolgere questo servizio.

Infine desidero ringraziare per la splendida collaborazione ricevuta i giornali e le emittenti locali: sono stati veramente magnifici e non avrebbero potuto fare di meglio.

Tra le note dolenti mi duole annoverare la mancata risposta delle parrocchie, delle assistenti sociali, della Caritas, della San Vincenzo e della Municipalità, soggetti che dovrebbero essere gli specialisti del settore.

Mi auguro che alla sordità e alla lentezza iniziale segua un impegno serio, positivo ed efficiente. Purtroppo non tutte le ciambelle riescono con il buco.