Una università diversa

Una quindicina di anni fa operava a Mestre un giovane frate antoniano che viveva nella parrocchia del Sacro Cuore in via Aleardi. Questo sacerdote aveva l’incarico di occuparsi dell’assistenza religiosa degli operai di Marghera. Il nostro polo industriale stava già allora sfaldandosi, ora poi è ridotto ad un cumulo di rovine.

I padri antoniani sono stati gli ultimi sacerdoti, seguendo la strada aperta da don Armando Berna, che han fatto dell’evangelizzazione degli operai di Marghera lo scopo principale della loro vita. Ebbene, fra questi c’era questo giovane frate, particolarmente intelligente, che aveva grande fascino sui giovani di Mestre.

In quel tempo, nella mia parrocchia di allora, avevo una quarantina di giovani della San Vincenzo, divisi in due gruppi, che ci facevano sognare e che rappresentavano la primavera dell’impegno caritativo della comunità cristiana. Essi allora subivano il fascino di questo giovane seguace del poverello di Assisi ed un giorno lo invitarono a parlar loro e ai loro amici sull’azione caritatevole della Chiesa. Partecipai anch’io all’incontro. Quel frate aveva veramente un fascino particolare, sapeva parlar bene,ma soprattutto entusiasmava quando parlava del servizio ai poveri.

Nel dibattito che seguì la conferenza, qualcuno gli chiese se era laureato ed egli, con disinvoltura affermò: «Si, mi sono laureato all'”università della strada”», riferendo le esperienze che i suoi superiori gli avevano fatto fare a favore degli ultimi. Quel “titolo accademico” mi impressionò alquanto capendo che i preti, ma non solamente, devono fare esperienze, vivere per i poveri, con i poveri e come i poveri. Parlare, anche in maniera forbita, sulla carità, può destare anche entusiasmo, però solamente l’esperienza concreta matura una sensibilità atta a capire, condividere e far proprio il dramma dei poveri.

L’altro giorno mi è capitato di leggere il decalogo dell’amore che passava sotto il titolo “La prova del mille”, scritto da madre Teresa di Calcutta, in cui venivano offerte dieci regole che sono la prova del nove della carità. La prima di queste regole afferma: “Mille discorsi sulla carità non valgono un’opera buona”.

Credo veramente, come diceva san Vincenzo, il fondatore delle “conferenze”, che solo salendo le scale dei poveri, sedendo nello squallore delle loro case, si matura alla vera carità. Don Ciotti in una sua intervista pubblicata recentemente, confessava che il suo vescovo, il cardinal Pellegrino, l’aveva nominato “parroco della strada”.

Oggi il nostro Papa Francesco pare che ci spinga un passo più in là quando ci invita ad andare nelle “periferie dell’uomo” e ce ne dà poi un esempio personale, quanto mai fulgido, con le sue telefonate, con le sue interviste ai “poveri della fede”, la sua vita di pontefice che ha abbandonato ogni sfarzo nel vestire, nel parlare e nell’agire, perché parlino solamente le sue scelte e i suoi gesti.

Per la Chiesa è ormai tempo di uscire dalle sue sagrestie, dai suoi campanili e dai suoi riti per essere solidale con chi soffre e con chi è solo e povero. E’ tempo di “scendere per strada”.

Preoccupazione esagerata

Qualche tempo fa è morto don Gelmini, dopo una lunga malattia ed una vicenda giudiziaria che purtroppo non s’è conclusa proprio a causa della sua morte.

Questo prete, essendo stato accusato da parte di giovani drogati che egli aveva accolto nella sua comunità, aveva chiesto al Papa di essere ridotto allo stato laicale perché voleva provare la sua innocenza da cittadino normale e non aver sconti o difese supplementari per essere prete. Già per questo, se non fosse per l’opera veramente colossale a favore della gioventù, penso che meriti la stima e il rispetto di tutti.

Ora, in occasione della sua morte, sono stato quasi costretto a riflettere e ad onorare una certa serie di preti e di laici che hanno subito condanne ed hanno sofferto dalla Chiesa, a causa della loro appassionata ricerca della verità, o per un amore veramente radicale al prossimo, oppure ancora per un bisogno profondo di aiutare la Chiesa a porsi sul solco della storia e a dialogare col mondo di oggi.

Io non ne conosco che alcuni di questi cristiani e preti progressisti, però essi sono delle personalità forti, coraggiose, aperte al dialogo e in ricerca di nuovi e più ampi orizzonti. Mentre altri preti, che si nascondevano dietro vecchi canoni o dietro una tradizione chiusa e sorda al mondo, han ricevuto solo onori. Non oso condannare la gerarchia, perché l’amore alla Chiesa che di certo li animava, forse li ha resi eccessivamente prudenti, o forse succubi della pressione della maggioranza, che è di natura conservatrice, però reputo che certe testimonianze cristiane di uomini che potranno anche aver fatto qualche sbaglio per eccesso di zelo, vanno recuperate e, come si diceva in gergo politico, riabilitate. Perlomeno vanno sottolineati gli aspetti nobili e validi del loro modo particolare di amare la Chiesa.

I miei amici mi permettano di fare alcuni nomi di persone che hanno sofferto dalla Chiesa, pur avendola amata in modo così nobile e alto da servirla nonostante essa sia stata tanto pesante nei loro riguardi.

A don Gelmini, apostolo dei tossicodipendenti, debbo aggiungere don Zeno, il fondatore di Nomadelfia, la città il cui unico codice di vita è l’amore evangelico. Don Zeno, venutogli a mancare l’aiuto di un benefattore insigne, pieno di debiti a motivo dei suoi “figlioli”, chiese pure lui la riduzione allo stato laicale per far fronte alle sue difficoltà e per non coinvolgere la Chiesa.

Come non ricordare il nostro conterraneo di Pellestrina, don Marella, che fondò a Bologna la città dei ragazzi, che mendicava sulla pubblica via per dar loro da mangiare, e che fu espulso dalla Chiesa per aver ospitato un amico scomunicato per le sue idee moderniste.

E ancora, come non onorare la memoria di don Mazzolari, confinato nella piccola parrocchia di Bozzolo ed impedito di predicare; o don Milani, confinato in una comunità di quaranta persone nell’alto Appennino.

Purtroppo nella Chiesa non sono pochi i preti coraggiosi, intelligenti ed aperti al nuovo, messi da parte mentre tanta altra gente mediocre ed allineata ha avuto una carriera facile. Purtroppo anche nella Chiesa spesso predomina la paura del nuovo che invece porta con sé il volto del Risorto.

Oggi

Normalmente inserisco all’interno de “L’Incontro” degli inserti. Qualche settimana fa ne ho dedicato uno a Etty Hillesum.

Ho conosciuto questa ragazza ebrea olandese, travolta dalla tragedia dell’olocausto, morta, non ancora trentenne in uno dei peggiori lager nazisti, leggendo il suo diario che recentemente è stato nuovamente pubblicato. Confesso che gli scritti di questa giovane mi hanno offerto le riflessioni più umane e religiose che abbia mai letto in questi ultimi vent’anni.

Spendo due parole per inquadrare la storia e la testimonianza di questa ragazza che, partendo da una vita frivola e poco morale, incontra uno psicoterapeuta, se ne innamora, poi però, nonostante queste premesse e questo rapporto ambiguo, approfondisce il discorso religioso, arriva alla fede e la vive in maniera così profonda da diventare testimone di una religiosità veramente sublime che la portò a condividere lucidamente il dramma del suo popolo, immolandosi con esso.

Spesso vedo citare, sulle riviste più serie, pensieri di questa donna che a mio parere sarebbe opportuno conoscere meglio perché ha veramente molto da dare.

Torno all’inserto de “L’Incontro”. La Hillesum afferma: «Una volta vivevo sempre in una fase preparatoria di qualcosa di diverso, di grande e di vero. Ora questo sentimento è cessato, vivo pienamente; la vita vale la pena di viverla ora, oggi, in questo momento e se sapessi di dover morire domani direi: “mi dispiace molto, ma così com’è stato è stato bene”».

Questa riflessione mi ha costretto a riflettere perché capita anche a me di non vivere appieno quello che sto facendo, quello che sto vivendo; invece di viverlo come preparazione o come premessa del domani, di quel domani che scivola sempre più avanti come qualcosa di imprendibile e di evanescente, mi pare di capire che il dono della vita lo debbo cogliere oggi, anche se quello che sto facendo può sembrarmi banale e soprattutto che il suo valore sia dato dal sogno o dal progetto che sto rincorrendo e che quasi certamente finirò per rincorrere per tutta la vita.

Ho confidato ai miei amici che sto leggendo un libro di Fusco che racconta la vita di monsignor Valentino Vecchi, un prete che ho conosciuto, col quale ho condiviso molte avventure e molti progetti. Il volume di Fusco sta riportandomi alla memoria le mille imprese, le mille realizzazioni; infatti il mio vecchio parroco ha vissuto una vita molto intensa, ha realizzato tante opere, veramente colossali. Però che cosa oggi queste realizzazioni possono aggiungere di intensità, ebbrezza, gioia, speranza, al suo passato? Quasi tutti lo hanno dimenticato, chi abita le strutture che lui ha creato con tanti sacrifici, tante ansie e rischi, le da per scontate, neppure si domanda a chi deve questi doni. Così sarà certamente per me e per tutti. Se voglio esser saggio non posso far altro che accettare quello che la vita mi porge in ogni momento, spremere dal presente il nettare, la ricchezza per vivere una vita vera e non esser come Godot che attende, cerca e spera ciò che non arriverà mai.

21.08.2014

Apertura degli archivi segreti

Alcuni anni fa don Franco De Pieri, erede e ultimo collaboratore di monsignor Vecchi, ha dato vita ad una fondazione che portava il suo nome. In occasione di una qualche ricorrenza significativa della vita e della morte di monsignore, attraverso questa fondazione, don Franco ha pubblicato un opuscolo che raccoglieva le testimonianze di diverse persone che avevano avuto rapporti con questo sacerdote il quale ha ben meritato nei confronti della nostra città.

Sono cosciente che ad oltre trent’anni dalla sua morte molti mestrini conoscono il nome di don Vecchi perché i nostri Centri, che abbiamo voluto portassero il suo nome, l’hanno reso universalmente noto, pochi però conoscono la vita e le opere di questo monsignore. Per questo motivo ho pubblicato su “L’Incontro” testimonianze che lo riguardano estrapolandole da suddetto opuscolo.

Avendo esaurito tali testimonianze, ho chiesto al prof. Andrighetti, che sapevo aveva anche lui pubblicato un volume sui sermoni e sulle meditazioni di monsignore, se aveva qualche scritto da offrirmi. Il signor Andrighetti, con tanta gentilezza, mi ha regalato non solamente il suo volume, ma anche quello scritto dal giornalista di Gente Veneta Paolo Fusco.

Il volume di Fusco mi era già stato donato, ma l’ho smarrito al tempo del trasloco da Carpenedo al “don Vecchi”. Ho cominciato a leggere la biografia di Fusco non solamente perché Fusco ha uno stile agile e piacevole, ma anche perché per più di un trentennio sono vissuto a stretto contatto con monsignore, prima perché suo allievo al liceo, poi come suo cappellano a San Lorenzo e quindi come sacerdote nella chiesa mestrina di cui lui era il delegato del Patriarca.

La storia di monsignore è perciò quanto mai intersecata anche col mio passato e quindi ero quanto mai curioso di conoscere certi retroscena che non avevo mai conosciuto: opinioni nei miei riguardi da parte dei protagonisti della Chiesa veneziana di quei tempi ed anche progetti, reazioni di monsignore che m’erano ignoti.

La lettura del volume mi ha dato la sensazione della scoperta di trame sconosciute della storia, che vengono a galla solamente quando i preposti agli archivi o l’autorità autorizzano la loro consultazione. Fusco ha fatto un lavoro immenso e sta facendomi conoscere un monsignor Vecchi che assolutamente non conoscevo.

Tornerò di certo su questo volume perché ha fatto luce obiettiva su decenni della storia della Chiesa veneziana. A mò di esempio sono venuto a sapere che monsignore ambiva ad essere il responsabile della Chiesa mestrina, mentre Patriarca e curia erano e sono ancora lontani mille miglia da questa visione.

Monsignore desiderava abbandonare la mansione di parroco per vivere appieno quella di delegato patriarcale – e questo lo sapevo perché aveva già comperato la sede a tale scopo – non sapevo però che mi aveva ingenuamente proposto come parroco di San Lorenzo, cosa che era inimmaginabile. Anche don Vecchi fu un ingenuo.

12.09.2014

Io, tu, Dio

Credo che il cardinal Ravasi sia pressappoco il “ministro della cultura” della Chiesa cattolica. Io ho avuto modo di conoscerlo attraverso dei “talloncini” che per anni ha pubblicato sul quotidiano dei vescovi italiani “Avvenire”. In prima pagina, appena sotto il titolo, pubblicava ogni giorno un “pezzo” quanto mai contenuto come numero di righe, ma di straordinaria intensità di pensiero.

So che Ravasi è un sacerdote lombardo, che era il titolare della Biblioteca Ambrosiana e che svolgeva un’intensa attività di ordine culturale. Di questo sacerdote possiedo alcuni volumi regalatimi da amici, che raccolgono i suoi interventi sulla stampa e, tra gli altri, uno che risponde alle obbiezioni e alle problematiche più difficili del cristianesimo e della Chiesa. La sensazione che ho avuto da questa lettura è quella di trovarmi di fronte un uomo di una intelligenza sopraffina e di una cultura vastissima, anzi mi verrebbe da dire illimitata.

Leggendo queste opere, tante volte mi sono chiesto: “Come è mai possibile tanta intelligenza ed altrettanta cultura?”. Per me leggere le opere di Ravasi è sempre stato difficile perché lui vola troppo in alto e faccio fatica a seguirlo; usa dei passaggi assai difficili che mi fanno prendere coscienza della mia inadeguatezza a seguire discorsi tanto impegnativi.

Delle signore del gruppo “I figli in cielo” – mamme che hanno perduto tragicamente figli giovani, – che non so per quale motivo lo conoscevano, mantenevano con lui rapporti tanto familiari da riuscire a portarlo, due o tre anni fa, a celebrare e a fare una lezione sull’aldilà in basilica di San Marco. Queste signore mi hanno riferito che in realtà è un uomo semplice e alla mano.

La Chiesa, prima gli ha offerto questo importante dicastero e poi, un anno fa, gli ha concesso la porpora cardinalizia.

Ravasi poi è stato un collaboratore del cardinal Martini di Milano e con lui ha creato la famosa “Cattedra dei Gentili”, attraverso la quale la Chiesa ha tentato un dialogo positivo con i credenti.

Date queste premesse, qualche giorno fa un mio amico, per la seconda o terza volta, mi ha portato il periodico della Confindustria “Il sole 24 ore”, ove Ravasi pubblica la rubrica “Breviario”. Nell’ultima copia che mi ha portato, sotto il titolo “Io, tu, Dio”, ho letto un trafiletto che riporto integralmente, perché credo che questa tesi di Ravasi sia una tesi che anch’io confusamente ho cercato di mettere a fuoco per tutta la vita e ritengo la “chiave” con cui ho tentato e sto tentando ancora di aprirmi al mistero di Dio.

Oggi lo offro agli amici come “una perla” evangelica di grande valore.

BREVIARIO

Io, tu, Dio

Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre. Mi ha impressionato – a tal punto da rimanermi infissa nella memoria – una battuta del filosofo francese Emmanuel Lévinas: «Io non so chi sono prima di incontrare te». L’altro è lo specchio che ti permette di conoscere il tuo volto perché con te condivide l’umanità, l’anima, la mente, la vita. Ebbene, la considerazione sopra citata fa un passo in avanti e ci invita a scoprire nell’altro anche il volto di Dio. A suggerire questa esperienza è quel visionario che fu William Blake, poeta e artista nutrito delle Sacre Scritture. La sua intuizione è debitrice di una pagina evangelica nella quale Cristo rivela che il suo viso si cela dietro i profili miseri degli ultimi dei nostri fratelli affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati (Matteo 25,31-46). È nell’amore autentico che incontri il tuo io, l’altro e Dio.

Gianfranco Ravasi

10.09.2014

Croce e delizia

Il diario è, o dovrebbe essere, di per se stesso, l’immagine e l’espressione dei sentimenti di chi lo scrive. Credo che il mio diario rispecchi fin troppo bene lo stato d’animo e la reazione agli eventi nei quali sono coinvolto.

Faccio ancora una volta questa premessa per giustificare il mio intervento su un argomento su cui mi sono espresso anche in questi ultimi giorni, cioè il volontariato.

Ho scritto recentemente che nutro una certa preoccupazione per il presente e per il prossimo futuro delle quattro associazioni di volontariato che rappresentano l’osso portante del “Polo solidale” del “don Vecchi”, presso il quale ogni giorno accorrono migliaia di concittadini e di extracomunitari a chiedere aiuto. Le difficoltà in questo settore non mi sono assolutamente nuove. In passato sempre si sono ricomposte, però ogni volta mi preoccupano fino all’angoscia per il timore che possa venir meno questo aiuto ai poveri e che venga a mancare alla nostra Chiesa veneziana la testimonianza più significativa della sua concreta attenzione al dramma dei fratelli più poveri.

Un esercito di volontari, non pagati, non fortemente motivati, non addestrati per quello che devono fare, è difficile da guidare, ma se questo esercito recluta i suoi “soldati” dal mondo veneziano in cui impera sovrano ed incontrastato l’individualismo, la cosa diventa ancora più difficile.

Qualche giorno fa ho ricordato che i volontari della comunità di Sant’Egidio che ho incontrato negli anni scorsi mi sono apparsi profondamente motivati da valori religiosi. La scelta di mettersi a disposizione del prossimo poggia sulla parola di Cristo, mentre la mia gente l’ho reclutata così come veniva e m’è parso per molto tempo di non dover premere più di tanto sui princìpi e i valori cristiani di fondo, pensando che il fatto stesso che si mettessero a disposizione del prossimo li mettesse automaticamente in linea con l’insegnamento evangelico.

Tra i duecento volontari che lavorano al “don Vecchi” vi sono fortunatamente anche dei cristiani seri e coerenti, non sempre però la loro testimonianza incide più di tanto e pare riesca a dare un tono e delle fondamenta più solide di quel senso di pura beneficenza che sembra essere l’elemento più diffuso. A loro merito, per quello che riguarda la costanza, la presenza nei giorni concordati, va detto che, eccetto qualche elemento, quasi tutti pare abbiano accettato di svolgere con serietà il servizio scelto.

In questa situazione avvertendo più che mai la mia fragilità, non mi resta, come Mosè, che stare con le mani alzate in preghiera e dare la mia povera testimonianza di fedeltà e perseveranza nonostante il passare degli anni. Spero tanto che basti e soprattutto arrivi un giovane prete a riordinare questo esercito di Brancaleone irrequieto, poco disponibile e non del tutto motivato.

Il piedestallo

Ricordo che forse due o tre anni fa ho scritto un paio di volte sull’ex allenatore della nostra nazionale di calcio, tessendone le lodi.

Da quello che mi ricordo la mia ammirazione per Prandelli nasceva dal fatto che preferiva al ruolo di tecnico, quello dell’educatore che puntava a fare della squadra un gruppo di amici e che aveva a cuore non solamente di formare un gruppo di bravi professionisti del calcio, ma uomini veri, ricchi umanamente.

Avevo letto poi da qualche parte che sia quando frequentava l’oratorio in parrocchia che quando cominciò a fare l’allenatore di squadre minori, non tollerava la violenza, la scorrettezza, la slealtà, lo scambio di denaro e soprattutto una vita viziata da parte di questi giocatori che sono sempre strapagati. Queste scelte e questo orientamento mi pareva quanto mai serio, lodevole e umanamente tanto nobile.

Avevo letto ancora che sua moglie si era ammalata di tumore e lui l’aveva assistita con grande amore, arrivando ad allontanarsi per due anni dalla sua professione per rimanere in famiglia con i suoi due figli per essere più vicino alla sposa ammalata. Tutto questo non aveva fatto che aumentare la mia stima e la mia ammirazione. Mi è parso tanto bello che in un settore che interessa le masse popolari, un uomo integro, dalle idee chiare e dalla vita sana, offrisse una testimonianza quanto mai preziosa ed esemplare.

Sennonché mi caddero le braccia quando lessi per caso in un giornale che dovendo andare in un paese estero per una partita, aveva portato con sé la sua nuova “compagna”. Io voglio essere tollerante, voglio accettare la fragilità umana, però non sono affatto propenso a dare la mia stima a chi si lascia trascinare dalla moda corrente e pur potendosi sposare regolarmente, indulge in un rapporto non limpido e comunque non conforme al pensiero cristiano.

Se Prandelli si ritiene un cattolico, come mi pare abbia affermato, trovo che questo comportamento sia in netta contrapposizione. A questo motivo, che mi ha costretto a toglierlo dal piedestallo in cui io – parlo per me – l’avevo messo, se n’è aggiunto un altro. Dopo la débacle della squadra italiana ai campionati del mondo, egli si è dimesso, forse riconoscendo i suoi errori a livello tecnico. La stampa, in occasione di queste dimissioni, l’ha esaltato perché avrebbe potuto continuare, visto che aveva un contratto che gli garantiva un milione e mezzo per un altro paio di anni. Ma a questo presunto gesto di dignità seguì un’altra notizia: lo stesso Prandelli avrebbe firmato un contratto con un Paese estero che gli garantiva quattro milioni e mezzo all’anno. “Povero” Prandelli! Penso, almeno io, di non lasciarlo sul piedestallo!

La “cena” di Scaggiante

La comunità di San Giorgio di Chirignago ha giustamente deciso di onorare un suo concittadino quanto mai benemerito: Giovanni Scaggiante. La delegazione del gruppo culturale di quella parrocchia sta organizzando una grande mostra antologica della produzione artistica di un’intera vita di questo pittore e mi ha chiesto in prestito la decina di quadri che sono presenti nella nostra galleria che è collocata sulle infinite pareti dei corridoi e della grandi sale dei cinque Centri don Vecchi. E’ stato perfino troppo facile reperire queste opere perché sono quasi tutte concentrate nei Centri don Vecchi uno e due. Infatti a suo tempo si è proceduto alla catalogazione dei quadri presenti appunto nei primi due Centri.

Mi lega all’artista una lunga frequentazione ed un caldo rapporto di stima e di affetto perché Giovanni Scaggiante non è solamente uno dei maggiori pittori viventi della nostra città, ma è pure un gentiluomo dai tratti caldi e signorili ed un cristiano a tutto tondo. Sono quanto mai felice dell’iniziativa della sua comunità perché egli merita questo riconoscimento per la sua statura d’artista, ma pure per la nobiltà del suo animo quanto mai disponibile e generoso.

In una testimonianza che mi è stata richiesta dal comitato promotore di questa grande mostra antologica in cui saranno esposte più di un centinaio di sue opere, ho scritto che il solo dispiacere per me è di constatare che questa iniziativa non è stata promossa dal Comune o dalla Chiesa veneziana, perché molte sono le opere di carattere religioso di questo artista, e neppure dalla municipalità cittadina, ma soltanto dalla sua comunità.

Scaggiante merita molto e molto di più anche se sono informato che il comitato che promuove questa antologica sta facendo le cose veramente in grande.

La nostra galleria, ripeto, è felice di prestare questa decina di opere di valore, mi rammarico però che non riusciamo a portare a Chirignago l’opera più significativa e forse maggiore di Scaggiante che vent’anni fa gli ho “commissionato” a costo zero: “L’ultima cena oggi”, un’opera di notevoli dimensioni – quattro metri x due e mezzo, che ho collocato, come nei grandi monasteri del passato, nel refettorio del “don Vecchi” uno. L’opera è veramente notevole per l’armonia dell’insieme, per l’impasto dei colori, per la presenza di una trentina di personaggi e soprattutto per il messaggio. Penso proprio che la si possa accostare, pur in chiave attuale, alle grandi tele del Veronese.

L'”Ultima Cena” di Scaggiante ha dentro tutto il nostro mondo e l’evento della cena del commiato, del dono dell’Eucarestia e del testamento di Gesù: diventa un fatto attuale che coinvolge tutti e ci rende consapevoli che la Redenzione non appartiene al passato ma che è viva e presente anche per noi, oggi.

Don Camillo

A questo mondo succedono spesso delle cose strane che sorprendono e fanno pensare.

Alcuni giorni fa è venuta a trovarmi nella mia chiesa del cimitero una mia vecchia parrocchiana che per un po’ di tempo mi offrì una qualche collaborazione per “Lettera aperta”, il settimanale della mia vecchia parrocchia di Carpenedo. Un tempo le sue visite erano più frequenti ma ora, per gravi disturbi alla deambulazione, è costretta a farsi accompagnare dai figli. L’incontrai tanto volentieri perché so che mi vuol bene e perché l’ammiro per la sua fede limpida e forte e per la sua sensibilità a livello culturale ed umano.

Per l’occasione mi fece un’offerta per ricordare suo marito, morto da vent’anni, un’altra bella figura di uomo e di cristiano che ricordo quasi con tenerezza perché incorniciava anche visivamente la sua saggezza e bontà con una lunga barba bianca quasi da filosofo greco o da profeta dell’antico testamento.

In occasione della visita questa cara donna mi disse, con mia sorpresa, che aveva pensato di lasciarmi in eredità un quadro che le era caro, ma che poi aveva deciso di darmelo fin da subito. Tirò fuori dalla borsa un quadro di modeste dimensioni, ma ben incartato, come si fa quando una cosa è di pregio. La ringraziai, ma non ebbi il tempo di aprirlo perché era l’ora di celebrare la messa. Giunto a casa aprii con curiosità l’involucro e con mia sorpresa mi accorsi che il “quadro” non era che un compensato che riportava una scena di uno dei film tratti da “Mondo piccolo” di Giovannino Guareschi.

La foto inquadrava don Camillo e Peppone, ossia Fernandel e Gino Cervi, che pedalavano con forza e fatica le relative biciclette – da donna quella di don Camillo e da uomo quella del sindaco Peppone, che aveva sul portabagagli della ruota davanti una grosse valigia legata col solito spago alla maniera dei nostri vecchi.

Non sono riuscito a capire da quale film fosse tratta la foto, d’altronde mi interessava di più la lettura che questa signora dava all’immagine, perché mi parve ovvio che mi identificasse in don Camillo. Confesso che ne sono stato contento perché, tutto sommato, il don Camillo di Guareschi è un prete attivo e partecipe della vita del suo paese, di fede semplice ma convinto, un uomo che tutto sommato ha conservato una calda umanità ed una capacità di dialogo nonostante le barriere ideologiche e le scelte del partito del suo apparente “avversario”, ma in realtà caro fratello.

Se anch’io apparissi, o meglio fossi, così, ne sarei lusingato.

Creature belle

In una copertina de “L’Incontro” ho stampato la fotografia di una ragazza di una bellezza leziosa, tutta leccata, in atteggiamento di dire: «Guardatemi, vedete quanto sono bella!». Nella didascalia che sempre mi serve per dar voce al pensiero ed indirizzare la reazione di chi incontra quell’immagine, ho scritto quello di cui sono profondamente convinto, cioè che la vera bellezza di un uomo e di una donna si esprime quando c’è un forte connubio tra il volto e il corpo e gli ideali e i valori che cantano dentro al suo cuore. Le bambole dagli occhi perfetti, dalle guance colorite e con un corpo aggraziato, rimangono solamente bambole, mentre quando uno guarda un quadro d’autore, che ritrae il volto di un uomo o di una donna, intuisce magari in maniera indistinta che dentro c’è un valore, un messaggio, una forza esistenziale, perfino una fiammella di Dio.

La donna della prima pagina l’ho definita, per il suo atteggiamento lezioso, “un’oca giuliva”. Nella vita quotidiana mi capita abbastanza spesso di incontrare uomini e donne di tutte le età e di tutti i ceti che sono veramente belli. Quando mi capita di scoprirli mi viene in mente la pagina della Bibbia quando dice che “l’uomo e la donna sono fatti ad immagine e somiglianza di Dio”. Queste sono le “immagini sacre” che mi incantano, e non le immagini della Madonna e di Gesù che qualche visionario dice di aver visto, ma che in realtà sono copie di infima qualità della bellezza e della magnificenza di Dio. Però ognuno può aver la fortuna di scoprire nella vita quotidiana delle vere “copie del Creatore”, vive e reali.

Fino a qualche mese fa un giovanotto di mezza età accompagnava in chiesa la vecchia madre che aveva la “santa mania” di voler venire a messa ogni giorno nonostante il tempo e la sua infermità. Ora non viene più perché forse la mamma non può più uscire o se n’è andata in cielo, però quando ricordo le premure, la tenerezza, l’affetto con cui questo giovane l’accompagnava e l’accudiva, avverto qualcosa di veramente sublime e sacro. Mi è stato detto che questo giovane faceva il portiere di notte in un albergo di Venezia. Non so come facesse, comunque per anni era sempre accanto alla madre, sereno e affettuoso.

Da qualche tempo una “vecchia scout” del secondo millennio, ma che ha conservato un bel volto vivo e sorridente, ha voluto a casa sua la sorella disabile mentale che soffriva di vivere con la matrigna. Ogni volta che s’accostano assieme all’Eucaristia godo dei loro volti belli, illuminati dall’amore e dalla fede.

Ormai dall’inverno scorso sono diventate fedeli e devote una cara signora più che ottantenne affetta dall’Alzheimer. o da qualcosa del genere, donna dolce e cara ma indifesa, e la giovane figliola che l’accompagna, una ragazzona nel fiore della sua femminilità che dedica con un’attenzione infinita alla sua mamma fragile e bisognosa di appoggio, tutto il tempo libero dal lavoro. A fine messa questa signora mia coetanea viene a prendersi un bacetto dal vecchio parroco quiescente. Ogni volta che mi si accosta assieme alla figlia, mi sembra di sentire il profumo della bontà.

Queste e tante altre sono le creature che io non stimo brave, ma meritevoli.

29.08.2014

“Picconate”

Qualche sera fa, a “Rai storia”, hanno trasmesso un bel servizio su Francesco Cossiga, ex presidente della Repubblica italiana, assai discusso e criticato soprattutto alla fine del suo mandato.

Io non conosco più di tanto Cossiga, lo sapevo figlio di quella terra forte ed aspra che è la Sardegna, ho avuto modo di rendermi conto che fosse un uomo intelligente, di vasta cultura e soprattutto un cristiano convinto. Ricordo che in uno dei tanti scontri dialettici di carattere politico e religioso aveva biasimato il suo avversario accusandolo di avere poca cultura teologica, materia di cui talvolta lui faceva sfoggio. Non è proprio frequente – se si eccettua il mistico Giorgio La Pira o forse il (un po’) bigotto presidente Scalfaro – incontrare politici italiani che parlino volentieri e in maniera competente di religione. Ma soprattutto credo che Cossiga sia passato alla storia italiana come il presidente delle “picconate” frequenti e decise.

Il conduttore della trasmissione, esperto di politica, ha inquadrato questo bisogno quasi sadico di picconare una società e le sue istituzioni ormai ingessate e poco propense ad aprirsi ai tempi nuovi. Non sono in grado di valutare se l’azione di Cossiga sia stata opportuna o provvidenziale, sono quindi costretto a lasciare ai posteri “l’ardua sentenza”. Però devo confidare che mentre continuavo a seguire la trasmissione e a seguire il discorso del conduttore, per una strana associazione di idee, e soprattutto di immagini, fui portato a seguire quasi in parallelo l’azione di Papa Francesco nei riguardi della Chiesa, per concludere, dentro di me, che il nostro Pontefice, pur a modo suo e con forme assai diverse, è per la Chiesa un autentico “picconatore” che in poco tempo ha demolito in maniera progressiva e sempre più radicale, il modo di vivere la religione, di rapportarsi con la cosiddetta “gerarchia”, di smantellare una mentalità sacrale per far ritornare la Chiesa ad un costume da Vangelo.

Vi sono alcune immagini che, pur non accompagnate da parole, hanno letteralmente sbriciolata una impalcatura barocca, gerarchica e non in sintonia con la cultura e l’evolversi della sensibilità dell’uomo moderno. Lasciate che vi confidi questi flash che rimangono indelebili nel mio animo: l’essersi scelto il nome di Francesco, la sua richiesta di benedizione ai fedeli, l’augurare buon appetito, rifiutare indumenti particolarmente sfarzosi, salire in aereo con la borsa nera in mano, dare il bacio alla presidente poco benevola dell’Argentina, telefonare anche a semplici fedeli, mandare un obolo ai poveri, salire in pullman con gli altri prelati, il dialogo con Scalfari, scegliere come abitazione Santa Marta, parlare coi netturbini del Vaticano, sedersi tra gli altri in un banco qualunque per ascoltare la predica, andare alla mensa prendendo il vassoio per il pranzo, usare l’utilitaria per spostarsi. Sono queste “picconate” silenziose, garbate, rispettose. Ma in poco più di un anno con esse ha demolito un muro più solido di quello di Berlino!

Può darsi che Papa Francesco passi alla storia come il papa “picconatore”, comunque di fatto lo è stato. Eccome!

23.07.2014

Antonio Stella

Goffredo di Buglione, che penso sia stato un frate un po’, o forse molto, esagitato a cui andava stretto il convento, attraversò i vari Paesi d’Europa predicando la crociata per la liberazione del Santo Sepolcro al grido di: “Dio lo vuole!”.

Le cose andarono veramente male perché con queste motivazioni religiose veramente inconsistenti i cristiani si macchiarono di una marea di sangue e di infinite nefandezze.

Partendo da questa premessa, mi guardo bene dal tentare di promuovere oggi una crociata contro la burocrazia, un po’ perché mi manca il talento per galvanizzare le folle, ma soprattutto perché, pur avendo delle motivazioni più solide di quelle di Buglione, non vorrei che succedessero cose simili a quelle tanto deprecate delle vecchie crociate in Terrasanta.

Ho la sensazione poi che Renzi, che a livello di affabulazione è infinitamente più esperto di me, si sia fatto ingoiare dalle sabbie mobili che un po’ alla volta pare lo stiano inghiottendo. Per l’abolizione del Senato ha scatenato una bagarre tale che non si sa proprio dove vada a finire, per il voler fissare un tetto massimo per lo stipendio dei manager degli enti pubblici pare che tutto si sia incagliato, per la riduzione della retribuzione scandalosa degli addetti al Senato e al Parlamento le cose non vanno meglio.

Prego sempre per il “povero Matteo” affidandomi particolarmente a santa Rita, che dicono sia esperta nelle cose impossibili, suggerendole poi di costituire un pool, assieme a sant’Antonio e a Padre Pio, perché se non si mettono di mezzo loro me la vedo proprio brutta! La burocrazia è stata una delle principali cause del fallimento del comunismo reale in Russia, però credo che ora minacci anche la nostra povera democrazia che è di certo più fragile del monolitico partito comunista russo.

Da alcuni giorni qualcuno mi ha informato che sul canale 48 della televisione si trasmettono in continuazione notiziari di informazione. Quest’oggi ho aperto per caso la televisione su quel canale mentre stavano intervistando il celeberrimo giornalista Antonio Stella che, una volta ancora, denunciava la morsa mortale della burocrazia statale e parastatale che soffoca nella sua melma ogni tentativo di innovazione.

Antonio Stella, per chi non lo sapesse, è il giornalista che ha pubblicato un paio di volumi sulla “casta”, quell’agglomerato di parolai inconcludenti che sta affondando l’Italia. Nella brevissima intervista ha raccontato due perle così significative che sento il bisogno di renderne partecipi i miei amici. Una signora, andata a Lourdes cieca, è tornata a casa guarita e, da persona onesta, ha denunciato la guarigione perché le togliessero la pensione di cecità che non le spettava più. L’INPS s’è opposto perché, non credendo lo Stato laico ai miracoli, per esso doveva continuare ad essere considerata cieca!

La seconda perla della burocrazia: per uno svarione un cittadino vivo e vegeto era stato considerato morto da due anni. Il cittadino ha dovuto documentare, con tanto di certificati, che era vivo. I burocrati non si accontentarono però della sua certificazione per l’anno corrente, ma pretesero anche quella dell’anno pregresso. Altro che liberazione del Santo Sepolcro, liberarci da questa pestilenza è il più impellente bisogno.

22.07.2014

L’ultimo Francesco

Qualche settimana fa ho scritto che stavo leggendo una particolare e strana vita di san Francesco. Due giovani fidanzati, in occasione del mio sessantesimo anniversario di sacerdozio, mi hanno regalato una vita di san Francesco, volume appena uscito.

Credo che con lo sviluppo e l’enorme presenza dei discepoli del santo in tutto il mondo, siano innumerevoli le vite di san Francesco. Ogni scrittore, pur rifacendosi ai dati storici – credo che già uno dei primi discepoli del Santo di Assisi abbia steso una biografia, quindi ci sono fonti dirette e sicure – mi pare che ogni biografo abbia “letto” la vita del poverello di Assisi da una angolatura particolare, da un lato perché condizionato dalla sua personale sensibilità e dall’altro perché non avrebbe alcun senso ripetere in maniera pedissequa ciò che altri hanno già scritto.

Io sono innamorato della spiritualità di questo santo, così fresca e solare, per cui ho letto più di una biografia e sempre con ammirazione e profitto interiore. Lo scoprire la nuova vita, “Il gioioso mendicante”, scritto da Louis De Wohl ed edita da Rizzoli (Bur), gennaio 2014, mi ha incuriosito quanto mai e mi ha spinto a dedicarvi più tempo di quanto non dedichi normalmente alla lettura. Il fatto poi che questi miei cari ragazzi mi abbiano fatto questo omaggio, mi ha portato a pensare che avessero già letto il volume ed, entusiasti, abbiano voluto rendere partecipe della “scoperta” anche il loro vecchio prete.

Penso però che le cose non siano andate così; molto probabilmente, come avviene quasi sempre, avranno detto al libraio: «Vogliamo fare un regalo ad un prete, che cosa ci suggerisce?». I librai, che spesso non sono tali, ma solamente commessi di libreria, suggeriscono al cliente un volume – magari recente, ma che è poco richiesto – perché non rimanga nei loro scaffali. Comunque sono contento di aver letto questo “romanzo” che inquadra un’epoca della quale l’autore ha colto soprattutto gli aspetti più legati alla mentalità del tempo, inserendo la vicenda esistenziale del giovane di Assisi con i fatti contorti di quel tempo ricco di comuni bellicosi, tempo delle crociate, delle beghe tra gli aspiranti alla nomina dell’imperatore del Sacro Impero, della Chiesa tutta intenta a riaffermare la sua autorità e soprattutto della vicenda esistenziale di un conte decaduto, tutto impegnato a riavere il ducato della sua famiglia con ogni mezzo lecito e meno lecito.

Praticamente il protagonista non risulta san Francesco, ma questo bellimbusto che si innamora di Chiara di Assisi, si mette al soldo di un monarca ambizioso, traffica con i turchi e, sempre per via del sognato ducato, viene infine messo alla porta con un calcio nel sedere dall’epigone meschino di Carlo Magno, fondatore del Sacro Romano Impero.

Col senno di poi, avrei forse fatto meglio a rubare tempo ai miei impegni quotidiani. Forse, per scusarmi, ho pensato di metterlo in conto delle vacanze estive, comunque l’immagine bella, splendida del Poverello che c’è dentro di me, non è stata affatto sciupata dal discorso lezioso e quasi frivolo di questo autore che si dimostra dotto, brillante e ottimo conoscitore del tempo e della mentalità della società di san Francesco.

20.07.2014

Il pensatore che zoppica

Questa mattina ho terminato di leggere il volumetto dell’editrice Bompiani “Carlo Maria Martini-Umberto Eco – In che cosa crede chi non crede in Dio?”, che un magistrato amico ha avuto lo squisito pensiero di regalarmi.

Gli amici miei, ai quali confido le mie povere esperienze di ricerca religiosa di vecchio prete, forse ricordano che dissi, almeno tre settimane fa, le mie difficoltà di comprendere quanto questi due uomini di cultura – il cardinale di Milano e lo studioso non credente Umberto Eco – si sono scambiati attraverso un diario epistolare.

Come mai tanto tempo per leggere un volume di piccole dimensioni e di soltanto 123 pagine? Due sono i motivi. Il primo: il testo mi risultò talmente difficile che dovetti leggere e rileggere pur senza capire tutto. Forse questo dipende dai miei limiti di intelligenza e di cultura e forse ancora dalle nebbie della vecchiaia avanzata. Avendo una domenica citato il volume durante il sermone, una signora volle a tutti i costi che le fornissi i termini per acquistare il volume. Mi piacerebbe che venisse a dirmi cosa ne ha capito. Il magistrato che me l’ha regalato, persona colta e intelligente, mi disse che “è stimolante”. A me è parso che mi abbia messo in un ginepraio o, peggio, in un labirinto, per cui ho faticato tanto a uscirne.

Il secondo motivo è che un altro mio caro e giovane amico, assieme alla sua fidanzata, in occasione dei miei 60 anni di sacerdozio, mi ha regalato una vita di San Francesco, “Il gioioso mendicante” di Louis de Wohl della Rizzoli, un volume che invece è scritto come una favola incantevole. Perciò ogni tanto, soprattutto quando Eco e Martini mi “mettevano in difficoltà”, mi rifugiavo da San Francesco dicendomi, quando mi pareva di perder tempo: “Rimane pur sempre la vita del più santo degli italiani e il più santo dei santi!”, mettendo così in pace la mia coscienza e riposandomi a leggere “il romanzetto”.

Ritorno però allo scambio epistolare tra Eco e Martini. Mi è piaciuto il garbo, il rispetto reciproco, la ricerca onesta di ambedue di trovare i punti di incontro tra le tesi cristiane e quelle laiche, la grande intelligenza e la grande cultura: Martini più pacato e riflessivo, Eco invece che si lascia andare spesso allo sfoggio di erudizione e agli artifici del letterato. Comunque due belle teste!

Ho letto, vi confesso, con un po’ di trepidazione, il volume, temendo che Eco – cosa che non è assolutamente avvenuta – mettesse in difficoltà Martini e, di riflesso, mettesse pure in difficoltà il mio impianto di pensiero su Dio e su tutto l’indotto.

Ora, con estrema sincerità, devo confidare agli amici che m’è parso che Eco zoppichi terribilmente sulla domanda di fondo: “In che cosa crede chi non crede?”. Il pensatore laico, come è avvenuto per Scalfari su discorsi analoghi, si arrampica affannosamente sugli specchi, scivola da tutte le parti e non convince in maniera assoluta quando tenta di indicare le fondamenta portanti del suo pensiero. Gli atei vanno bene e riescono, quando tentano di demolire – questo però non è il caso di Eco né di Scalfari – ma s’ingarbugliano in discorsi astrusi e non convincono affatto quando tentano di giustificare il loro ateismo. Per fortuna e per grazia di Dio la mia fede ne è uscita indenne, anzi si è rafforzata dal confronto tra Eco e Martini.

19.07.2014

Commiato

L’altro ieri avevo appena recitato l’ultima preghiera prima che gli operatori del cimitero coprissero con badilate leggere di terra la bara calata nella buca, quando mi squillò il cellulare che avevo dimenticato in tasca. Mi appartai un po’ per ascoltare la voce di una ragazza della mia vecchia parrocchia che mi diceva che la sua mamma stava molto male e che di certo le avrebbe fatto molto piacere se le avessi fatto una visita. Le promisi che venerdì, quando sarei andato per la mia visita settimanale all'”Angelo” per portare “L’Incontro”, l’avrei vista molto volentieri.

Di primo acchito feci un po’ di fatica a capire di chi si trattasse, ma poi pian piano misi a fuoco con molta precisione la persona. Si trattava di una giovane donna dagli occhi sorridenti e dalla voce calda che per un bel periodo di tempo aveva accettato di far catechismo in parrocchia. Conoscevo bene pure il marito e soprattutto le due figliole che frequentavano la parrocchia e soprattutto la più piccola era capo scout.

Qualche tempo fa avevo avuto sentore che aveva avuto qualche difficoltà di salute, ma non freqquentando tanto spesso la parrocchia, avevo pensato che tutto si fosse risolto per il meglio. Mi aveva colpito però il fatto che quando avevo detto che sarei andato l’indomani, la figlia si era lasciata partire quasi come un sospiro amaro: “Spero che duri!”. Mi è capitato purtroppo, nella mia lunga vita, che talvolta, essendomi un po’ attardato, pur per dei motivi che ritenevo validi, la persona se n’era andata in cielo senza che io potessi darle l’ultimo saluto lasciandomi poi nel cuore un peso e un rimorso quanto mai amari.

Perciò, nel primo pomeriggio andai subito all’Angelo, la trovai immediatamente, un po’ sfigurata dalla malattia, però il volto ancora dolce e sorridente. Al suo capezzale c’era la figlia più grande. Dormiva, tanto che pensai di non svegliarla, ma lei aprì gli occhi, mi riconobbe subito e mi sorrise con quel suo sorriso di una dolcezza e di una amabilità tutta particolare. Era assolutamente lucida e consapevole di essere giunta al capolinea. Recitammo insieme un’Avemaria. Io le promisi che avrei chiesto al mio “Principale” che si occupasse di lei direttamente. Mi sorrise ancora. Le diedi due baci con tenerezza. Questa mattina, a poche ore di distanza, suo fratello Enzo mi telefonò che Maria era tornata al Padre.

Maria è stata una gran cara creatura, dolce, sorridente e generosa, e con tanta fede. Spero che il mio bacio tanto affettuoso le ricordi di pregare anche per questo vecchio prete che arranca ogni giorno di più. «A presto, Maria!».

05.07.2014