Veronesi, ateo che non mi turba

Qualche tempo fa transitavo a piedi in una viuzza che sbocca in via San Donà per raggiungere le poste di Carpenedo perché oggi è un miracolo trovare un posto per parcheggiare.

Camminavo pensando ai fatti miei quando un signore che abita in quella zona e che vive in maniera pressoché eremitica, mi fermò, mi fece entrare in casa sua e per un’oretta mi intrattenne su argomenti di ogni specie: aveva voglia di parlare con qualcuno. Tra le varie cose mi chiese un parere sul volume di Umberto Veronesi, il famoso oncologo, che non perde occasione per dichiararsi ateo. Il mio interlocutore arrivò a regalarmi la “critica” che Repubblica aveva fatto su questo volume.

Ho letto con una certa preoccupazione la pagina del notissimo giornale, al quale non spiace di presentarsi come laico schierato. La mia preoccupazione nasceva dalla paura che le argomentazioni di Veronesi potessero mettere in crisi la mia fede.

Sul finire della vita diventa preoccupante, almeno per me, che qualcuno ti sfasci tutta la tua “lettura” del mistero della vita stessa! In realtà le argomentazioni di Veronesi, così come mi era già successo con Eco e Scalfari, mi risultarono quanto mai fragili, ingenue, faziose e forse anche arroganti.

Ho concluso che certi atei esibizionisti, tanto critici nei riguardi dei credenti non lo sono per nulla nei riguardi di se stessi.

Questo è per me quanto meno poco serio!

Olmi e la grande guerra

Una volta ancora, uno dei più bravi registi del nostro Paese, ha fatto “centro” con il suo ultimo film “La valle tornerà verde”.

Olmi, in occasione del centenario della Grande Guerra, ha affrontato il tema da par suo e ci ha offerto un film di grande poesia ma, soprattutto ricco di grande speranza.

Ultimamente, in maniera quasi morbosa, ho cercato di vedere svariati documentari sulla prima Guerra Mondiale, avendo modo di toccare con mano l’insipienza “dell’intellighenzia” del nostro Paese all’inizio del novecento, la crudeltà e lo sprezzo per la vita umana dei nostri generali e la brutalità assurda e sanguinaria di quella guerra e di ogni guerra.

Olmi conclude che nonostante tutto le nostre valli alpine torneranno a fiorire. In questo titolo ho ritrovato l’incanto, la poesia e l’estasi di quello splendido volume che lessi da ragazzo: “Come era verde la mia valle”.

Un giorno feci osservare a Monsignor Vecchi come fosse triste la montagna per le ferite di una valanga e il vecchio prete mi rispose: “Se ripasserai tra qualche anno avrai modo di constatare che il verde avrà preso il sopravvento” e poi soggiunse “Il progetto di Dio finisce sempre per avere il sopravvento sulla violenza insensata dell’uomo”.

Sono riconoscente a Olmi e pure a Monsignor Vecchi per questa loro felice sapienza.

Elefanti e grilli

Spesso mi capita di scoprire dei fiori belli nei luoghi più impensati o di incontrare persone giuste e perbene ove mi sarei aspettato soltanto volgarità e cattiveria. Così, qualche giorno fa, ho scoperto una bella verità leggendo un trafiletto in un periodico povero e senza pretese.

Un po’ di curiosità e di attenzione può aiutarci spesso ad incontrare suggerimenti di cui abbiamo veramente bisogno per vivere più serenamente.

Riporto l’articoletto sperando che faccia bene ai lettori de “L’Incontro” quanto ha fatto a me.

L’autore partendo da questa frase di San Paolo:
“Tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri” (Filippesi 4:8) ha tratto queste felici conclusioni.

“Avete mai avuto un elefante in casa? Quasi certamente no! Ma se lo aveste avuto, avreste saputo con esattezza dove si trovava, in ogni momento. E un grillo? Io sì, l’anno scorso, ed ho passato giorni interi a cercarlo. Sentivo il suo frinire stridulo e quando ero certo di averlo trovato, il frinire cessava.
Quel minuscolo animaletto ha occupato molto del mio tempo e delle mie energie. Quando alla fine ho desistito e ho smesso di pensarci il grillo se n’è andato!
A volte la vita ci viene incontro con degli “elefanti”, sfide importanti come un divorzio, la malattia, la morte. Ma per la maggior parte, passiamo i nostri giorni in compagnia dei “grilli”: piccoli fastidi, piccole cose che ci irritano e ci preoccupano, che tengono in ostaggio la nostra mente, distogliendola da cose ben più serie. Quando siamo frastornati dallo schiamazzo dei grilli, possiamo metterli a tacere andando a Dio, con la preghiera e la meditazione. Possiamo pensare a tutte le cose onorevoli, giuste, pure, in cui vi sia virtù e lode. Se ascoltiamo Dio non sentiremo più il frinire dei grilli!”

Nonno Vito

Il mio non è più tempo di imprese ma solamente di ricordi. Però, pur sentendo e talvolta soffrendo ormai di un senso di impotenza, posso fortunatamente ritornare con il pensiero a delle splendide imprese affrontate e spesso vinte nel passato.

Una delle tante mie avventure è stata quella della trasformazione del vecchio asilo infantile di Via Ca’ Rossa nel modernissimo Centro Polifunzionale per l’Infanzia: Il Germoglio.

Oltre alla ristrutturazione radicale del vecchio edificio stile liberty comprendente sette sezioni più l’asilo nido per bambini da uno a tre anni, ci fu una stagione in cui si insegnava danza, judo e inglese.

Nel grande parco si fece poi posto per il trenino, la casetta delle fate, l’orto botanico, la voliera, capre, tartarughe, galletti, conigli e la casetta per le feste di compleanno dei nostri piccoli.

Uno dei “complici” di questa avventura fu nonno Vito, nonno per modo di dire perché in realtà aveva una decina di anni meno di me ma, agli occhi dei piccoli alunni, fu per molti anni per antonomasia “il nonno” del Germoglio che riordinava le siepi, rimetteva a posto i giochi, piantava i fiori, accudiva gli animali.

Vito fu un nonno buono, paziente e sereno. Qualche giorno fa Vanni, il genero, mi ha chiesto di impartirgli il sacramento degli infermi, l’ho fatto con tanta tenerezza e riconoscenza. Il giorno dopo “andò avanti” come dicono gli alpini, mi è spiaciuto alquanto ma so che presto saremo ancora assieme!

La catechesi di Benigni

Io sono uno di quei dieci milioni di italiani che per due sere consecutive ha partecipato attentamente alle due lunghe lezioni di catechismo di Roberto Benigni.

Premetto che ritengo quest’uomo di teatro bravo, intelligente e coraggioso.

Non è da tutti compromettersi oggi pubblicamente su un argomento religioso tanto specifico da essere, ai nostri giorni, quasi sempre accettato passivamente e spesso solamente a livello formale.

Confesso poi che la catechesi fattaci da Benigni è stata particolarmente in linea con le mie convinzioni religiose e con gli obiettivi che sto perseguendo a livello personale e pastorale.

Debbo però confessare che alla fine mi è rimasta nell’animo una certa preoccupazione: probabilmente Benigni, per trovare il consenso di un pubblico così eterogeneo, è stato indotto a puntare su valori condivisibili, valori tanto alti e sublimi sui quali non si può che essere d’accordo, però nella realtà della vita essi richiedono mediazioni e scelte concrete che spesso sono impegnative e faticose.

Credo che tutti siano d’accordo che volersi bene è una meta condivisibile universalmente però per raggiungerla quanta fatica, quante rinunce, quanti sacrifici sono necessari!

Su questi aspetti però Benigni ha sorvolato, motivo per cui ritengo che più che di catechesi si sia trattato di spettacolo.

I baci di suor Angela

Vive al Don Vecchi un’anziana suora anomala. Suor Angela, si chiama così, ha pressappoco la mia età, non veste un uniforme monacale ma vestiti che sono in assoluto i più convenienti per una donna che ha fatto voto di povertà, castità ed obbedienza. E’ una donna laureata in matematica e fisica, è stata in convento per trenta o quarant’anni, e mi sono domandato come abbia fatto a rimanerci per così tanto tempo dal momento che è uno degli esseri più liberi che io abbia conosciuto nella mia lunga vita. Ora è abbastanza malandata sulle gambe e quindi deve girare con il deambulatore. Passa tutto il suo tempo nella preghiera ma soprattutto nell’elemosina. Credo che né Ozanam, né San Vincenzo, né il presidente della Caritas siano più impegnati di lei ad aiutare il prossimo. Io più volte le ho detto che non condivido il suo modo di operare, ma affermo pure che nutro un’infinita ammirazione per quello che fa per i poveri. Lei sa come la penso però non riesce a comportarsi diversamente e io sono certo che andrà nel più alto dei cieli. Di suor Angela ammiro soprattutto i suoi baci appassionati con i quali esprime nella maniera più profonda e convinta il suo amore per il prossimo.

Le prime croci di Papa Francesco

Ho buttato giù questa pagina il giorno dopo che è terminato il sinodo sulla famiglia lo stesso giorno in cui Papa Paolo VI è diventato Beato.

Ho letto qualche anno fa un bellissimo volume di Agasso su Papa Paolo VI dal titolo: “Le chiavi pesanti”.

Mi sono commosso ed ho letteralmente pianto apprendendo il dramma e la croce amara di questo grande Papa che ha chiuso il Concilio. La gente è manifestamente con Papa Francesco, perché tutto sommato la gente ha fiuto, possiede un sesto senso nel riconoscere i preti che vivono secondo il Vangelo, ho però la sensazione che i parrucconi, gli specialisti, quelli che hanno qualcosa da insegnare anche al buon Dio e complicano così tanto la fede da renderla assolutamente indigesta alle persone normali, non perdoneranno al nuovo Papa di aver fatto smontare i baldacchini, di essersi messo in coda al self service e di aver portato personalmente la propria borsa da viaggio. La cosa non mi dovrebbe essere assolutamente nuova perché già duemila anni fa il Sinedrio fu quello che armeggiò maggiormente per far condannare Gesù. Papa Francesco non avrà vita facile e non so cosa riuscirà a fare, ma comunque ha già fatto molto aiutandomi a sognare e sperare in una Chiesa bella e povera per la povera gente!

Renzi, pidiessino degenere e ripudiato

So anche troppo bene che quando si parla di politica si finisce, se non per scontrarci, almeno per dividerci.

Mi pare che la politica talvolta assomigli alle scelte religiose; esse in fondo in fondo, non sono un fatto irrazionale, ma le motivazioni che spesso esistono sono così lontane, quasi incise nell’inconscio, che difficilmente possono essere comprese dagli altri, motivo per cui la discussione, il confronto e il dialogo risultano sempre difficili.

A me piacerebbe tanto che anche nel campo della politica potessimo dialogare, confrontarci senza massimalismi, senza la presunzione di poter accampare certezze e verità indiscutibili, senza perdere l’amicizia, la stima e l’affetto a motivo di orientamenti e di propensioni o di scelte d’ordine politico. Io sono convinto che spessissimo i politici sono persone acute, intelligenti per cui non solo sanno motivare brillantemente le loro tesi, ma spesso sanno pure portare in campo aspetti particolari e sempre hanno qualcosa di originale da offrire. Sono meno certo che sempre siano obiettivi, disinteressati e soprattutto desiderosi che si arrivi ad una soluzione positiva od anche ad un compromesso onesto per recuperare il più possibile quanto c’è di valido nella tesi dell’altro (che non vorrei neppure fosse definito un avversario).

Da parte mia spero che sia così, o almeno mi sforzo che sia così. Quindi confesso candidamente che quando i protagonisti dei vari schieramenti politici fanno delle osservazioni intelligenti, razionali, rispettose e degne di attenzione, li ammiro e sono loro riconoscente perché mi arricchiscono di ulteriori motivazioni. Quando però avverto partigianeria preconcetta, “interessi di bottega” e faziosità lampante, allora passo facilmente dall’attenzione, dall’ammirazione e dalla riconoscenza, al rifiuto e talvolta sono tentato di arrivare al disprezzo.

Questa lunga premessa d’ordine teorico m’è stata sollecitata da due trasmissioni che ebbero come oggetto il nostro capo del Governo, Matteo Renzi. La prima aveva come protagonista dell’intervista, nella rubrica “In Mezz’ora”, condotta dall’Annunziata, la Camusso. Alla segretaria della CGIL, l’organizzazione sindacale di sinistra che fino ad un paio di anni fa è sempre stata la cinghia di trasmissione col partito comunista, ora, alla vecchia guardia, Renzi appare come una specie di figlio degenere. Durante la trasmissione il volto cupo e grintoso della Camusso e il suo modo di giudicare il cattolico Renzi, mi hanno fatto venir in mente il peggior Pajetta d’altri tempi o, peggio ancora Stalin, tanto che persino nell’aspetto mi pareva di notare una certa rassomiglianza.

La trasmissione dell’Annunziata l’avevo cercata di proposito, mentre dopo cena mi sono imbattuto per caso nella trasmissione del duo Fabio-Littizzetto: il gatto e la volpe. La faziosità di Fazio mi è nota da molto tempo, però nella trasmissione di domenica scorsa questo conduttore con la barbetta bianconera alla Belzebù ha superato se stesso per la malizia, l’astiosità e il livore contro il vecchio capo scout che, per fortuna, l’ha messo all’angolo ad ogni round con colpi magistrali, tanto che qualsiasi arbitro gli darebbe l’OK tecnico.

Dio, il Vescovo e Pannella

Domenica scorsa la predica si incentrava sul racconto dei due figli invitati dal padre a lavorare nella sua vigna. Il primo si rifiutò ma poi, avendoci pensato sopra, andò a lavorare; il secondo invece, disse di si, ma poi, svogliato, finì per non andare.

Mi collegai alla domenica precedente la cui parabola verteva sulla storia del padrone che dal primo mattino fino al vespero inoltrato uscì per ingaggiare operai per la sua vigna. Mi venne immediata l’applicazione, per nulla tirata, che il Signore vuole coinvolgere gli uomini di ogni tempo per realizzare il Regno, cioè creare un mondo nuovo nel quale ogni essere possa vivere in pace, felice, rispettato e ad ognuno non manchi il necessario sia per la sua vita materiale che per quella spirituale.

Mi tornò facile ribadire che ognuno deve ritenersi onorato di collaborare con Dio per creare una società migliore. Dal modo in cui l’assemblea ha ascoltato il messaggio, m’è parso che l’impatto con le parole di Dio fosse positivo e che ognuno avesse capito che non possiamo pretendere una società nuova e migliore se non aderisce all’invito di Dio ad impegnarsi personalmente.

La domenica successiva, ossia la scorsa, m’è parso che questo invito si rivolgesse ad ognuno in particolare e che soprattutto Gesù chiarisse chi in realtà può ritenere che la sua adesione sia reale, e non formale come quella del secondo figlio, cioè quello che disse di sì e poi non andò alla vigna. M’è parso che il discorso di Gesù sia stato tradotto in maniera molto esplicita da sant’Agostino quando afferma che ci sono figli che Dio possiede e la Chiesa non possiede ed altri che la Chiesa possiede (perché tantissime volte, durante la loro vita religiosa hanno fatto chiare e lucide professioni di fede che in realtà non hanno praticamente mantenuto) e quindi “che Dio non possiede”.

Sentii di dover ribadire ancora una volta che i riti, le preghiere e le pratiche di pietà sono un mezzo per diventare operai del Regno e perciò non possono essere fini a se stessi e di conseguenza non possiamo illuderci che essi possano diventare la risposta che Dio ritiene valida per essere considerati “operai del Regno”.

Fin dal primo momento in cui cominciai a riflettere sulla parabola di Gesù per preparare il sermone della domenica, mi venne in mente un esempio fin troppo evidente. Dissi: «Marco Pannella, il leader dei radicali che da sempre va ribadendo il suo ateismo e il suo anticlericalismo viscerale, nella sua vita s’è battuto da leone ed ha digiunato, mettendo in pericolo la sua esistenza, perché ad ogni popolo sia garantita la libertà politica e religiosa, perché sia abolita la condanna a morte, perché i Paesi occidentali versino di più per i Paesi in via di sviluppo, perché ai carcerati sia garantita una vita più civile. Pannella è di certo il figlio del “no”. Mentre in contrapposto il figlio del “si”, qual’è il vescovo polacco, nunzio apostolico in un Paese povero, è stato incarcerato da Papa Francesco perché pederasta e perché trovato in possesso di un arsenale di foto pornografiche.

Questi sono due esempi limite, però la parabola si riferisce anche alle posizioni intermedie, quali sono le nostre, figli del “si”.

Credo che nell’aldilà saranno tante le sorprese!

Monsignor Vecchi

Che io abbia stima, riconoscenza ed affetto per il mio vecchio insegnante, prima di lettere, poi di filosofia, ed infine parroco di San Lorenzo, penso sia abbastanza noto. Tra i miei maestri è quello che certamente cito di più e penso di essere stato, tra i suoi allievi, quello che maggiormente ne ha memoria. Ciò, se non fosse altro, per aver dato il suo nome ai cinque Centri don Vecchi.

A Mestre penso che siano veramente pochi i cittadini che non conoscano don Vecchi, anche se spesso solamente per averne sentito ripetere il nome in riferimento agli alloggi per anziani.

Ho già scritto che, per un seguito di vicissitudini, sapevo che il giornalista di “Gente Veneta”, Paolo Fusco, ne aveva scritto la biografia e qualcuno mi aveva pure regalato questo volume, ma l’ho perduto – e solamente, circa un mese fa, avendone avuto in dono una seconda copia dall’ingegner Andrighetti, ho avuto l’opportunità di leggere questa corposa e dettagliata biografia.

In passato non avevo cercato il volume più di tanto, perché pensavo di aver conosciuto molto bene di persona monsignor Vecchi, avendo vissuto accanto a lui in un rapporto molto stretto per moltissimi anni. Ora, avendo terminata la lettura del volume, “Inchiesta su un sacerdote, una chiesa, una città. Valentino Vecchi”, molti aspetti sepolti da decenni sono riemersi alla memoria e altri li ho scoperti in maniera assolutamente nuova. Il biografo deve aver fatto una ricerca veramente certosina scoprendo una documentazione che neppure sapevo esistesse, tanto che anch’io, che pur pensavo di conoscerla bene, con molta sorpresa ne sono venuto solo ora a conoscenza.

Finita la lettura, in maniera globale, non è mutato il mio giudizio nei riguardi del vecchio maestro, però qualche ritocco sono costretto a fare rispetto a come lo ricordavo. Mi soffermo solo su alcuni aspetti assolutamente positivi.

  1. Monsignor Vecchi fu il primo in assoluto a pensare ad una pastorale di tipo globale per le comunità cristiane della nostra città. Se confronto il suo progetto con la situazione attuale, devo concludere che a Mestre in questo campo siamo regrediti di almeno cinquant’anni. I suoi ripetuti, e quasi testardi tentativi, sono andati a vuoto per la passività e il rifiuto di Venezia.
  2. Monsignor Vecchi, nonostante non amasse tanto fare il parroco nella parrocchia che gli fu assegnata – e non si sentisse tagliato per quel “mestiere” – la svecchiò e la portò ad essere, a livello di impostazione pastorale, senza dubbio di smentita, la punta di diamante non solo a Mestre e Venezia, ma pure nel Veneto. Furono veramente tante le iniziative concrete da farne di certo la mosca cocchiera.
  3. A monsignore piaceva parlare, progettare, scrivere e filosofeggiare, però fu il primo, e purtroppo l’unico, a creare gli strumenti concreti perché questa crescita e questa pastorale d’insieme, potessero realizzarsi. Scrissi, e Fusco lo riportò nel suo volume, che Vecchi fu un “generale” di genio, però senza collaboratori, ma soprattutto senza la fiducia e l’appoggio dello “Stato maggiore”.

Il medico e il prete

Ho già ripetuto più volte che almeno i tre quarti della mia attività di prete sono costituiti attualmente dal suffragio cristiano: anniversari, commemorazioni, funerali. Anche quando commento il Vangelo nei giorni feriali e in quelli festivi, celebrando in una chiesa le cui pareti confinano col campo ove attualmente si seppelliscono i morti e dalle cui finestre si vedono campi di croci, qualsiasi argomento io debba trattare, rimango sempre condizionato dall’ubicazione della mia “cattedrale tra i cipressi”.

Qualche giorno fa ho celebrato il commiato cristiano di un vecchio medico di Mestre del quale era abbastanza noto, se non l’ateismo, almeno un notevole scetticismo riguardo la Chiesa e la fede. Questo fatto mi ha condizionato abbastanza, tanto che mi sembravano poco adatti gli schemi a cui spesso sono costretto a rifarmi. La morte e l’aldilà presentano purtroppo fatalmente le stesso problematiche, motivo per cui non c’è molto spazio ideale sul quale impostare il discorso.

Mentre mi arrovellavo, non tanto per trovare immagini ed argomenti con i quali far bella figura, ma per approfittare dell’occasione per fare una catechesi efficace ai molti presenti che appartenevano al mondo della sanità, emerse dalla mia memoria un vecchio ricordo di molti anni fa che quasi mi si impose e mi costrinse a riflettere su quello che un medico ed un prete rappresentano nella vita e nella società.

Un giorno molto lontano stavo uscendo dalla cappellina ottocentesca su cui sbocca la vecchia entrata del camposanto, quando incontrai il dottor Caprioglio, il padre del famoso architetto di Mestre, Gianni, e del medico di oculistica, Giancarlo. Probabilmente aveva fatto una visita alla tomba di sua moglie. Conoscevo bene questo pediatra appunto perché padre dei due ragazzini che avevo incontrato a San Lorenzo più di mezzo secolo fa e che sono diventati, col passare degli anni, due ottimi professionisti. Credo che questo dottore abbia curato, assieme al dottor Montesanto, i bambini di tutta Mestre. Era una persona semplice, buona e veramente credente.

Incontrandomi appunto sul vialetto, scambiammo qualche parola di circostanza, quando lui mi disse: «Fortunato lei, don Armando! Vede, nonostante tutti i miei sforzi, i miei pazienti finiscono prima o poi per morire, ed io finisco per essere sconfitto, mentre lei risulta sempre vincitore perché i suoi pazienti prima o poi ottengono la vita nuova e migliore che lei va insegnando.»

Anche il famoso Camus, nel suo splendido romanzo “La peste”, tratta lo stesso argomento; infatti nel racconto sono coprotagonisti il prete e il medico nella città assediata dal morbo letale. In realtà Camus, tutto sommato, da non credente ha uno sguardo di simpatia per il laico, pur lasciando intravedere che l’alternativa all’opera e al messaggio del medico, rimane il sacerdote.

Questo ricordo m’ha fatto bene perché senza boria e, meno ancora, euforia, ho pensato che il buon Dio mi ha assegnato la parte del vincente.

Il gap pastorale

Che il mondo giri più rapidamente che in passato è certamente un dato incontrovertibile. Io sono ancora sufficientemente lucido da capire che sono fuori corso ormai da molti anni.

Un paio di anni fa è venuta da me una nipote intelligente e preparata che lavora in un’azienda importante, mentre io stavo impaginando “L’Incontro”.

Ho detto certamente ai lettori che la catena di montaggio del nostro periodico è assai complessa, lenta e laboriosa. Ma che molto dipenda da me forse non l’ho fatto per la vergogna di mostrare quanto io sia “arretrato”.

Le cose vanno così: io scrivo i testi a mano con la biro, la signora Laura li corregge ed inserisce in computer, suor Teresa li traduce in striscioline pari ad una colonna ed io ancora ritaglio le striscioline, le incollo su fogli già predisposti, uguali alle pagine del giornale. Quindi i tecnici esperti riportano il tutto nel computer e preparano le pagine perché possano esser stampate.

Torno alla nipote che, vedendomi fare questa operazione, mi disse sorpresa: «Ma zio, perché non fai tutto questo direttamente col computer? Risparmieresti tanto tempo!» Ho capito che aveva perfettamente ragione, ma soprattutto ho capito che sono assolutamente superato e soprattutto in arretrato perché non so usare il computer, cosa che oggi è assolutamente imperdonabile.

La tecnica, la scienza e pure il pensiero e la cultura oggi procedono velocissime. Tutti criticano l’Italia perché non investe di più sulla ricerca, sull’aggiornamento e perciò si trova in arretrato, non regge al mercato e risulta terribilmente superata.

Se questo discorso è purtroppo vero per me, lo è ancor di più per quanto riguarda l’aggiornamento e lo sviluppo della pastorale per le parrocchie. In questo settore siamo ancora all’età della pietra. Sono poche le persone intelligenti che hanno colto che questo gap ci danneggia in maniera irrimediabile col passare del tempo.

Ritorno alla lettura del volume sulla vita di monsignor Valentino Vecchi di cui ho parlato nel diario dei giorni scorsi. Ho letto questa mattina che nel progetto che monsignore venticinque anni fa ha presentato al patriarca Urbani, lui prevedeva fra l’altro l’apertura di una piccola tipografia per la stampa dei cosiddetti “bollettini parrocchiali”, ove ogni parroco poteva disporre di uno spazio specifico per le attività della sua parrocchia, mentre altri sacerdoti e laici qualificati avrebbero, in maniera competente, fatto un discorso di formazione e di nuova evangelizzazione.

Questa operazione avrebbe offerto periodici personalizzati alla propria comunità specifica e, oltretutto, con discorsi seri e ben fatti. Se poi ogni parrocchia avesse mandato ogni settimana il periodico ad ogni famiglia, il discorso sulla nuova evangelizzazione avrebbe cominciato ad essere un discorso serio. Il progetto non è andato in porto. Ora, se ogni parrocchia continuerà a produrre bollettini parrocchiali vuoti e deludenti, i discorsi sulla nuova proposta del messaggio di Gesù rimarranno una assoluta chimera.

Evoluzione o involuzione pastorale?

Quando è uscito il volume di Paolo Fusco sulla vita e le opere di monsignor Valentino Vecchi e qualcuno me ne ha regalato una copia, vi diedi un’occhiata assai sfuggevole pensando “con lui sono vissuto così tanti anni, prima da studente e poi da cappellano, che non dovrei avere proprio nulla da scoprire di nuovo”. Così misi da parte il volume riproponendomi di leggerlo quando fossi stato un po’ più libero.

Il volume è uscito nel 2001, era il tempo in cui avevo presentato le dimissioni da parroco come esige il codice di diritto canonico. Poi ci fu un tiramolla perché il Patriarca e il suo vicario insistevano perché rimanessi ancora qualche anno avendo difficoltà a sostituirmi. Io allora ero pressato da due pensieri altrettanto gravi e angosciosi. Da una parte temevo che una comunità così complessa ed articolata finisse per implodere ed io dover assistere allo sfascio di una realtà che avevo tanto amato e per la quale mi ero veramente spremuto tutto. Dall’altra parte, essendo sempre stato un prete estremamente attento all’evoluzione così rapida del nostro tempo, temevo pure di non aver più la lucidità per interpretare i tempi nuovi e quindi di darne una risposta adeguata.

Comunque, nel trasloco da una “villa veneta” di parecchie centinaia di metri quadri, ad un quartierino di appena 49 metri, dovetti liberarmi di tutto quello che non mi era essenziale. Per i libri non potevo disporre che di un modesto armadio e perciò dovetti liberarmi di una biblioteca raccolta in cinquant’anni di vita e tra i tanti volumi ci fu anche quello sul mio vecchio maestro.

Me ne dispiacque, ma fortunatamente, proprio in questo ultimo tempo, me n’è stata donata un’altra copia che sto leggendo avidamente e con estremo interesse. In questi giorni sto rivedendo e pure scoprendo una documentazione di cui non ero in possesso e di cui non ero a conoscenza, circa il progetto pastorale cittadino che monsignor Vecchi propose al patriarca Urbani. Allora non se ne fece nulla perché Venezia, in tutte le sue articolazioni, ha sempre considerato Mestre come “una città di campagna” – come dicono, con un certo sussiego e sicumera i veneziani – ma ora sto constatando che c’è una involuzione ed una regressione veramente da far spavento da un punto di vista pastorale.

Il progetto di monsignor Vecchi, a più di un quarto di secolo, appare semplicemente avveniristico, mentre ora non solo non c’è progetto, ma neppure gli elementi base per poterlo sognare in futuro. Sto dicendomi: “Dove sono andati a finire l’AIMC, i Maestri cattolici, la Fuci, i Cappellani del lavoro, il Centro sportivo italiano, l’Associazione imprenditori, l’Azione Cattolica e tante altre realtà? Mi pare di dover constatare, con tanta amarezza, una involuzione quanto mai preoccupante.

Carità e solidarietà

Nota: come le altre, questa riflessione risale a svariate settimane fa.

L’altro ieri mi ha telefonato una giornalista de “La Nuova” per avere un parere sull’intervento sui questuanti del giovane parroco di Carpenedo, don Gianni Antoniazzi. Quello dei poveri è sempre stato un problema, ma ora con l’invasione dei poveri della Romania, della Moldavia, dell’Albania e di qualche altra nazione che se la passa male, il problema è diventato ancora più grave.

Per primo ha dato fiato alle trombe per segnalare il disagio che “l’azienda dei poveri” sta creando in città, don Fausto Bonini, il parroco dimissionario del duomo di San Lorenzo, denunciando l’invadenza e la prepotenza di questi giovani mendicanti che di certo fanno parte di un’organizzazione che li sfrutta. Ora sono pressoché scomparsi i poveri di casa nostra, rappresentati da persone minorate o in grave disagio mentale che la nostra società disinvolta, efficiente e spietata ha abbandonato sulla strada come “rifiuti di uomo”. Mentre è subentrato il “sindacato” dei poveri, organizzato, espertissimo in tutte le forme di mendicità che dall’insistenza giunge al ricatto e ad una certa “violenza”.

La stampa ha raccolto la presa di posizione, abbastanza insolita per un prete, e ne ha fatto oggetto di interesse pubblico. L’amministrazione comunale ha fatto le solite dichiarazioni fasulle e per nulla efficaci, e tutto continua come prima.

Il Comune, come sempre, se ne frega, specie ora che non ha più un sindaco. I vigili (mi dicono che Venezia abbia un esercito di quattrocento agenti) sono “impegnati” nei loro uffici e non gradiscono questo compito fastidioso che li costringe a lasciare le loro scrivanie e a stare per strada.

Come dicevo, il parroco di Carpenedo è intervenuto sul Gazzettino; la presa di posizione è rimbalzata da una pagina all’altra, ma penso che questi “poveri” abbiano capito che questi interventi assomigliano alle “grida” di manzoniana memoria, anche se non sanno che cosa siano “le grida”.

Dunque i giornalisti della “Nuova”, in costante ricerca di notizie, mi hanno telefonato, sapendo che sono uno dei pochi preti che tenta di avere idee piuttosto chiare e poi ha il coraggio di dirle pubblicamente.

Per quanto mi riguarda, mi rifaccio ancora una volta al pensiero di don Vecchi, mio maestro, che mi diceva: «Armando, se fai la carità ad un povero fai bene, se però questi soldi li destini ad una struttura per i poveri, ne aiuti molti e per molti anni, ma soprattutto risolvi i loro problemi». Non dimentico però il parere di una “Piccola sorella di Gesù” che, con discrezione, mi ricordava che anche un piccolo gesto è sempre un gesto di cortesia e di fraternità e perciò qualche spicciolo lo do ancora. Questo però lo faccio avendo alle spalle quattro associazioni di volontariato che ogni giorno dispensano vestiti, mobili, generi alimentari, frutta e verdura e che in un anno compiono quasi quarantamila interventi.

Non so però se le parrocchie e il Comune hanno un retroterra così solidale che conforti le loro coscienze.

Forza Matteo!

Credo che sia la prima volta, dal ’45 ad oggi, che la Cgil critichi un uomo del partito che, dalla liberazione in poi, è stato il suo fratello gemello e che Renzi, il segretario del partito di Togliatti, Ingrao, Longo e Pajetta, risponda a tono alla Camusso, segretaria di quel sindacato che non aveva mai staccato il cordone ombelicale dal partito della sinistra italiana.

Talvolta mi vien da pensare che Matteo Renzi, come Papa Francesco, abbia rotto l’incantesimo di organizzazioni che col tempo sono diventate come cariatidi, rigide e sacrali. Nei discorsi, negli atteggiamenti e nelle battute, pare che Renzi non abbia più nulla di quei capi di governo sussiegosi, impettiti, misurati nelle parole e nei giudizi, e che porti invece nella politica italiana e nei palazzi del potere un’aria scanzonata, un linguaggio disinibito che fa saltare tutte le regole del protocollo, della diplomazia; pare che porti dentro a questo mondo compassato della politica e del governo una ventata di giovinezza e di novità. Questo vale per il nostro Paese, ma più ancora per la vecchia Europa, saccente e prepotente più che mai.

Un giorno ho visto il nostro Matteo che, smessa la cravatta e il vestito buono, s’è versato addosso un secchio di acqua gelida per promuovere la campagna di informazione e di ricerca a favore della Sla. Mai avrei immaginato di vedere un capo di governo così scanzonato, così libero dai protocolli e dalla tradizione.

Non so se Renzi ce la farà a ridonare speranza, fiducia, ottimismo e voglia di sognare e di sfidare il destino cupo agli italiani, ma anche solamente il tentativo di farlo mi pare una cosa importante. Di Renzi soprattutto mi piace la disinvoltura, mi piace che non soffra di complessi, ma parli con coraggio e chiarezza, dica ad ognuno quello che si merita senza subire il complesso di rispettare certi “mostri sacri”, quelli che se si toglie loro i galloni e quell’autoritarismo o quella sfrontatezza alla Grillo, sono poveri uomini come tutti gli altri.

E’ vero che il nostro scout, ormai con i pantaloni lunghi, è un po’ sbruffoncello, ha la battuta sagace, si muove come un ragazzone ancora poco maturo, però rappresenta il positivo, l’ottimismo, la giovinezza, la speranza e la sfida. E questo non è poco, perché l’alternativa sarebbe purtroppo il ghigno, il sarcasmo, l’invettiva e l’ironia del comico sbracato, irridente e presuntuoso ancor più di Matteo.

Per me Matteo è ancora una speranza ed ogni sera perciò gli dico una preghiera perché essa non svanisca.