Onore alla memoria

Da circa un anno e mezzo è tornata alla casa del Padre la concittadina Annamaria Malvestio, che ha seguito sempre con tanta attenzione e generosità lo sviluppo dei Centri don Vecchi e mi ha accompagnato con stima ed affetto nella realizzazione del progetto di offrire agli anziani in disagio economico un alloggio decoroso e funzionale a costi accessibili anche per chi gode solamente della pensione sociale.

La signora Annamaria ha suggellato questa collaborazione anche dopo la sua morte, disponendo che una parte del suo notevole patrimonio fosse destinata ad una decina di strutture solidali, tra i quali c’è stata pure la Fondazione Carpinetum dei Centri don Vecchi. Proprio in questi giorni s’è concluso l’iter testamentario che ha portato nelle casse della Fondazione circa 80 mila euro.

Porto a conoscenza della cittadinanza questo evento perché Mestre possa onorare i suoi cittadini più saggi ed altruisti e si venga a sapere che lo sviluppo pressoché “miracoloso” dei nostri centri è dovuto in parte notevole a questi lasciti testamentari che hanno permesso che in circa vent’anni la nostra città potesse fruire di più di quattrocento alloggi quanto mai degni e signorili per gli anziani meno abbienti, i quali a motivo di questa generosità possono vivere serenamente la loro vecchiaia in ambienti protetti e soprattutto alla portata anche di chi dispone di poco.

Segnalo pure questa scelta tanto meritoria perché sia di esempio e sprono a tutti coloro che dispongono di qualche bene e che non hanno doveri verso parenti diretti affinché tengano conto di questa scelta così meritoria e socialmente utile.

Segnalo pure alla cittadinanza l’impegno e la bravura con i quali l’avvocato Ugo Ticozzi, tanto affezionato alla Fondazione Carpinetum, ha portato a termine questa eredità, che ha presentato dei passaggi quanto mai impegnativi.

Una volta ancora tocco con mano che se gli obbiettivi sono nobili e condivisibili e quando tutti i membri della comunità lavorano per il bene comune è possibile realizzare opere notevoli. Questa ultima eredità sta spronando il Consiglio di amministrazione della Fondazione Carpinetum a sognare con maggiore concretezza e realismo il Centro don Vecchi sette da costruire agli Arzeroni, località in cui dispone di una superficie idonea e di un permesso a costruire da parte del Comune.

Un’altra eredità per la Fondazione

Il signor Angelo Furlan, è morto a Venezia il 28 marzo scorso. Ha donato per testamento l’arredo della sua casa ai magazzini San Giuseppe del Centro don Vecchi.

Della liquidità che possedeva ha lasciato il 27% alla Casa di riposo Santa Maria dei Battuti, il 27% al Centro Nazaret, il 27% a don Armando Trevisiol già parroco di Carpenedo a favore delle sue opere di assistenza e il restante 19% alla nipote. La somma totale da suddividere ammonta a circa 90.000 euro, motivo per cui potremo disporre per i progetti della Fondazione di circa 25.000 euro.

Non posso che ringraziare il saggio e munifico benefattore però sento il dovere di additare pure la sua scelta all’ammirazione e alla riconoscenza dell’intera cittadinanza che trarrà beneficio anche da questa scelta.

Celebrerò quanto prima una messa in suffragio per il bene della sua anima, sperando che questa bella testimonianza di solidarietà spinga tanti altri cittadini a fare altrettanto per continuare a fare del bene in città.

L’insegnamento di Giuliana

Di recente sono intervenuto in maniera che qualcuno ha giudicato persino eccessivamente dura nei riguardi di più di un anziano che chiede di entrare in uno dei Centri don Vecchi e poi si comporta come se l’alloggio che gli è stato assegnato (dopo aver dichiarato di essere in grave bisogno economico) rappresentasse un qualcosa di anonimo e sganciato da una comunità viva e cristiana. Poi mi capita spesso di osservare che costui usa l’alloggio ottenuto come fosse un “pied a terre” comportandosi come un estraneo qualunque, non inserito per nulla nella vita della comunità e non collabora in alcun modo alle necessità del centro in cui abita.

Nel mio intervento ho detto a chiare lettere che non intendiamo per nessun motivo diventare degli affitta alloggi a buon mercato, ma domandiamo collaborazione di tutti per costruire una comunità di fratelli, per mantenere i costi così ridotti in maniera che anche gli anziani più poveri possano vivere in un ambiente signorile in un contesto di collaborazione attiva.

Credo che finché avrò vita ribadirò questo concetto, non vorrei però che si potesse pensare che tutti i residenti si comportino così. Ci sono infatti degli splendidi anziani che sentono il Don Vecchi come la loro dimora e che danno il meglio di sé non solo per il bene di chi vive nelle strutture, ma si impegnano anche seriamente in tutte quelle meravigliose attività del centro a favore dei poveri della città. Sono decine e decine gli abitanti impegnati per le necessità della struttura, ma anche per tutte le attività caritative che vengono svolte in favore del prossimo.

Ho sentito il dovere di fare questo nuovo intervento perché la città conosca anche la faccia migliore della medaglia e soprattutto perché in questi giorni è venuta a mancare, e lo dico senza enfasi e retorica, ma per pura verità, una delle più belle figure di questo impegno e di questo servizio a favore dei poveri.

E’ morta il 7 giugno a novantanni Giuliana Marin. Era una donna minuta di statura con due occhi vivi e sempre sorridente, sempre serena e laboriosa. Abitava in un appartamentino al secondo piano, lindo e ordinato, e dedicava la gran parte del suo tempo per l’umile ma necessario servizio di preparare le montagne di frutta e verdura che ogni giorno sono raccolte e distribuite ai poveri. Da una ventina di anni passava, silenziosa e instancabile, il pomeriggio presso “la Bottega Solidale” a Carpenedo, e più di recente ha continuato il suo umile ma prezioso lavoro presso il chiosco di frutta e verdura del Don Vecchi.

Giuliana poi cantava nel coro Santa Cecilia, era fedele alle prove e al sabato sera presso “la sala dei 300” al Don Vecchi e alla domenica nella “Cattedrale tra i cipressi” al cimitero metteva la sua voce per animare la Santa Messa.

Cristiana convinta e fedele, era sempre disponibile e serena, ha svolto il suo servizio con entusiasmo e rigore. Vedova da molti anni visse per la figlia che amava, ma era pur sempre disponibile per tutti. Ringrazio veramente il Signore di aver incontrato questa piccola e grande figura di donna che ha dato a tutti il meglio di sé sorridente e felice di poter essere utile al suo prossimo.

Il medico del Don Vecchi

Mercoledì 12 aprile è dolcemente tornata alla casa del Padre, dopo aver devotamente ricevuto il sacramento degli infermi, la signora Maria Carrer, la carissima mamma della dottoressa Carla Casarin, medico che da quasi un quarto di secolo cura i residenti del Centro don Vecchi.

Io sono sempre stato legato da vincoli di stima e di affetto a questa cara famiglia per essere stato il loro parroco per 35 anni e soprattutto perché, circa 40 anni fa, ho accompagnato al camposanto il marito della defunta. Il signor Casarin è morto giovane lasciando alla sua sposa i suoi due figli appena adolescenti da crescere. Questa cara signora affrontò la vita con tanto coraggio e tanta fede riuscendo a portare alla laurea tutti e due i suoi figli: Carla medico e Giuseppe ingegnere.

Quando ho progettato il Don Vecchi ho escluso fin da subito di assumere un medico che sarebbe costato alquanto ai residenti, però ho offerto un ambulatorio ove un medico di famiglia potesse assisterli all’interno della struttura senza però pesare sulle loro magre risorse economiche.

Al tempo dell’apertura del primo centro, nel 1994, la dottoressa Carla s’era appena laureata e aveva davanti a sé la sfida di acquisire un certo numero di pazienti. Le offrii quindi l’ambulatorio e perciò la gran parte dei nuovi residenti la scelsero come loro medico di famiglia. Fu una fortuna per noi e per lei, noi perché abbiamo avuto modo di avere in casa una professionista preparata, intelligente, affabile, paziente e perfino bella – un po’ di grazia non guasta mai – e per lei, perché questa nostra scelta la lanciava nell’ambito della professione. La carriera poi della dottoressa Carla Casarin quasi subito ebbe un esito brillante, tanto che attualmente ha il massimo di pazienti consentiti dalle norme attuali.

Oggi, nonostante fare il medico al Don Vecchi sia una delle cose più faticose e difficili di questo mondo, ella è rimasta da noi e io intendo la sua presenza come una vocazione piuttosto che un normale lavoro redditizio. Assistere un centinaio di anziani qui da noi è di certo molto più impegnativo che curare un migliaio di giovani, perché un giovane andrà dal medico sì e no una volta all’anno, mentre i nostri anziani tentano di andarci due volte al giorno, a motivo delle molte magagne da cui sono affetti e dalle infinite manie che sono proprie della loro veneranda età. Al Centro don Vecchi andare dal medico è abbastanza simile al desiderio di incontrare una persona giovane e simpatica con la quale passare una mezzoretta raccontando le storie più diverse: dai guai familiari ai bisticci con i vicini!

Attualmente i sei Centri don Vecchi si avvalgono di una mezza dozzina di medici, ma la dottoressa Carla, a motivo della sua “anzianità” di professione, del suo atteggiamento affettuoso, sorridente e rasserenante rimane il medico del Don Vecchi per antonomasia. Approfitto di questa circostanza dolorosa, che ha colpito la dottoressa Carla, non solamente per esprimere il nostro più affettuoso e caloroso cordoglio, perché tutti la consideriamo come una figlia o forse meglio ancora come una dolce nipote; ma pure per dirle quanto le vogliamo bene e quanto le siamo riconoscenti per le sue prestazioni mediche e soprattutto per la sua paziente e calda umanità.

In ricordo di Marisa

Marisa era una mia coetanea, classe 1929, che abitava come me presso il Centro don Vecchi di viale Don Sturzo. La signora Marisa aveva fatto la “fruttarola” per tutta la sua vita, motivo per cui aveva grande esperienza nel rapporto che si deve tenere con gli altri, ella era una veneziana che più veneziana non si può, motivo per cui aveva una parlata simpatica, scorrevole e vivace; profumava di laguna nella mentalità, nel pensiero, nell’approccio col prossimo: spiritosa, sorniona nella battuta ed accattivante nel rapporto, tanto che interloquiva sempre con i suoi “tesoro, amor mio”.

Marisa non amava troppo ritirarsi in casa, difatti passava tutti i pomeriggi tenendo banco presso un crocchio di coetanee che passavano il tempo e godevano delle sue battute. Marisa, innamorata del figlio ed innamoratissima dei nipoti che ce li dipingeva come dei portenti di ragazzi, con me aveva un feeling particolare essendo, come ho detto, mia coetanea.

Sono veramente addolorato per questa perdita, però in quest’occasione mentre sento il bisogno di salutare ed affidare al buon Dio questa donna, debbo rivelarvi un piccolo segreto. Marisa era felicissima di abitare al Don Vecchi, struttura che considerava la più bella delle soluzioni per anziani e diceva un po’ a tutti questa sua felicità.

Al Don Vecchi bazzicano di frequente giornalisti, operatori televisivi per inchieste e soprattutto per la novità circa la domiciliarità degli anziani poveri; normalmente chiedono a me come ideatore del Don Vecchi le notizie che possono interessare ai lettori circa questa struttura decisamente innovativa. Poi per esigenza del mestiere chiedevano di poter interrogare pure qualche vecchio residente. Allora con aria e previsione certa della risposta, dicevo al crocchio di amiche, tra le quali non mancava mai la signora Marisa: “I signori avrebbero piacere che diceste anche voi come vi trovate in questa casa di riposo”. Ella puntualmente e per me in maniera prevista e desiderata, balzava in piedi e con gli occhi spalancati ed in atteggiamento di stupore sbalordito affermava: “Cosa? Questa casa di riposo? Ah cari signori, questo è un centro benessere!” E snocciolava quindi di seguito le meraviglie del Don Vecchi!

Marisa è morta nel sonno dopo un paio di settimane di malessere. Ci mancherà perché era una persona particolare, ma nel contempo rimaniamo felici perché cento, mille volte ci ha confidato e detto a tutti che al Don Vecchi ha vissuto i più begli anni della sua vita. (d.A.)

Addio a un testimone di solidarietà

La stampa cittadina ha segnalato con un certo rilievo la morte del dottor Vittorio Coin, già presidente della notissima impresa d’abbigliamento della nostra città. I quotidiani locali hanno parlato della competenza e dei meriti di questo imprenditore che giustamente devono essere sottolineati. Dal canto mio, vorrei aggiungere una nota per esprimere stima e ammirazione a questo nostro concittadino. In proposito, di primo mattino m’è giunta una telefonata della figlia del dottor Vittorio Coin, informandomi che suo padre era mancato durante la notte aggiungendo poi che, avendo avuto egli molta stima su quanto andiamo facendo con i Centri don Vecchi e con le nostre varie attività caritative, ha ritenuto doveroso darmi la dolorosa notizia. Questa telefonata ha fatto emergere dalla mia memoria alcuni episodi della vita di questo concittadino, che non solo ha ben meritato nei riguardi della città con la sua attività commerciale dando lavoro e benessere a tanta gente, ma pure ha avuto attenzione per i poveri e chi si occupa di loro.
Eccovi alcuni episodi degni di nota.

  • Un paio di anni fa, invitato dal signor Danilo Bagaggia, ex dipendente della Coin e attuale direttore del più grande ipermercato di carattere solidale del Triveneto, ha visitato i nostri magazzini, ha partecipato alla cena dei 110 volontari, ci ha offerto una cifra notevole e ci ha promesso il suo aiuto.
  • L’attuale associazione “Vestire gli ignudi” gestisce un enorme ipermercato di vestiti, per metà usati e per metà nuovi, offerti dalla Oviesse. È certo che una volta è stato lui a fare questa scelta e poi, quando è uscito dall’azienda, ha certamente presentato favorevolmente la nostra attività, tanto che continuiamo a ricevere una gran quantità di indumenti nuovi.
  • Lo scorso anno, in occasione delle sue nozze d’argento, ha invitato gli amici a non fargli regali ma a offrire il corrispondente alla nostra Fondazione. In quell’occasione abbiamo incassato ben euro 27.000.

Mi piace indicare questi lati nascosti della personalità di questo imprenditore, lati che dimostrano la sua bravura di gestore di una grande azienda ma soprattutto la sua alta statura umana.

San Martin Lutero?

Qualche volta la storia condanna un uomo che può essere compreso dopo qualche secolo. Prima di esprimere un giudizio bisogna avere una grande pazienza

Durante tutta la mia infanzia, ma pure durante la mia giovinezza, m’era stato dipinto Martin Lutero, l’autore della Riforma protestante, come un traditore della fede, un crapulone dalla vita disordinata che ha spaccato la Chiesa. Da qualche anno però sto facendo marcia indietro, anzi una conversione ad “u”! Sto leggendo un bel volume di Graziella Lugato, dal titolo “Visite pastorali antiche nella parrocchia di San Lorenzo di Mestre. Dal Concilio di Trento alla bolla papale Ob Nova”.

Per me, che ho speso in quella parrocchia quindici anni di esaltante vita pastorale, queste notizie mi incuriosiscono quanto mai. Ho appena letto che il parroco d’allora, don Camillo, che aveva ereditato dallo zio don Andrea il beneficio (cioè la rendita inerente al titolo) viveva normalmente a Venezia perché “l’aria di Mestre non gli conferiva”, e veniva a Mestre, in parrocchia di San Lorenzo, due o tre volte all’anno e vi rimaneva uno o due giorni al massimo!

Questa era la parrocchia del Duomo al tempo di Martin Lutero, c’è da figurarsi come fosse il Vaticano a quei tempi! Mi vien da pensare che il buon Dio abbia scelto il monaco tedesco per la necessaria riforma della Chiesa e non certo per la contro riforma e quindi dovremmo trovare pure un altare anche nella nostra chiesa di San Lorenzo da dedicare a Martin Lutero!

Sono ormai molti anni che sto rivedendo e correggendo certa cultura che mi hanno propinato a buon mercato! Mi spiace solamente che sono arrivato troppo tardi in questa verifica e rilettura dell’apologetica ecclesiastica.

È vero: una revisione critica del nostro pensiero e delle nostre convinzioni è sempre faticosa perché fa traballare e scombina l’architettura della struttura mentale nella quale abbiamo inquadrato la nostra visione del mondo e del messaggio cristiano. Tuttavia ritengo doveroso, che pur con pacatezza e pazienza, dobbiamo mantenerci in costante verifica del nostro modo di pensare e di vivere se vogliamo essere onesti con noi stessi e con le persone con cui viviamo.

Fortunati noi che abbiamo l’opportunità, grazie all’insegnamento di Papa Francesco, di veder tutti noi non come dei nemici o dei competitori, ma sempre e comunque come fratelli.

Non lasciatevi rubare la speranza

Una delle frasi ricorrenti nei discorsi di Papa Francesco, oltre a quelle che si riferiscono alle “periferie” delle nostre città, della nostra cultura, della nostra chiesa ed altre infinite esortazioni a credere nel Dio della misericordia, è quella ribadita spesso con convizione di “non lasciarci rubare la speranza”.

Papa Francesco, a differenza di tantissimi pontefici, pur santi, è un Papa del tutto declinato al positivo, e sta finendo per passarci alcuni principi “chiari e distinti”.

L’ammonimento del Pontefice a non farci rubare la speranza dai pessimisti, dai burocrati, dai politici corrotti, dagli ecclesiastici di mestiere e dai nichilisti del nostro tempo, è per me, e penso per l’umanità, uno dei regali più belli e più preziosi ch’egli ci possa fare.

Ho la sensazione che questo seme sparso con tanta convinzione e tanto coraggio, stia mettendo radici e qualche germoglio anche in me, piuttosto fragile e pessimista. Chiedo a voi miei amici di darmi un minuto per confidarvi come ho felicemente scoperto che la semente del Papa pare stia attecchendo anche nel mio animo.

Il discorso è povero e quasi banale, però per me è stata una felice scoperta.
Eccovi la piccola storia: in una delle mie rarissime visite a mio fratello Roberto ho notato che aveva in giardino un arbusto fiorito con delle campanule bianche, gialle e rosa che pendevano dal ramo con la testa all’in giù. Amante delle piante, ne chiesi un paio a mio fratello, appresi poi in seguito ch’erano piante lacustri e che non sopportavano ne il sole ne il gelo. Queste piante da un paio d’anni rallegrano il parco del don Vecchi. L’autunno scorso, essendosi riprodotte in esubero, pensai di non portarle dentro casa ma di lasciarle accostate ad una parete a sud, protette dal tetto e dai poggioli, sennonché mi accorsi che erano state bruciate dal ghiaccio.

La cosa mi dispiacque quanto mai, ero amareggiato di non poter più godere di quel bel fiore. Sennonché suor Teresa, nel cui cuore il germe della speranza del Papa ha attecchito più che nel mio, mi rassicurò che il gelo non aveva intaccato le radici. Cosicché tagliai il fusto esterno e misi al sole questi vasi con i soli monconi di ramo, apparentemente secchi.

A metà maggio, con i primi tepori primaverili spuntarono dei germogli, che ora sono quanto mai rigogliosi. Ogni volta che guardo questi vasi mi pare che mi ripetano: il secco, il guasto è quello che appare, ma nel cuore della nostra gente le radici cristiane prima o poi metteranno germogli!

Una strana scoperta

Forse stavo frequentando il liceo quando qualcuno, che non ricordo più chi sia stato, mi ha passato il quindicinale “Adesso”.

Ho cominciato fin d’allora a leggere con tanta passione questo periodico, diretto da Primo Mazzolari; per quei tempi era un periodico assolutamente d’avanguardia nel campo cristiano.

Ho poi continuato a leggerlo in maniera un po’ clandestina perché anche la gerarchia locale del tempo era molto sospettosa nei suoi riguardi. Ho avuto poi modo quindi di seguire le vicissitudini di don Mazzolari, che da prete aperto ai tempi nuovi subì una vera “persecuzione” da parte del cosiddetto Sant’ufficio della curia vaticana, tanto da costringerlo prima a chiudere il giornale per poi riaprirlo facendone direttore responsabile un suo amico, e continuando a scrivere nascondendosi dietro un pseudonimo. Comunque la mano della curia vaticana è stata particolarmente pesante, arrivando a proibirgli non solamente di scrivere, ma perfino di predicare, confinandolo a Bozzolo una piccola parrocchia di campagna.

La venuta del Concilio però ridimensionò il concetto di chiesa, ma soprattutto l’avvento di Papa Giovanni al soglio pontificio riabilitò questo prete, che soffrì in silenzio gravissime umiliazioni da parte di un’organizzazione ecclesiastica, ottusa, chiusa al domani e burocratica quanto mai.

In questi giorni m’è capitato di leggere “Impegno” il periodico edito dalla Fondazione don Mazzolari, ove ancora una volta sono venuto ancor più a conoscenza della “persecuzione” subita da questo prete intelligente ed obbediente fino all’impossibile. Riflettendo su questa vicenda ecclesiastica è venuto da pensare di quanto io sia stato fortunato di vivere nella stagione di Papa Francesco. Se fosse continuato lo spirito inquisitore di un tempo, credo che date le mie intemperanze almeno una scomunica l’avrei presa!

Ai nostri tempi si è amareggiati per il calo dei fedeli o per qualche altro scandalo che continua a sporcare il volto della chiesa, ma quanto più bella, più viva, più evangelica è la chiesa dei nostri tempi!

Ora capisco l’ottimismo di Papa Giovanni, che da studioso di storia della chiesa qual’era, ci diceva quando era nostro Patriarca, che mai come ora la comunità cristiana vive momenti inebrianti.

La lettura poi delle vicende di don Mazzolari con i dicasteri della Santa sede mi ha ricordato pure che in tempi lontani un parroco a cui ero sembrato troppo avanzato di idee, per alcune domeniche mi proibì di predicare; mi faceva dir messa, ma predicava lui! Comunque la cosa si concluse presto e per mia fortuna senza sanzioni canoniche!

Amore ed odio

I funerali e le televisioni hanno appena terminato la “grande abbuffata” sulla vita e sulla proposta civile e politica di Marco Pannella. Dopo gli interventi dei più prestigiosi giornalisti credo che per tutti sia praticamente impossibile scrivere qualcosa che non sia già stato detto. Se questo vale per gli uomini della cultura, tanto di più vale per me povero vecchio prete!

Però credo, che se confido agli amici quali siano stati i miei rapporti personali con questo spirito libero e liberatorio, possa aiutare anche i miei amici a prendere posizione su questo personaggio, che ha influito più di molti altri sul pensiero e sul costume della gente del nostro tempo.

Già in passato ho affermato a chiare lettere che per i radicali in genere e per Pannella e la Bonino in particolare ho sempre nutrito un sentimento di “amore ed odio”. Confesso inoltre che ho ascoltato con molto interesse il loro messaggio e che pure per certi aspetti ne ho tratto beneficio. Non sarei quello che sono a livello civile e pure religioso se non avessi incontrato questi testimoni e profeti laici, verso cui provo ammirazione e riconoscenza!

Comincio con “l’odio”: Ho sempre rifiutato in maniera “radicale” il Pannella dell’aborto, dell’eutanasia, e della liberalizzazione della droga. Perché ho sempre avuto l’impressione che questo personaggio pretendesse di mettersi sul posto di Dio volendo rivedere e riprogettare il volto della creazione voluta dal Signore.

Reputo istigazione all’omicidio, al suicidio e alla corruzione della gioventù le prese di posizione arroganti ed assolute di Pannella e dei suoi discepoli.

Ora vengo “all’amore”; ho ammirato, condiviso e sono riconoscente per le campagne di Pannella: sulla giustizia giusta, “sulla sua crociata” a favore dei paesi sottosviluppati, sulla assoluta presa di posizione contro la disumanità delle nostre carceri, sul suo impegno per i diritti civili, sulla difesa all’ultimo sangue del cittadino di fronte a qualsiasi legge che limiti o mortifichi la sua libertà, sulla sua intransigenza contro una chiesa trionfalista, intrigante e irrispettosa dell’autonomia dello Stato, il quale deve garantire sempre a tutti la libertà.

Ho pure condiviso ed ammirato la scelta di Pannella della non violenza portata avanti con la parola e con i suoi digiuni.

Questo è il Pannella che ho amato, ammirato e di cui mi sento debitore. Da Pannella poi ricevo come preziosissima eredità la lettera che ha inviato a Papa Francesco, lettera di una tenerezza commovente, che io reputo sia la testimonianza più bella e più genuina che emerge dalla parte più pulita e più sana della coscienza di questo “combattente” del nostro tempo.

Caro papa Francesco,
Ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano, vicino al cielo, per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa, questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano.

Questa passione è il vento dello “Spirito” che muove il mondo lo vedo dalla mia piccola finestra con le piante impazzite che si muovono a questo vento e i gabbiani che lo accompagnano.

In questo tempo non posso più uscire, ma ti sto accanto in tutte le uscite che fai tu.

Un pensiero fisso mi accompagna ancora oggi “Spes contra Spem”.

Caro Papa Francesco, sono più avanti di te negli anni, ma credo che anche tu ti trovi a dover vivere “spes contra spem”.

Ti voglio bene davvero, tuo Marco

PS: ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene.
Roma 22 aprile 2016

Un incontro desiderato

Alcune settimane fa mi è stato chiesto dalla Fondazione di scrivere una lettera al Sindaco per elencare i punti critici dei Centri Don Vecchi al fine di superarli lavorando in sinergia con il faraonico apparato comunale. Ho scritto, come mi viene naturale, una lettera con tanto pepe chiedendo al Sindaco un colloquio per mettere a punto il rapporto che io ritengo assolutamente necessario con l’ente pubblico, rapporto in cui il ruolo dell’ente pubblico ritengo non debba essere quello di gestire i servizi sociali ma quello di svolgere una regia intelligente per tutte quelle realtà di base a cui, a vario titolo, sta a cuore il bene della comunità.

Quando, durante la campagna elettorale, ho avuto modo di incontrare l’aspirante Sindaco gli ho chiesto di instaurare un rapporto privilegiato con il “privato sociale” e più volte mi sono permesso di suggerirgli di mantenersi alla larga dai sindacati, dai centri sociali, dai “comitati no a tutto” e dalle nobildonne che quando s’incontrano per il tè si sentono delle dogaresse.

Ho fatto presente al Sindaco, come detto, alcuni punti critici della Fondazione, anche se essa naviga con il vento in poppa. Avrò modo, in altre occasioni, di ritornare su queste criticità per le quali è necessario il dialogo con l’Amministrazione Comunale così come è necessario per il Comune dialogare con una realtà che mette a disposizione quasi 500 alloggi per gli anziani più poveri e che rappresenta una delle strutture più avanzate e moderne per la loro domiciliarità.

Le sensazioni che ho avuto dal colloquio sono state sostanzialmente positive. Brugnaro mi è parso un uomo intelligente, concreto, con un’ottima conoscenza dei problemi, estraneo al politichese degli uomini di partito, con idee e obiettivi condivisibili, totalmente allergico alla dialettica fatua ed inconsistente degli amministratori impreparati e sapientoni espressione dei partiti di qualsiasi colore, pragmatico e in rottura con la prassi amministrativa di una sinistra che ha portato al limite del fallimento il nostro Comune. Se penso però a tutto quel mondo clientelare e interessato che dovrebbe sradicare, temo che non gli basti la semplice Ave Maria serale che gli dedico, forse non gli basterebbe neppure l’intero Rosario.

Un dono non sufficientemente apprezzato e amato

Io, dopo un evento che mi ha coinvolto e che mi ha fatto soffrire, non riesco a voltare pagina facilmente. I mass-media, che per due giorni mi hanno “tormentato” con interviste e domande sulla tragica morte dell’ingegner Cecchinato e di sua moglie, certamente domani saranno alla ricerca di un’altra notizia che possa interessare l’opinione pubblica ma per me le cose non vanno così.

Il sapere che una persona, che ho incontrato e conosciuto anche se superficialmente, si è tolta la vita non mi lascia e non mi lascerà indifferente per molto, molto tempo. Il pensiero poi che questa persona sia “naufragata” perché non aveva l’appiglio della fede, quell’appiglio che tante volte mi ha salvato e per il quale io sono stato scelto come prete per offrirlo a chi mi sta accanto, è qualcosa che mi turba e mi costringe a riflettere.

Ricordo sempre Bernanos che nel suo “Curato di campagna” fa dire al prete protagonista: “Non è colpa mia se vesto da beccamorto (allora i preti portavano la tonaca nera) ma comunque io offro la speranza a chiunque me la chieda”. Io avevo ed ho ancora, per grazia di Dio, quel dono di cui anche l’ingegner Cecchinato aveva bisogno e mi addolora moltissimo non essere riuscito a trasmettergli quel dono a cui avrebbe potuto aggrapparsi in quel triste momento della sua vita.

In questi giorni di turbamento una volta di più ho capito quale ricchezza sia stata offerta a noi credenti, ricchezza che talvolta non apprezziamo e non testimoniamo quanto sarebbe giusto e doveroso.

Proprio ieri mi è capitato di leggere una pagina ingenua e candida che mi ha aiutato a capire ancora meglio quanta sicurezza, coraggio e serenità porti nell’anima la fede in Dio. La offro perciò anche a voi amici perché abbiate quell’appiglio che l’ingegner Cecchinato non è riuscito a trovare.

“Mamma!” una vocina chiama dal bagno. “Sono qui, tesoro”, risponde la madre. Anche se la bambina non la vede si calma subito udendo la voce in cui ha fiducia. Poi, improvvisamente, la porta si chiude sbattendo per una corrente d’aria. Il rumore inatteso scuote la bimba. “Mamma? Sei ancora lì?” dice con voce tremante di paura. “Sono qui, amore! Ti prometto che non ti lascerò”.

Come la bambina, a volte anche noi ci troviamo in situazioni che incutono timore. Non possiamo vedere Dio, non possiamo sentire la sua presenza, cadiamo nel panico, temendo che ci abbia abbandonati in un territorio sconosciuto. Ma quando gridiamo “Abba!” Dio ci assicura: “Io non ti lascerò e non ti abbandonerò”. La fede nella parola di Dio fa cessare le nostre paure. Tra le Sue braccia amorevoli troviamo la forza per affrontare i momenti più difficili della vita, sapendo che Lui non ci abbandona.

Il dramma che mi pesa nel cuore ma non mi toglie la speranza

L’intera città è rimasta sconcertata dal tragico evento che ha coinvolto l’ingegner Ernesto Cecchinato e sua moglie. È stato estremamente difficile per tutti comprendere il gesto del nostro concittadino che, dopo aver ucciso la moglie, ha posto fine alla sua vita ma è stato ancora più difficile capire perché egli si sia fatto portare da Abano a Mestre ed abbia scelto il giardino pensile del nostro ospedale per mettere la parola fine a due esistenze.

Queste domande comunque sono oziose e per nulla utili, l’importante è chiederci come mai nessuno si sia reso conto della disperazione che ha portato a questo dramma e non gli abbia offerto quella solidarietà che forse l’avrebbe aiutato a superare lo sconforto e la solitudine interiore.

I giornali mi hanno descritto come “il suo amico sacerdote”, in realtà non è stato così. L’ingegner Cecchinato l’avevo conosciuto quando mi donò, per il Don Vecchi, prima 150 suoi dipinti accompagnati da 5 milioni di lire e poi lo incontrai nuovamente quando, un paio di anni fa, mi offrì sempre per il Don Vecchi 100.000 euro. Sono certo che nutrisse fiducia e stima nei miei confronti, da parte mia fin dal primo incontro provai simpatia per questo uomo intelligente, generoso ed onesto.

Una mia vecchia parrocchiana, che conosceva l’ingegner Cecchinato meglio di quanto non lo conoscessi io, avendo saputo del suo dono mi disse: “Don Armando, gli stia accanto perché sta molto male e non ha il conforto della fede”. Molti pensano che una “buona parola” possa “convertire” una persona ma purtroppo so per esperienza che solamente una testimonianza coerente ed un’amicizia sincera forse può generare in un non credente una crisi positiva capace di aprire uno spiraglio di speranza. Ho fatto qualcosa ma non è stato sufficiente, forse perché era gravemente ammalato e sua moglie lo era molto più di lui ma soprattutto perché vivevamo molto lontani l’uno dall’altro e oltre alla stima reciproca non c’era molto altro. Io desideravo offrirgli conforto e speranza lui invece nutriva la curiosità di sapere come procedeva la realtà del quartiere Don Sturzo per il quale aveva lavorato e penato alquanto.

Sono estremamente addolorato per la tragica fine di questi due anziani coniugi ma non ho perso la speranza sia perché condivido il pensiero di Sant’Agostino che afferma che “ci sono uomini che Dio possiede e la Chiesa non possiede” sia perché il Dio in cui credo e che amo ha il volto del padre del figliol prodigo. Queste verità mi offrono la certezza che anche queste due care creature troveranno la pace.

Gli angeli dei nostri giorni

Un paio di anni fa, o forse più, mi hanno invitato all’inaugurazione di quel brutto “angelo dalle vesti color argento” che uno scultore veneziano ha donato alla ULSS 12 perché fosse collocato nello splendido giardino pensile del nostro ospedale. L’invito a questo evento forse mi è stato rivolto per il ruolo di assistente religioso presso le corsie che ricoprivo o che avevo appena lasciato.

In quell’occasione fece la presentazione Cacciari che allora era ancora nostro Sindaco. Egli tenne una conversazione dotta sul tema dell’angelologia e lo tenne da persona veramente esperta. Seppi in quell’occasione che il nostro Sindaco filosofo aveva appena fatto una pubblicazione sul tema degli angeli, cosa che mi stupì alquanto ma che rafforzò la mia fede nella presenza degli angeli in questo nostro mondo. La cosa mi sorprese assai perché sapevo che Cacciari è un libero pensatore che, anche se estremamente attento e rispettoso nei confronti della fede, non ha mai fatto mistero di non essere credente.

Ogni volta che mi reco in ospedale non riesco a non gettare uno sguardo su quell’angelo mal riuscito che stona alquanto inserito com’è nella bellezza di Madre Natura così ben espressa dal giardino pensile della “Torre Maya”, gioiello architettonico della nostra città così povera di belle strutture.

Quest’anno, non so rendermi conto del perché, il 2 ottobre, festa liturgica degli Angeli Custodi, mi sono trovato a riflettere con attenzione su queste creature celesti tentando di interpretare in chiave attuale questo tema che nel passato rientrava nell’iconografia di una certa “mitologia cristiana”. A Ca’ Solaro, dove ho tenuto la mia breve riflessione durante la Messa del primo venerdì del mese, ho iniziato il sermone spiegando che il termine angelo significa messaggero e nel contesto cristiano messaggero di Dio. Ho proseguito affermando che è estremamente vantaggioso essere più attenti a quegli impulsi e a quelle folgorazioni interiori che offrono al nostro animo la possibilità di una maggiore apertura al bene, alla verità e alla solidarietà, intuizioni e folgorazioni che altro non sono se non i suggerimenti di un messaggero, quindi di un angelo del buon Dio.

Meglio ancora però quando scopriamo che il Signore spessissimo si avvale anche di “angeli” senza ali che testimoniano il bene e con la loro presenza ci invitano a farlo. Ricordo un bel romanzo del Cronin dal titolo “Angeli nella notte” che parla delle infermiere al capezzale degli ammalati che riordinano le lenzuola e che offrono parole di conforto e di affetto. Quel romanzo sugli angeli in carne ed ossa mi ha fatto capire che gli “angeli” esistono davvero e sono più di quanti noi posiamo immaginare perché riempiono il mondo intero con la loro cara e provvidenziale presenza.

Annina

Il suo vero nome era Anna Maria ma a lei faceva piacere che la gente la chiamasse Annina, un vezzeggiativo che le risultava particolarmente gradito. Vent’anni fa, quando la incontrai per la prima volta, aveva già visto passare parecchie primavere e forse Annina, quel vezzeggiativo con cui amava essere chiamata, le faceva sentire meno il peso degli anni. La conobbi in cimitero, luogo in cui la grave ferita che faceva sanguinare il suo cuore di mamma per la perdita prematura della sua unica figlia, la conduceva ogni giorno, in maniera irresistibile, a visitarne la tomba. Dalla tomba passare alla chiesa del camposanto, ove trovava parole di rassegnazione e di conforto, il passo è stato assai breve. In poco tempo divenne una fedele assidua tanto da cominciare a far parte di quel piccolo gruppo di “vecchine”, come le chiamava Piero Bargellini, che un tempo erano parte integrante delle nostre chiese come i confessionali, i candelabri o le pile dell’acqua santa.

Ora le diocesi fanno corsi di preparazione per i cosiddetti “ministranti”, cioè chierichetti e assimilati ai sagrestani, da me però il gregge era così ridotto che l’Annina ed altre due colleghe facevano un po’ di tutto: pulire la chiesa, seguire le Messe, preparare l’altare per la liturgia e senza alcuna preparazione dispensare parole buone ai fedeli che il lutto accompagnava nella chiesa del cimitero.

Il mio pensionamento e il ricovero a Cavaso del Tomba di questa mia cara aiutante ci separarono e solamente questo pomeriggio, dopo quindici anni, Annina è ritornata nella chiesa del cimitero perché le dessi l’ultimo saluto e l’ultimo abbraccio caro e affettuoso. La predica è diventata un colloquio e il legno della bara non mi ha impedito di rivederla attenta e felice delle parole calde che mi sono sgorgate dal cuore. Mentre “colloquiavo” con lei mi è tornato alla mente un particolare della sua frequentazione della piccola chiesa del camposanto: era solita ogni giorno cogliere un fiore e porlo tra i chiodi dei piedi del crocifisso e colloquiare con Cristo in tono talora affettuoso e talora imbronciato ma prima di andarsene non mancava mai di salutarlo affettuosamente con un: “Ciao Gesù”. Ora spero che questa centenaria abbia la pazienza di aspettare almeno un po’ questo novantenne per ravvivare la nostra cara amicizia.