Le bellissime parole cristiane di Martin Luther King!

Quando penso all’educazione che ho ricevuto da bambino in rapporto ai protestanti, mi viene da rabbrividire. Per molti anni ho pensato a questi cristiani, che in maniera opportuna o meno hanno sognato e tentato di rinnovare la Chiesa riportandola alla freschezza e alla coerenza delle origini, come a dei ribelli, indegni e traditori, non solo arrossisco, ma rinnego quasi i miei educatori.

“Famiglia Cristiana” ha realizzato una splendida iniziativa editoriale e di grande valenza religiosa, allegando ogni settimana ad un costo veramente irrisorio, un volume di uno dei profeti del nostro tempo. Ha cominciato con Gandhi, ha continuato con Martin Luther King, per proseguire con le magnifiche figure di testimoni che incontrano e fanno fremere il cuore con i loro pensieri di calda e profonda umanità, che si coniuga in maniera perfetta con una spiritualità autentica e convincente. La bellezza particolare di questi volumi consiste nel fatto che non sono delle biografie, ma raccolte fedeli dei loro pensieri.

Sto leggendo Martin Luther King: “La forza di amare”. Il discorso di questo uomo di Dio è talmente lucido e convincente per cui, avendo cominciato a sottolineare qualche passaggio, mi verrebbe da segnare tutto il testo e quasi mi dispero perché la mia memoria mi tradisce e perciò non mi dà una mano per ricordarmi le splendide cose che questo uomo del Signore dona all’umanità. Mi trovo impotente, quasi vorrei abbracciare, per tenermi presso il cuore questo oceano di saggezza e di interpretazione in chiave di attualità, il messaggio di Gesù, che tradotto nei pensieri e nelle parole di questo pastore di anime, appare semplicemente meraviglioso ed affascinante. Altro che protestanti traditori e fedifraghi!

Sto veramente bevendo alla sorgente la limpidezza e la fragranza del messaggio cristiano che incanta pure gli uomini di oggi, seppur smaliziati ed increduli, come ha incontrato gli abitanti della Palestina 20 secoli fa.

Il volume riporta i sermoni e le lezioni più significative di questo apostolo della non violenza e del riscatto dei negri d’America. Capisco di non riuscire a riassumere testi pregnanti e convincenti, tanto che non mi resta che dire alle persone a cui voglio bene: «prendete il volume, che costa due euro, ma che vale un tesoro!».

Ricordo di un cristiano coraggioso

Ho parlato ieri della visita all’anziana mamma di uno dei miei “ragazzi” di un tempo.

Anche se ormai il mio ministero di sacerdote si svolge quasi esclusivamente al “don Vecchi” ed in cimitero, ben volentieri ho aderito ad accettare questo “lavoro straordinario”. E’ stato bello conversare con questa cara signora, da sempre riservata e di poche parole, ma ora ancor più, a causa dell’età avanzata e a qualche difficoltà a livello fisico.

Mentre conversavo amabilmente con questa creatura, vedova ormai da molti anni, mi tornò alla memoria un altro incontro ben più drammatico con un membro di questa cara famiglia. Il marito di questa signora occupò per anni un posto di primo piano nel sindacato – credo fosse segretario regionale della CISL. Quelli erano anni caldi per il sindacato e più ancora per quel sindacato, che s’era smarcato con coraggio dall’egemonia della CGL, cinghia di trasmissione diretta con Botteghe oscure.

Militare nella CISL, professare la propria fede, avere una posizione equilibrata da cristiani adulti nella Chiesa, non abbracciare una posizione costante da barricate, non era una cosa facile. Eppure quest’uomo, ancor giovane, fu un cristiano militante, libero e adulto nella fede. Un tumore lo aveva aggredito alla gola. Mi mandò a chiamare, mentre era ricoverato nel reparto di otorinolaringoiatria di Villa Tevere. Chiese lucidamente i sacramenti e li ricevette con fede e poi mi chiese di occuparmi dei suoi figli: «Il più grande, mi disse, mi pare che ormai cammini con le sue gambe, ma il più piccolo ha ancora bisogno di una guida quando non ci sarò più». Morì poco dopo.

I suoi figli crebbero in parrocchia come il padre desiderava ed ora sono due professionisti affermati e due cristiani seri. D’altronde, con un padre di quella levatura morale ed una madre parca di parole ma forte nella testimonianza, non avrebbe potuto essere altrimenti.

Oggi pare che la società e la Chiesa siano preoccupate dei giovani, mentre dovremmo essere più preoccupati che “le radici” familiari siano più ancorate sui valori più sacri e più basilari.

Giorgio Mar

E’ morto un altro mio amico. Giorgio Mar aveva soltanto un paio di anni meno di me. Sto osservando che chi parte in questo tempo è quasi sempre nato fra il 1925 e il ’35; sono queste le classi dei “richiamati”. Io sto dentro a questa fascia e perciò prima o poi mi arriverà la cartolina di precetto.

Con Giorgio ci conoscevamo da più di quarant’anni e da una vita ci scambiavamo i nostri pareri sul governo, sulla Chiesa e sulla parrocchia. Quasi sempre ci trovavamo d’accordo, il nostro denominatore comune era il non schierarsi mai per una parte, il mantenere sempre il diritto di critica e il puntare sul positivo, non lasciandoci condizionare dalla “moda” del momento a tutti i livelli, sia politico che religioso e civile.

Di Giorgio mi piacevano molte cose: la fedeltà alla Chiesa, ma non ad una certa Chiesa, la fedeltà all’educazione e alla cultura ricevute da giovani, l’amore per la sua famiglia numerosa, la grande disponibilità, il suo brontolare su tutto, ma mai in maniera cattiva.

La sua carriera lavorativa iniziò col dazio, per finire nell’economato in Comune. Lavorò sempre con serenità, ma rimase libero nel giudicare i suoi datori di lavoro, non prendendoli mai troppo seriamente e criticandoli di frequente, ma sempre in maniera bonaria.

Lo scorso anno ebbe il primo scappellotto a livello della salute; pensavo che fosse causato dalla sigaretta che aveva sempre in bocca. Un mese fa però arrivò il secondo avviso, quello definitivo. Credo sia morto rimanendo convinto di farcela, ma non fu così.

Rimpiango di Giorgio le sue visite puntuali alla domenica mattina, mentre io facevo lumini nella sagrestia della mia vecchia chiesa in cimitero. Commentavamo bonariamente i fatti della settimana che riguardavano, come sempre la parrocchia, la politica e la Chiesa. Ci trovavamo sempre d’accordo sul non essere degli allineati, né dei condizionati dalle “mode” politiche o ecclesiali. Da sempre ci sentivamo dei liberi battitori, per nulla preoccupati d’essere un po’ sempre fuori coro.

Per questo motivo, durante la mia vita, mi sono sentito sempre un po’ solo. Ora, con la partenza di Giorgio, lo sento ancora di più. Mi consolo sapendo che non ne avrò per molto, appunto perché appartengo ad una delle classi che in questo tempo sono “richiamate”.

Un incontro quotidiano che mi aiuta a sentire l’umanità ancora cara ed accettabile

Io sono tanto riconoscente al Signore che spesso mi fa incontrare delle persone che mi riconciliano con l’umanità e m’aiutano a credere ancora nell’uomo nonostante tutto.

Per me, credere nel buon Dio non è un problema, perché lo vedo da mane a sera in ogni angolo del mondo in cui vivo e il suo volto m’appare splendido, il suo cuore caldo ed amorevole. Per me credere è un dono meraviglioso, che mi dà speranza, coraggio, fiducia nel domani e volontà di camminare ogni giorno verso l’incontro che sarà certamente un fatto meraviglioso.

Quanto condivido la testimonianza della monaca di clausura di un convento di Bologna che, intervistata dal nostro famoso reporter, Sergio Zavoli, che le domandava se lei e le sue monache avessero paura della morte, rispose: «Anche noi siamo povere creature e temiamo la morte, essa però ci permetterà di incontrarci con quel Signore che abbiamo amato e che abbiamo messo sopra ogni interesse; sarà veramente meraviglioso poterlo incontrare, vedere la bellezza del suo volto, abitare nella sua casa!»

Io però faccio un’enorme fatica a credere nell’uomo. Ogni mattina i quotidiani impiegano il novantanove virgola nove del suo spazio e delle sue parole per descrivermi dettagliatamente le miserie, la cattiveria, i soprusi, l’egoismo, la volontà di dissacrazione, la profanazione del corpo e del creato. Forse per questo il Signore tanto di frequente mi fa incontrare delle belle figure di uomo che mi riconciliano con l’umanità.

Don Mazzolari, nel magnifico prologo al suo volume “Impegno con Cristo” afferma che bisogna impegnarci comunque, anche se gli altri non s’impegnano, perfino se il nostro impegno non risolve nulla. Io però, che sono un povero diavolo e non ho l’animo nobile ed alto di don Mazzolari, ho bisogno di incontrare sulla mia strada testimoni di umanità per trovare il coraggio di credere nell’uomo.

Ogni giorno incontro verso mezzogiorno un mio coinquilino dal volto aperto e sorridente che parte di buon mattino dal “don Vecchi” e rimane al capezzale della figlia, che vive in uno stadio pressoché vegetativo, non comunica ed è nutrita con una sonda. Da due anni e più ogni giorno sta accanto a questa figlia per tutta la lunga mattinata, eppure mai una sola parola di rammarico, mai il volto buio, mai perfino una preghiera perché il buon Dio sollevi la figlia da questa condizione disperata. Il suo volto sereno e il dono di sé senza recriminazioni, si sovrappongono a tutti i titoli e la cronaca buia della nostra società e, grazie a Dio, mi rendono l’umanità ancora cara ed accettabile.

L’esempio di un’Italia migliore

Ricordo che quando da bambino andavo a catechismo, c’erano sulla parete dell’aula dei cartelloni molto elementari che illustravano la dottrina cristiana. Ce n’era uno che raffigurava una bilancia: su un piatto c’era una grossa pietra, quasi un macigno, su cui c’era scritto “vizio”, mentre sull’altra c’era scritto “virtù”. C’era invece un sassolino quando chiesi all’insegnante come mai i due pesi si bilanciavano, mentre uno era tanto pesante e l’altro tanto leggero, essa mi rispose che agli occhi di Dio il bene vale molto di più che il male. Imparai in seguito il discorso sul peso specifico, per cui non è l’ingombro che determina il peso, ma il contenuto.

Quella lezione mi ha aiutato per tutta la vita a non lasciarmi disperare per tutta la cattiveria che i giornali mi mettono ogni giorno sott’occhio, perché sono certo che in qualche angolo del nostro Paese ci sono persone che in umiltà e silenzio producono virtù dal peso specifico enormemente maggiore agli occhi di Dio del male, per cui si mantiene l’equilibrio, pur precario, tra vizio e virtù.

L’altro ieri ho fatto una riflessione amara sulle quaranta o trenta auto blu al servizio del Quirinale, nonostante il nostro presidente da una vita si proclami difensore dei lavoratori e dei poveri. Oggi una signora che vive “in esilio” al quinto piano, perché non ce la fa a scendere le scale, avendo ricevuto dai suoi parenti, in occasione dei suoi 87 anni, una somma per lei quanto mai consistente – 250 euro – ha incaricato una signora della sua parrocchia di portarmeli tutti per Campalto perché, a suo dire, lei con la pensione sociale può vivere anche senza quei soldi.

Io conosco la sua storia: vedova giovanissima con due bambine, allora senza pensione, perché i soldati americani che avevano messo sotto con la loro auto suo marito, non erano in servizio! Fu costretta a mettere le sue bambine in collegio a Mantova, ove le andava a trovare una volta al mese e, “per fortuna” riuscì a trovare un posto come lavandaia in un albergo a Venezia (a quel tempo si lavava tutto a mano e perciò da mattina a sera era al mastello, estate e inverno) e dormiva nella soffitta dell’albergo perché non aveva casa. Una storia di sacrifici, lacrime, solitudine, mentre dove lavorava, vedeva il lusso, lo sperpero e il disordine morale dei clienti dell’hotel.

Questa donna che vive sola, quando racimola qualche soldo, pare che non possa resistere senza darmelo per i vecchi poveri. M’ha telefonato dieci volte perché desiderava che i suoi 250 euro – una ricchezza per lei – mi giungessero il più presto possibile.

Questo cuore di donna, le sue parole disadorne ma calde e generose, mi ricordano la pietruzza che faceva da contrappeso al masso nel cartellone dell’aula di catechismo. Dopo l’ultima telefonata ho concluso che nonostante Napolitano, la casta, i faccendieri e gli uomini di partito corrotti e corruttori, posso ancora sperare in un’Italia migliore.

Don Bruno Bertoli, un prete libero

Il Gazzettino di un paio di mesi fa ha dedicato un piccolo riquadro, nella parte alta della pagina della cronaca di Venezia, alla morte di Bruno Bertoli. Una notizia scarna e sbrigativa sulla vita e sulla fine di questo sacerdote veneziano.

Don Bruno meritava certamente molto di più perché è stato un protagonista nella nostra Chiesa, soprattutto nell’epoca immediatamente successiva al Concilio Vaticano Secondo, quando la Chiesa sembrava un prato tutto pieno di germogli.

Don Bruno s’era schierato dalla parte di chi ha sognato un rinnovamento radicale e che fu soccombente, non per questo non rimase fedele al suo servizio pastorale e non per questo cessò di dare il meglio di sé, anche se la Chiesa veneziana prese un indirizzo diverso da quanto questo sacerdote serio ed intelligente sognava.

A quel tempo don Bruno seguiva la gioventù studentesca e in particolare la Fuci, movimenti che in quella stagione della Chiesa volevano una svolta estrema, significativa e la volevano subito e decisa.

Il Patriarca di allora, che era il cardinale Luciani, credo con vera sofferenza, non poteva recepire completamente le attese di questo gruppo di avanguardia, perché non poteva rompere col gruppo più numeroso della tradizione. Lo scontro fu aspro e l’incomprensione forte, tanto che il Patriarca Luciani si vide costretto a chiudere quel movimento e quella associazione giovanile.

Don Bruno chinò il capo e, pur con infinita difficoltà a comprendere e condividere, tenne per sé le sue convinzioni e continuò a servire con umiltà e fedeltà la Chiesa veneziana.

Il dramma di questo sacerdote colto, intelligente, esperto della storia e della Chiesa, fine biblista e capace di dialogo con i giovani, si sviluppò anche a livello famigliare, in quanto il fratello don Giuliano, rettore del seminario, si schierò su posizioni opposte, seppure moderate, per non mettere a repentaglio la sopravvivenza del seminario.

La Chiesa veneziana perde con don Bruno Bertoli un sacerdote di vero spessore spirituale e culturale, un prete libero, profondamente partecipe della vita della Chiesa, certamente non allineato, per motivi di convenienza e, meno ancora, di carriera.

Ho la sensazione che con la morte di questo prete la Chiesa di Venezia sia più povera. Non mi resta che sperare che la sua splendida testimonianza sia d’esempio e di stimolo per chi rimane.

Renato

Di primo mattino la voce dolce e pacata della signora Luigina mi ha raggiunto attraverso il telefono per dirmi che Renato non c’era più. Erano ormai molti mesi che questo vecchio parrocchiano, già duramente provato dalla sorte, non stava bene. Più di una volta comuni amici mi avevano fatto capire che lui era in grosse difficoltà.

Ultimamente andava su e giù dall’ospedale, ma la sua grinta e la sua voglia di vivere, nonostante tutto, finiva sempre per avere la meglio. Renato, quando lo incontravo, mi metteva paura perché mi costringeva a domandarmi se io avrei avuto la forza di vivere nelle sue condizioni.

L’avevo conosciuto decine di anni fa: brillante ufficiale d’artiglieria, sportivo, amante della bicicletta, del pianoforte e della fisarmonica, cantava, sorrideva, mangiava e chiacchierava sempre, con una passione intensa. Nel mio animo lo vedevo più come un bersagliere di corsa, con la tromba e le piume al vento, che non come ufficiale dentro, o fuori dalla caserma ad ordinare: “fuoco!”.

Viveva sempre con entusiasmo, con ebbrezza, in maniera così giovanile che pareva che il tempo non lasciasse segno sulla sua indole e sulla sua volontà.

Lo ricordo ai tempi della polisportiva, quando galvanizzava la sua squadra di pallacanestro. Con lui non si discuteva: dovevano giocare come stessero compiendo la più sublime delle attività umane. Lo ricordo spassoso e gioviale, scanzonato e brioso, suonare al pianoforte pezzi che sembravano sempre un invito alla carica, e il suo cantare con la fisarmonica tra le braccia come fosse su una tradotta di giovani coscritti.

Poi quella terribile e assurda caduta nel rifugio di montagna dove aveva portato i suoi nipoti. L’ho visto tra la vita e la morte. Vinse anche quella terribile battaglia e la vita riprese, tanto che in ospedale infilava i corridoi con la carrozzella facendo finta di investire infermiere e poveri grami come lui.

Nonostante mille difficoltà non smise mai di combattere, di vincere sempre, anche immobile in carrozzella era un vittorioso, gli occhi vivi e sorridenti, la voce roca ma la battuta sorniona.

Il Signore ebbe pietà di lui e gli volle bene forse perché superò perfino Giobbe nel credere, pur nelle più grandi avversità fisiche e morali, e per tutto questo gli mise accanto angeli supplementari che rasserenarono il suo cuore fino all’ultimo respiro.

Renato, pur essendo in artiglieria, “è andato avanti” come gli alpini. Gli ho chiesto di aspettarmi, non lo farò certo attendere molto, vecchio ed accidentato come sono. Sento però il bisogno di ringraziarlo per la sua testimonianza di coraggio e di volontà di vivere nonostante tutto. So di aver bisogno di questo esempio perché il tempo del passaggio è difficile per tutti.

Don Gianni a Carpenedo

Mentre ero a tavola mi ha raggiunto la telefonata di un mio caro amico, giornalista al “Gazzettino”: «Don Armando, questa sera sarà formalizzata la nomina di don Gianni a parroco di Carpenedo!»

Per me è stata veramente una bella notizia! Mi spiace per don Gianni, il parroco – diciamo pure – “vulcanico” di San Lorenzo Giustiniani, che in pochi anni ha galvanizzato quella parrocchia quieta e sonnacchiosa, facendone una comunità nuova, rigogliosa e promettente, e che ora dovrà bruscamente abbandonare.

Più volte mi ero recato a vedere come don Gianni aveva trasformato ed abbellito la chiesa e trasformato quel fazzoletto di scoperto adiacente alla canonica in una specie di arca di Noè per i suoi ragazzi. A molti sembrava che quella parrocchia, nata da un dono di Papa Roncalli e dalla furbizia di un proprietario di terra, il quale valorizzò il suo terreno donandone un pezzettino per la chiesa, fosse destinata ad una vita striminzita e senza domani.

A tutti, per molto tempo, parve una parrocchia decentrata e destinata alla solitudine, ma l’arrivo di questo giovane prete, che aveva fatto una splendida esperienza nella comunità di Chirignago, fece il miracolo di “far fiorire il deserto”.

Mi è capitato di vedere il grest, il patronato, le prime comunioni, la canonica sventrata per far sedi per i ragazzi e m’è parso di vedere vita, innovazione, fiducia nel domani ed ho capito che quel giovane prete spilungone e dagli occhi un po’ spiritati, che spesso porta la tonaca e d’inverno il tabarro, aveva anima e coraggio, determinazione e volontà di spendersi. Più di una volta ho avvertito che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Venendo egli a Carpenedo, mi sembrerà che il vecchio cuore della parrocchia che fu mia per tanti anni ricominci a battere a ritmo intenso, quel ritmo che ho avvertito per quasi mezzo secolo. La notizia mi ha rallegrato, ho avuto la sensazione di aver ritrovato la famiglia di un tempo, di cui potrò essere anche un trisavolo che guarda, seduto nella seggiola accanto al fuoco, però compiaciuto e felice di respirare aria di casa.

La notizia poi mi ha fatto riaffiorare il vecchio sogno e il progetto, non totalmente abbandonato, che finalmente Dio e il prossimo possano tenersi per mano e che la comunità parrocchiale possa camminare finalmente in maniera armoniosa in modo che il passo della fede e quello della solidarietà si alternino e procedano in perfetta armonia sorreggendo il corpo di Cristo che finalmente s’offre agli uomini di oggi nel suo vero splendore di figlio di Dio e di figlio dell’uomo.

L’esempio di coerenza di Marco Pannella

Credo che le persone che mi frequentano o che mi leggono sappiano fin troppo bene la mia assoluta allergia per i radicali. Sono convinto che essi abbiano determinato il fenomeno della secolarizzazione e dell’anticlericalismo più di tutti i partiti messi assieme e i movimenti dell’intero arco costituzionale.

Però devo confessare che la loro critica preconcetta e spesso esasperata, almeno per me, ha fatto del bene e vorrei sperare che così sia anche per i cattolici del nostro Paese.

I radicali mi hanno aiutato ad impegnarmi perché lo Stato garantisca a tutti la libertà di muoversi, di pensare e di agire come detta la loro coscienza; mi hanno aiutato a rifiutare uno Stato confessionale ed una Chiesa intrigante che si interessi non dei grandi valori, ma si immischi in tresche per ottenere privilegi e vantaggi – e questo non è poco!

Inoltre certe campagne di grande respiro dei radicali, le ho condivise e m’hanno quanto mai entusiasmato. Per esempio: un maggior impegno per i poveri del mondo, per l’abolizione della pena di morte, per la difesa dei diritti civili, in certe nazioni con regimi illiberali, la campagna per il rispetto della costituzione e delle leggi ed infine quella per l’umanizzazione delle carceri.

Al momento in cui scrivo, mi pare d’aver sentito che Pannella è al sessantesimo giorno di digiuno perché i carcerati non siano trattati come bestie in carceri sovraffollate, ma abbiano diritto alle cure mediche, all’assistenza di psicologi e soprattutto perché non siano detenuti per tempi lunghissimi in attesa di processo e possano riscattarsi e vivere una vita più decente attraverso il lavoro.

Non credo che Pannella vada a messa alla domenica e dica le preghiere la sera, ma la sua testimonianza e il suo “digiuno ultraquaresimale” spero gli aprano le porte del Cielo, anzi ne sono certo. Spero ancora che il suo esempio di sacrificio civile ci sproni tutti ad una solidarietà non fatta di parole fatue, ma di impegno concreto pagato con la propria coerenza.

Che gioia sentire ancora parlare in TV di Giorgio La Pira!

La televisione è piena di banalità, di chiacchiere, quando non trasmette violenze e meschinità. D’altronde non può essere che così, dovendo ogni emittente trasmettere qualcosa ventiquattr’ore su ventiquattro del giorno. Ogni emittente non usa poi solamente un canale, perché anche l’ultima arrivata, qual’è “Rete veneta”, trasmette contemporaneamente su tre, quattro, cinque canali, programmi diversi.

Fortunatamente tra tanta spazzatura talvolta, per caso, mi capita di scoprire qualche “perla” (non è facile, ma talvolta avviene). Una settimana fa accesi per caso il televisore e mi capitò di vedere il volto serafico di Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze, il politico dalle parole pulite ed oneste, dai pensieri sublimi e dalle utopie più impossibili.

Un tempo ritenevo che La Pira, nel mondo della politica, fosse quasi un signore ingenuo e fuori tempo che cercava di accalappiare le farfalle multicolori col suo retino, un uomo con la testa sulle nuvole che rincorreva la Fata Morgana. Ora ho mutato radicalmente giudizio. Reputo La Pira uno dei politici più realisti che non solo il nostro Paese, ma pure il nostro mondo abbia avuto.

Qualche tempo fa è morta la fedele segretaria di La Pira e in quell’occasione un giornalista ha ripreso il discorso della “politica” di quest’uomo di Dio che viveva ospite in una celletta di un convento di Firenze, povero, mistico, sognatore, ma soprattutto uomo che credeva a Dio, si fidava di Lui ed impostava la sua azione di sindaco e di deputato sulla Parola saggia e sapiente del Signore.

Il reportage televisivo che mi capitò di vedere, riportava l’immagine di La Pira in occasione della sua visita in Vietnam da O ci min, in quel momento tragico in cui, prima la Francia e poi l’America, una volta ancora tentarono, fortunatamente invano, di schiacciare, con le bombe al napalm e con la potenza militare, l’anelito di un popolo ad essere artefice libero della propria storia.

La Francia e l’America ebbero la peggio, ma se queste potenze avessero ascoltato questo profeta disarmato che credeva che non solo ogni uomo ma ogni città ed ogni popolo avessero un proprio angelo custode a parlare alle loro coscienze ed indicare la strada dritta, quante atrocità e quante rovine avrebbero evitato.

Ogni giorno di più mi pare di capire che gli uomini apparentemente più ingenui e più sognatori, quali sono i santi, gli innamorati e i poeti, sono quelli che hanno ragione, che comprendono il senso del vivere, mentre i furbi, i realisti e i forti sono quelli che provocano le più grandi rovine.

Sono stato contento di aver reincontrato alla televisione questo profeta disarmato del nostro tempo.

Bepi Pistolato

Io, per il “mestiere” che faccio e soprattutto per la “specializzazione” che ne faccio nella mia chiesa al camposanto, ho purtroppo ormai dimestichezza con la morte e con il dolore. Non passa settimana che non mi sia richiesto di salutare a nome dei congiunti, gli uomini che partono da questo mondo. Tanto che spesso mi sembra di essere quasi un funzionario della “stazione di partenza per il cielo”.

Confesso che, fortunatamente, non ho fatto e non voglio fare l’abitudine a queste partenze; sempre vi partecipo infatti con tutta la mia umanità e con tutta la mia fede.

Eppure debbo dire onestamente che certe “partenze” mi coinvolgono più profondamente, mi scuotono e mi lasciano sgomento, quasi che da un punto di vista razionale ed esistenziale non riesca a recepire ed accettare la scomparsa di creature che m’accorgo che erano diventate parte integrante, quasi un tutt’uno con la mia vita.

Ricordo quando, tanti anni fa, l’aereo che trasportava l’intera squadra di calcio del Torino, andò a sfracellarsi contro il colle di Superga. Un appassionato di calcio intervistato dal solito giornalista su come vivesse quel dramma, affermò: «Quando succede un dramma del genere ti vien da dire “è una tragedia”, ma se in quel dramma sono coinvolte persone a cui vuoi bene è tutt’altra cosa».

A me è successo tutto questo quando il dottor Mario Carraro, maestro del coro nato con me a Carpenedo da più di trentacinque anni, mi annunciò con estrema amarezza: «E’ morto Bepi». Non servì che aggiungesse altro perché, pur se nella mia vecchia parrocchia i “Bepi” si contano a decine e decine, per tutti “Bepi” era l’organista, il mitico organista che per più di quarant’anni arrivava silenzioso e puntuale, saliva la stretta scaletta a bovolo per sedersi alla consolle e accompagnare tutti, assolutamente tutti gli eventi gioiosi o tristi che coinvolgevano la vita della parrocchia.

Bepi c’era quando ad ottobre del 1971 arrivai in parrocchia, Bepi c’era ancora quando il 2 ottobre del 2005 me ne andai. Bepi suonava tranquillo le canzoni gioiose e ritmate delle affollate messe del fanciullo, quando i nostri piccoli, guidati da don Adriano o don Gino facevano tremare il soffitto della chiesa battendo le mani e tirando fuori quanta voce avevano in corpo sotto la spinta dei ritmi veloci che Bepi pigiava sui tasti.

Bepi c’era alle prove e alle messe delle 12 quando, con Stefano o Fabio, sperimentavano i canti di una numerosa gioventù in ricerca. Bepi c’era due volte la settimana quando la corale faceva le prove e quando alla domenica cantava sull’altare e quei canti, mediante Radiocarpini, planavano su quasi tutto il Triveneto fino a Ravenna.

Bepi c’era sempre, con i suoi spartiti sotto il braccio, silenzioso, modesto, fedele. L’umile operaio della Montedison diventava il cuore pulsante della preghiera dell’intera comunità ogni volta ch’essa si riuniva per la lode a Dio.

Con la tragica morte di Bepi un altro pezzo di quella parrocchia che ho lasciato, scompare. Tra poco, di quella meravigliosa realtà non mi resterà che un nostalgico ricordo, ma forse la ritroverò presto tutta intera tra bianche nuvole del Cielo.

Addio a Fra’ Alfonso, il frate questuante, esempio di una Chiesa che rimpiango

Quando sono arrivato, giovane prete, nel 1956, a Mestre, le suore di San Paolo organizzavano banchetti davanti alla chiesa per promuovere la buona stampa e andavano pure, casa per casa, per proporre le loro edizioni e quelle di ispirazione religiosa. Altrettanto, e forse con più determinazione, facevano le Figlie della Chiesa.

A quel tempo la pastorale, ossia l’accostarsi alle anime, non era in posizione di conservazione e difesa com’è spesso oggi, ma gli operatori pastorali, preti, frati o suore che fossero, si impegnavano con iniziative e proposte magari umili ma costanti, mirate a “conquistare le anime”. Poi, pian piano, le suore di San Paolo si ridussero a far da commesse, non sempre “zelanti e brillanti”, nel loro negozio, prima in via Verdi, poi in via Poerio, infine chiesero completamente di andarsene via da Mestre. Le Figlie della Chiesa si ritirarono nel loro guscio di San Gerolamo accudendo a quella chiesa ridotta ormai a mezzo servizio.

Questi ripiegamenti su posizioni più arretrate sono ormai un fatto generalizzato, infatti sono scomparse le associazioni professionali dei maestri cattolici, dei laureati, della Fuci, degli imprenditori, dei preti di fabbrica, dell’associazione cattolica adulti, dei preti che visitano annualmente le famiglie…

Le azioni umili, concrete degli operatori pastorali sono state sostituite da discorsi complicati e da parole roboanti che, a mio modesto parere, macinano aria fritta.

Ho pensato a questo andamento qualche tempo fa, leggendo sul Gazzettino questo trafiletto.

Morto Fra’ Alfonso
Il frate questuante che aiutava i poveri.
Non vedremo più camminare per le calli veneziane, con l’immancabile sacco azzurro sulle spalle, fra’ Alfonso (al secolo Aldo Manfren), dell’ordine dei frati minori. Il frate questuante, per quarant’anni nel convento di San Francesco della Vigna, si è spento sabato nel convento-infermeria di Saccolongo, dove si trovava per le cure della malattia che l’aveva colpito quattro anni fa. Fra’ Alfonso, 74 anni, era nato a Treviso il 9 febbraio 1937. A Venezia era giunto nel 1967 e all’opera di questuante, ha affiancato le attività del patronato parrocchiale, degli Scout e dei chierichetti. Era molto amato dai ragazzi, dai quali si faceva però rispettare con regole rigorose, arrivando, per esempio, a sequestrare il pallone ai giocatori indisciplinati. Ma soprattutto girava per le case e le calli, per ognuno aveva una parola buona, un sorriso, una stretta fraterna di mano: la sua semplicità, la sua umiltà, la sua disponibilità l’hanno fatto un riferimento per tutti i veneziani. Una grandissima amicizia lo ha sempre unito ai Patriarchi.

Certamente il frate da cerca non salvava il mondo ma, a mio parere, era ancora segno di una Chiesa presente, dal respiro popolare, che si mescolava con la vita quotidiana degli uomini comuni. So che certuni giudicheranno questi miei pensieri un po’ romantici e nostalgici di un passato che ormai non c’è più. Forse questo è vero, però mi preoccupo perché il poco pare sia sostituito dal nulla, e questo non è esaltante.

Adriana Zarri

Qualche mese fa è morta Adriana Zarri. Non credo che il gran mondo la conosca, un po’ di più è conosciuta dai cattolici del dissenso, perché questa studiosa della Sacra Scrittura e questa cristiana militante scriveva su “Il manifesto” e condivideva molte delle tesi culturali della sinistra ed era molto critica nei riguardi delle prese di posizione delle gerarchie della Chiesa.

In occasione della morte, anche i periodici di ispirazione cristiana hanno liquidato velocemente la notizia con titoli un po’ guardinghi e con la preoccupazione della riserva: “Adriana Zarri, credente fuori delle righe”.

Io ho letto la notizia con qualche interesse perché più di mezzo secolo fa avevo letto un suo libro sui sacerdoti dal titolo “Servi inutili”, un titolo che si rifaceva ad una affermazione di Gesù, la quale sottolineava la grande verità che solo Iddio è il protagonista della storia, l’uomo semmai ne è un povero strumento. Il volume viaggiava su questa tesi, ribadendo il concetto che il prete è una creatura preziosa e sublime nella misura in cui si fa strumento docile e maneggevole nelle mani di Dio.

Dalla lettura mi è rimasto il ricordo di un testo edificante ed utile, a livello ascetico, per i sacerdoti. Ma dalla posizione ideale di Adriana Zarri a quella con cui ha chiuso la sua giornata umana pochi mesi fa “ne è passata di acqua sotto i ponti”. La Zarri fu una militante cristiana atipica, dura come l’acciaio. Sostenne tesi anche in aperto contrasto con le posizioni della Chiesa cattolica, pur rimanendo integerrima nella sua fede. Scrittrice brillante, ricca di logica, di cultura, ma insieme di poesia e di sentimento, cercò il difficile dialogo con la cultura laica del nostro tempo e, assecondando tesi che il cattolicesimo ufficiale non condivide, riuscì a parlare del suo Dio, tanto amato e ricercato, anche in ambienti assolutamente impermeabili a questo discorso, eppure capaci di donare al mondo attuale, magari incoscientemente, aspetti autentici del volto di Dio.

Una carissima alunna delle magistrali di circa quarant’anni fa ha regalato al suo vecchio ma non dimenticato insegnante, l’ultimo libro della Zarri “Un eremo non è un guscio di lumaca”, in cui essa racconta la sua esperienza di eremita “sui generis”. Sono all’inizio del volume, ma già mi rendo conto che anche “l’altra sponda” possiede raggi di quell’unico sole che illumina un po’ tutti.