La Fede di Roberto Vecchioni

I miei motivi di contesa con la RAI sono assai numerosi e consistenti. Non è che le altre televisioni siano migliori, ma dalla televisione di Stato, pagata con il canone dei cittadini, penso che dovrei aspettarmi di più e di meglio.

Non sto ad elencare nei particolari le cose che mi deludono e mi indignano, sarebbero troppe: programmi banali, scuola di violenza, giochi in cui si sperperano decine e centinaia di migliaia di euro, la figura della donna adoperata sempre come esca, anche se poi nei giornali radio si fa del moralismo farisaico a questo riguardo, pubblicità che incita al consumismo in tempi di vacche magre, ecc. Non ultimo: i programmi più interessanti, almeno per me, sono collocati in ore impossibili o difficili. A me piacerebbe vedere il “Porta a porta” di Vespa, ma lo fanno tanto tardi. Mi interesserebbe anche “Ballarò”, ma ha un conduttore esageratamente schierato e fazioso.

Mentre vi sono due programmi che vedrei molto volentieri e che avrei il tempo di vedere, perché collocati nel primo pomeriggio della domenica, ma purtroppo si sovrappongono.

Più volte ho confessato che verso la Annunziata nutro un sentimento di amore ed odio, comunque è una donna preparata ed intelligente ed intervista personaggi importanti della vita politica e sociale del nostro Paese. Alla domenica la rubrica “Mezz’ora” di Rai tre, che è condotta appunto dalla Annunziata, è trasmessa contemporaneamente a “L’arena”, condotta invece brillantemente da Giletti, che tratta gli argomenti più disparati e poi si avvale di una numerosa staff di giornalisti ed ospiti che vivacizzano quanto mai la trasmissione.

L’Annunziata viene da Botteghe Oscure, ma stuzzica, stana l’intervistato, costringendolo a metter a nudo il suo pensiero, con colpi di fioretto che vanno sempre a segno. Giletti invece, un giornalista che proviene dal mondo cattolico, e che è altrettanto intelligente, versatile e un po’ sornione, tiene banco con estrema disinvoltura, mettendo a fuoco brillantemente l’argomento di attualità che tratta e conducendo la sua squadra rumorosa che pare sempre propensa alla bagarre.

Qualche settimana fa Giletti ha intervistato il cantautore Roberto Vecchioni, il cantante intellettuale, colto e profondamente umano. L’intervista è stata veramente deliziosa e ha fatto emergere valori autentici anche da quel mondo che molti di noi ritengono fatuo ed effimero. Con estrema delicatezza Giletti, quasi di sfuggita ha chiesto a Vecchioni della sua fede. “Dio si squaderna in ogni creatura”. Ho avvertito in quel momento quasi il brivido che ha provato quella grande assemblea irrequieta ed apparentemente lontana dalle problematiche religiose.

L’atto di fede, candido, delicato, ma nello stesso tempo convinto, di Vecchioni, credo abbia toccato il cuore e la coscienza di tutti.

Don Gianni e le campane

Ho sempre detto che la mia stima non va ai diplomatici e ai mediatori di professione, ma alle persone che escono allo scoperto, che dicono con franchezza il loro parere apertamente o che sottoscrivono le loro critiche non nascondendosi dietro la lettera anonima o manifestando quanto pensano con il pettegolezzo o il mugugno occulto.

Io credo di essermi comportato sempre così, ho anche pagato il conto della mia franchezza, ma non me ne sono mai pentito. Come entrando in parrocchia a Carpenedo, in piena contestazione, sapendo che più di uno mi reputava un conservatore e che un gruppo di giovani mi aspettava al varco, nel discorso di ingresso dissi senza mezzi termini: «Io sono della Chiesa di Paolo Sesto» (nel ’71 era papa Paolo Sesto). Come quando appresi dal Gazzettino che le vacanze del Papa costavano due miliardi, scrissi altrettanto francamente: “Non è lecito questo sperpero di denaro quando un mondo di cristiani patisce la fame”.

In ambedue i casi pagai un conto salato, ma ogni mattina almeno posso guardarmi allo specchio senza arrossire. Così è capitato tante altre volte.

Qualche settimana fa fui attratto da un anticipo di notizia del Gazzettino, che trovava poi sviluppo nelle pagine del giornale: “Don Gianni Antoniazzi, parroco di Carpenedo, a proposito della richiesta da parte di certi cittadini di far zittire le campane, ha affermato pressappoco: «Facciamo invece zittire quei 20-30 atei militanti che hanno la pretesa di pontificare su tutto e di imporre il loro pensiero fuorviante». “Bravo don Gianni! ho pensato subito, sei sulla buona strada”.

Io che sono timorato di Dio e sono stato educato ad una morigeratezza verbale e non mi permetto certi termini, penso che però la gente del nostro tempo, molto più disinvoltamente e molto disinibita, userebbe in proposito un’altra espressione più colorita.

E’ vero che il suono delle campane non risolve il problema del Regno di Dio, ne salva le anime, ma non è giusto ed opportuno che la stragrande maggioranza delle persone debbano essere condizionate da quattro gatti spelacchiati. Ai miei tempi in parrocchia avevo due cittadini “anticampane”, uno fortunatamente ha cambiato casa ed un’altra l’ho lasciata dire. Su duecentomila abitanti del Comune, anche se ve ne fossero due o trecento che protestano, non cadrà il mondo! Bravo don Gianni, mi piaci!

Un libro che mi ha fatto conoscere meglio don Milani

Un altro dei miei amici mi ha regalato ultimamente forse l’ultimo volume su don Milani. Il fatto che sia stato pubblicato dalla Feltrinelli, l’editrice che non amoreggia punto col mondo clericale, mi ha messo subito curiosità sul suo contenuto.

Il volume, sulla cui copertina c’è una foto assai sgranata di don Lorenzo Milani, porta il nome dell’autrice di un bianco sporco, impresso sul rosso della tonaca del prete fiorentino e, con lo stesso carattere, ma di un bianco latte, il titolo molto emblematico: “Non so se don Lorenzo”. Nell’ultima di copertina c’è la spiegazione, un poco ipocrita e falsa, del titolo misterioso: “Se mi domando cosa avrebbe detto don Lorenzo da vivo leggendo queste pagine, mi viene subito voglia di strapparle”.

Adele Corradi, l’autrice, non so per quale motivo ha incontrato don Milani. E’ rimasta soggiogata dalla sua personalità, gli volle profondamente bene e rimase con lui tutto il tempo che aveva libero dal suo insegnamento di professoressa nella scuola di Stato.

Questa insegnante ha uno strano modo di narrare i suoi rapporti col priore di Barbiana, nella sua quotidianità e a fronte degli eventi che contrassegnarono la sua breve esistenza. Questa donna racconta in brevi capitoletti, in maniera assai leggera, da creatura che amava e stimava in maniera assoluta questo prete “messo in esilio” dal suo vescovo perché scomodo ed originale.

Il modo di raccontare è tipicamente femminile, tutto preoccupato di annotare situazioni, reazioni, prese di posizione, tanto da sembrare minuzioso e quasi pettegolo. Il volume facile a leggersi, anche perché non affronta problematiche difficili inerenti alla personalità di don Milani, mi è tornato utile perché nel mio animo ha smitizzato questa persona che ormai nell’opinione pubblica è diventato tanto emblematica, poco umana e al di fuori dalla normalità.

Il don Milani domestico, quello di tutti i giorni, che deve affrontare beghe, piccole gelosie, momenti di sconforto o di rabbia, stanchezza e sconforto, è ben diverso dalla figura quasi epica in cui l’opinione pubblica l’ha collocato.

La lettura mi ha offerto un volto più umano e fuori dal mito che in pochi anni ne ha fatto un eroe ed una bandiera.

Confesso che questa lettura mi ha anche aiutato ad accettarmi, con tutte le mie debolezze e i miei limiti, le mie cadute di tono e a capire che vale la pena di perseguire un’utopia, degli ideali, senza diventare o pretendere di essere personaggi leggendari, invincibile e senza debolezze e miserie. Il dovere della coerenza e della testimonianza non esige eroismo e santità su tutti i versanti.

Spero che chi mi sta accanto riesca ad accettarmi come questa donna ha accettato, ammirato ed amato, il don Milani feriale.

Il pensiero di Teilhard de Chardin

A Natale e a Pasqua “don Loris”, il notissimo segretario di Papa Roncalli, ora arcivescovo pressoché centenario che vive a Sotto il Monte, mi manda gli auguri accompagnati da opuscoli nei quali egli pubblica memorie, scorci di scritti inediti di Papa Giovanni XXIII.

I legami tra me e “don Loris” non sono molto consistenti. Egli mi conobbe, appunto quando era segretario dell’allora cardinal Roncalli, che mi ha ordinato prete e che è stato il mio vescovo per i primissimi anni del mio sacerdozio; io invece perché egli era un brillante commentatore del Vangelo dai microfoni della RAI. Ambedue leggevamo l'”Adesso” di don Mazzolari.

In seguito lui fu alla ribalta della notorietà come collaboratore fidato del Papa e poi come colui che ne ha tenuta viva la memoria con validissime pubblicazioni, la principale delle quali “Il giornale dell’anima”.

Tutto questo non parrebbe giustificare queste attenzioni di un uomo di quella levatura verso un povero prete che di carriera “ecclesiastica” ne ha fatta veramente poca e che non è solito adulare qualsiasi tipo di autorità.

Ho l’impressione che qualcuno gli mandi “L’incontro” e questo incuriosisca il vecchio direttore del periodico “La settimana religiosa” della diocesi di Venezia.

Per Pasqua “don Loris” mi ha mandato un opuscolo che raccoglie alcune considerazioni del grandissimo “Teilhard de Chardin”, un pensatore contemporaneo che io reputo, a livello teologico, alla pari di San Tommaso d’Aquino, il padre della filosofia cristiana.

Di questo gesuita francese io avevo letto uno splendido volume che raccoglieva le sue lettere, spedite durante il tempo in cui faceva le sue ricerche da paleontologo nella steppa della Cina. In quelle lettere traspariva ricchezza di pensieri, capacità di sintesi, poesia e scienza, ma soprattutto capacità di una lettura profonda dell’orientamento della storia dell’umanità che si avvia verso il sublime e l’Assoluto. Erano, tutto sommato, lettere di abbastanza facile comprensione, piacevoli e veramente belle sotto ogni punto di vista. Invece l’opuscolo mandatomi da don Loris, in occasione della Pasqua, contiene il cuore del pensiero di questo intellettuale. La lettura mi è risultata veramente difficile. Non sono riuscito a capire questa sintesi ardita sul domani della Chiesa e del messaggio cristiano, non ho compreso come egli pensi che il cristiano di oggi possa contribuire a costruire il futuro dell’umanità.

Una cosa invece ho capito bene e ho condiviso: egli dice che la Chiesa e i cristiani sono ancora reticenti ad accettare l’evolversi dell’umanità: non basta la ricerca, il dialogo col mondo moderno, c’è invece bisogno di un’accettazione piena, ricca di fiducia verso una realtà tanto complessa, ma che comunque si muove verso questa “pienezza”, la partecipazione del mistero di Dio. Se la Chiesa non si apre a questo abbraccio totale arrischia di finire su un’ansa della storia, su un binario morto.

Questo pensiero mi è di molto aiuto nello spingermi ad amare di più il mondo attuale ed avere più fiducia nell’evolversi del pensiero umano che, nonostante tutto, è l’unico percorso che porta a partecipare alla vita di Dio.

Le persone umili sono quelle che sorreggono il nostro mondo!

So che tanti miei amici e tanti concittadini, che seguono le vicende dell’ultima stagione della mia vita, leggendo “L’incontro” non amano troppo che io parli del cimitero e della morte. Dovrebbero però pensare che essendo “questo mondo” la mia occupazione principale, non posso non esserne toccato e sollecitato. D’altronde dobbiamo pure convenire con il cardinale Roncalli che ripeteva di frequente: «Memento novissima tua et in aeternum non peribis» (ricordati delle ultime cose: morte, giudizio, inferno e paradiso e non perirai in eterno).

Allora, un po’ per il primo motivo ed un po’ per il secondo, spero che mi si conceda di ritornare su queste grandi verità. Comunque oggi vorrei trattare solamente marginalmente questo argomento.

Qualche giorno fa ho celebrato il commiato cristiano (traduco: il funerale) di una delle poche donne superstiti che non si sposano o per fare le perpetue – ma questa specie è ormai estinta – o perché sono state a servizio fin dall’infanzia da padroni ai quali si sono affezionate talmente da non riuscire a staccarsi, o perché hanno finito per accudire i nipoti o, infine, perché sono rimaste fedeli ad un amore che non ha avuto sbocchi.

Ricordo una di queste creature da un lato perché aveva un nome strano e raro, Zolema, e un po’ perché al funerale sono intervenuti una ventina di nipoti per i quali lei aveva speso la vita. Purtroppo, nonostante questa dedizione, finì i suoi giorni in una casa di riposo lontano dal luogo in cui visse!

La nipote mi tratteggiò la vita della vecchia zia, me ne parlò tanto bene e con tanta tenerezza che celebrai più volentieri il funerale e invitai con più convinzione del solito i congiunti a raccogliere “la ricca eredità” di valori e di esempi ch’ella lasciava loro.

Mentre, nella breve omelia, dicevo ai presenti di accogliere, custodire e arricchire la notevole eredità che questa creatura buona e generosa lasciava loro, mi sovvenne il pensiero di queste belle creature che, nel silenzio e in una vita modesta e di sacrifici, sono gli elementi più pregiati del nostro mondo. Diceva infatti mons. Vecchi che quando un visitatore entra in una chiesa, cerca con l’occhio i capitelli lavorati e non si accorge che quell’edificio rimane in piedi solamente perché ci sono umili pietre, coperte dall’intonaco, che lo sorreggono.

Mi è stato di grande consolazione e conforto il pensiero delle pietre sotto la malta a confronto di tanta gente vanesia ed effimera che troppo spesso tien banco sull’opinione pubblica offrendo solamente “aria fritta”!

Una “Messa” celebrata assieme a tutto il Creato!

Mi capita abbastanza di frequente di ritornare col pensiero alle riflessioni di Adriana Zarri, la teologa massimalista che per molti anni avevo rifiutato e dalla quale m’ero tenuto lontano perché la ritenevo esageratamente sinistrorsa e donna della fronda cattolica. Ora mi sono ravvicinato alquanto al suo pensiero, dopo la sua morte, attraverso la lettura dei suoi ultimi scritti. Sto recuperando tutto il positivo di questa donna che, se non altro, ha cercato appassionatamente in tutta la sua vita il volto bello di Dio nel Creato.

Laura Novello, la cara signora che si cura di riordinare grammatica e sintassi dei miei periodi infiniti, aggiungendo punti, virgole e quant’altro è necessario per rendere leggibile il diario, mi ha giustamente osservato che da qualche tempo ritorno con troppa frequenza su questa teologa eremita della diaspora spirituale.

La signora Laura ha sempre ragione ed io mi sforzo sinceramente di seguire i suoi saggi consigli di lettrice attenta e fedele. Però debbo confessare che spessissimo rimango influenzato dalle letture che vado facendo e che sento il desiderio di rendere partecipi i miei amici delle cose belle che scopro. Non tutti hanno il tempo e l’opportunità che io, vecchio prete in pensione, ho di spigolare il buono tra la produzione letteraria che oggi è pressoché infinita.

Ad esempio sento il desiderio di confidarvi il piacere e la delicatezza religiosa che ho scoperto leggendo l’ultimo volume “Tutto è grazia” della Zarri. Come scrissi “troppe” volte, questa teologa visse l’ultima parte della sua vita da eremita in un cascinale isolato delle colline piemontesi. Adriana non poteva partecipare all’Eucaristia quotidiana perché anziana e lontana dalla parrocchia, e perciò “celebrava” la messa nel suo eremo da sola, ossia si immergeva spiritualmente nella sublime liturgia, memoriale della Redenzione, creandosi perfino una “assemblea” di “fedeli”, coinvolgendo gli animali nella sua cascina: galline, conigli ecc., e piante in fiore. Ossia lodava il Signore assieme a tutto il Creato.

Ricordo che anche il famoso scienziato Talleirand de Chardin, mentre nelle steppe dell’Asia conduceva le sue ricerche di paleontologia, “celebrava” l’Eucaristia in totale sintonia con il Creato nella sua grandiosa complessità.

Ebbene, della “messa” di Adriana Zarri m’ha colpito un gesto quanto mai significativo, al momento del “datevi un segno di pace”: sporgeva la mano alla sua amatissima gatta, sempre partecipe al sacro rito, la quale porgeva a sua volta la sua zampetta. Infantilismo? No! La Zarri sentiva il Creato come segno dell’amore di Dio, vibrava cogliendo l’amore sconfinato del Creatore verso l’uomo.

Io non sono un “convertito” al “credo” della Zarri, però confesso ora che guardo con occhi diversi le piante, gli animali, come componenti della creazione e li sento più “amici” e molto più cari.

Sto scoprendo don Pierluigi Piazza

In occasione del mio recente compleanno gli amici, che sono fin troppo cari con me, che pur coltivo poco le amicizie e che spesso sono scorbutico, tra l’altro mi hanno regalato parecchi volumi che han pensato potessero interessarmi.

Io sono veramente grato perché ogni segno di attenzione mi fa bene e perché talvolta soffro di solitudine ideale. Sono più grato ancora a chi mi regala dei libri perché per me le riflessioni altrui sono un nutrimento dello spirito e spesso, in positivo o in negativo, un pungolo per una ricerca sempre più approfondita. Purtroppo sono terribilmente in ritardo con la lettura. Gli impegni ordinari mi rubano tanto tempo, per cui me ne resta poco per leggere.

La gente, giustamente, pensa, quando sceglie un libro per un mio regalo, a qualcosa che riguarda la Chiesa, il sacerdozio, la fede, ed ha ragione perché questi argomenti sono legati al mio servizio all’interno della Chiesa. La gamma, però, di questa letteratura, è vastissima, perché va dalla teologia classica alle più avanzate testimonianze.

Tra i libri che mi sono stati regalati quest’anno, a fiuto ne ho scoperto uno che ha stuzzicato la mia attenzione e la mia curiosità. Si tratta di una specie di autobiografia sui generis, di un prete friulano, un prete certamente anticonformista, libero e radicale, ma profondamente amante di Dio, di Gesù, della Chiesa. Quest’amore appassionato lo rende intransigente, perentorio nel volere, e forse nel pretendere, una conversione profonda della Chiesa al messaggio di Gesù.

Don Pierluigi Piazza – questo il suo nome – è certamente un prete scomodo, uno di quei preti che rompono le uova nel paniere ai colleghi benpensanti, amanti del quieto vivere, ossequiosi della tradizione e, sotto sotto, desiderosi di qualche titolo ecclesiastico, osservanti dei canoni e perciò sono degli autentici rompicapo per i loro vescovi che devono tenere assieme un gregge tanto variegato e sono costretti spesso a dare un colpo alla botte ed uno al cerchio.

Spesso questo tipo di preti rompono, sbattono la porta ed appendono al chiodo la tonaca, quando la hanno, ma quando veramente hanno buon senso ed amore a Dio e ai fedeli, fanno la fine di don Milani e, come profeti scomodi, vengono mandati al confino; poi però, dopo morti, sono riesumati come la ricchezza più autentica della comunità cristiana (vedi ancora don Milani e don Mazzolari).

Non ho ancora letto tutto il volume ma mi pare che, pur inviandolo in un piccolo paese tra le montagne del Friuli, il vescovo di Udine sia stato saggio e tollerante permettendo a questa voce certamente scomoda ai più, di continuare la sua testimonianza – almeno per me – profetica.

Un messaggio che ha fatto centro!

Ogni settimana impiego qualche tempo a scegliere la foto per la copertina de “L’incontro”. M’è stato detto che l’appetibilità di un periodico dipende molto anche dalla copertina. Io che non posso permettermi il colore e che sempre debbo “rubare” le immagini dalla stampa che mi arriva, credo di avere qualche difficoltà in più degli altri in questa scelta. Normalmente punto sui primi piani e tento di scegliere immagini accattivanti, poi, con la didascalia, rendo più efficace ed incisivo il messaggio che tento di passare ai lettori.

Sono convinto che la copertina non solamente renda appetibile il periodico, ma spero anche che essa riesca a passare il messaggio sempre positivo che le affido.

Da qualche settimana la tiratura de “L’incontro” è aumentata di 150 copie per ogni numero. Può darsi che il tempo più mite induca la gente ad uscire di casa e quasi ad imbattersi nel nostro periodico. Qualcuno lo prenderà per vedere che cosa pensano questo vecchio prete, sempre libero e tagliente, e la sua squadretta fedele della redazione. Credo però che qualche copertina indovinata abbia fatto lievitare la richiesta e quindi la tiratura.

Qualche settimana fa ho pubblicato una bella foto di don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo e nuovo presidente della Fondazione. La foto sprizzava coraggio, intraprendenza, decisione e passione. Ho tanto sperato che questa foto giovanile facesse passare l’idea che La Chiesa ha ancora tante risorse, può disporre ancora di giovani preti coraggiosi, che guardano al domani con fiducia e accettano la sfida delle forze del nichilismo, della rassegnazione e della sfiducia, sicuri della validità del messaggio di cui sono latori.

Se considero la rapidità con cui il periodico si è diffuso, debbo concludere che ho fatto centro. Infatti alla mattina della domenica non c’era più una copia che si potesse recuperare, neanche a pagarla a peso d’oro!

Sono felice che la gente accolga favorevolmente i messaggi di speranza e di fiducia, ne ha bisogno veramente. E la comunità cristiana ne ha una riserva ricca, basta che non li vesta di vecchiume e di scontato, ma li presenti in tutta la loro freschezza, cosa che io mi riprometto di fare.

L’insegnamento che ci ha lasciato “il parroco dell’isolotto”

Qualche giorno fa i giornali nazionali hanno speso quattro righe in zone povere dei loro fogli per una notizia che credo abbia detto meno di niente ai lettori poco addentro nella storia recente della Chiesa italiana.

I giornali informavano che era morto il “parroco dell’isolotto”. Credo non sia inutile dare un minimo di informazione su questo prete fiorentino. Questo parroco dell’isolotto, quartiere povero di Firenze, svolgeva la sua attività pastorale ai tempi del Concilio ecumenico vaticano secondo. La Chiesa italiana era in estremo fermento a quel tempo. Papa Giovanni aveva fatto saltare il tappo che la teneva ingessata ormai da decenni di vita stantia, ossequiente ai vecchi canoni della pastorale; ma sotto quella quiete apparente c’era un autentico vulcano in forte ebollizione. Il Concilio fece esplodere la pentola e la “lava incandescente” cominciò a scendere da ogni dove.

Fu un tempo estremamente vivace, ma assai scomposto, irrequieto ed esagerato come ogni rivoluzione. Ricordo che a quel tempo si diceva che un prete di quella Olanda bigotta e allineata, una volta celebrata la messa, dava alle galline del suo pollaio i resti delle ostie consacrate. Ricordo che da noi un collega, prima della messa, mandava il chierichetto a comprare un chilo di pane per dare la comunione ai fedeli. Ognuno, in particolare gli spiriti un po’ esagitati, si dava da fare per tradurre al presente i divini misteri.

Ebbene, il prete fiorentino morto l’altro ieri, aveva inventato un nuovo catechismo per i bambini della parrocchia. Io l’ho anche letto e non era male come tentativo di decodificare il messaggio cristiano costretto dentro le vecchie formule del catechismo di Pio X.

Quel prete ebbe la sfortuna di avere lo stesso vescovo che mandò don Lorenzo Milani nella parrocchia di Barbiana che a quel tempo aveva 42 abitanti. Si arrivò allo scontro, fu proibito al prete di celebrare in chiesa, egli diede appuntamento in piazza ai suoi seguaci e credo che per moltissimi anni abbia celebrato all’aperto per la comunità della diaspora.

Molti vescovi del Concilio avevano applaudito il collega, mentre io, garibaldino come sempre, avevo scritto che se continuava così la Chiesa italiana non avrebbe avuto “un isolotto” ma un arcipelago in rivolta.

Non so che cosa sia rimasto di quella comunità, anzi suppongo che siano rimaste solamente rovine. Non so pure se avesse ragione più il prete o il suo vescovo, forse avevano torto ambedue.

Da questo fatto non esaltante ho capito che nella Chiesa chi crede di avere qualcosa da dire ai suoi capi, lo deve fare dall’interno, senza sbattere la porta di casa; andandosene uno provoca solamente guai, senza costruire nulla di buono. Dall’altra parte, quella del vescovo, vorrei con umiltà ma con convinzione, affermare che il dissenso, o meglio la diversità, anche se è faticosa da accettare, arricchisce sempre, mentre gli atti di intolleranza fanno forse danni maggiori dei primi.

Ancora una parola su don Verzè

Una saggia e umana sentenza dell’antica Roma recita: “Parce sepolto”, lascia stare i morti. Cosa che ritengo giusta e che voglio sempre rispettare.

Ieri ho letto la notizia della morte di don Verzè, proprio nel giorno in cui il “San Raffaele”, la sua splendida creatura, è stato messo all’asta.

Credo che questa sia la terza o quarta volta che mi occupo della figura e della testimonianza di questo vecchio prete veronese, ma che spese la sua vita nella città di sant’Ambrogio, Milano. I miei interventi sono stati altalenanti: ammirazione, stupore, delusione, recupero e quindi amarezza.

In questi ultimi tempi la stampa è stata particolarmente cattiva col fondatore dell’opera colossale del San Raffaele. I laici, nel senso più negativo del termine, non gli hanno di certo risparmiato critiche, accuse e non hanno mancato di puntare il dito sulla vita, l’opera, il pensiero e la moralità civica di quest’uomo di Chiesa. L’opinione pubblica cattolica è stata piuttosto tiepida nella difesa di questo religioso, ha preso le distanze, se ne è lavata le mani, consegnando idealmente alla magistratura, organo della giustizia civile, l’impresa di questo prete.

Io ritengo di dover spendere una parola ancora per questo sacerdote che ha tentato di inserire nell’umano, nella concretezza e nella società il precetto cristiano della solidarietà. Non spetta a me, fortunatamente, dare un giudizio sulla vita e sull’opera di don Verzè – fra l’altro non ho una conoscenza seria su quanto ha fatto. Però sento il dovere di aggiungere una considerazione a favore di questo prete che, nonostante tutto, ammiro e stimo.

La società e pure uomini di Chiesa, che non si sporcano le mani con la vita, che sono prudenti della peggior prudenza perbenista, che si garantiscono al massimo, che non hanno il coraggio di rischiare, che si limitano a criticare gli altri, che non si spendono tutti per una causa, che pensano sempre a fatti propri e al loro tornaconto, in maniera ipocrita si limitano a criticare e a giudicare. Così han fatto con don Verzè, il quale può aver pure sbagliato, ma ha fatto quello che nessun cittadino e nessun prete ha tentato e saputo fare.

Chi fa può talvolta ed in parte anche sbagliare, ma chi non fa sbaglia sempre e sbaglia di grosso.

Don Verzè potrà sempre dire a Cristo, l’unico che lo può giudicare con giustizia: «Signore, ho esagerato, ma tu per primo me ne hai dato l’esempio, giocandoti tutto per gli altri e ottenendo la mia stessa sorte».

Sono convinto che sbagliare per troppo amore non sia una colpa, ma sempre e comunque un merito. Ho pregato per don Verzè e l’ho pregato. Desidero e mi propongo di seguire il suo esempio solitario piuttosto che quello della moltitudine di prudenti, inetti, pavidi ed inconcludenti.

“Chi cammina sempre sul ciglio della strada finisce facilmente per precipitare nel fosso”

Circa un paio di anni fa una signora che collabora ai magazzini “San Martino”, mi ha regalato una autobiografia di don Gallo, il noto prete del dissenso ecclesiale. Credo che questa cara signora non abbia scelto il volume perché in linea con le sue idee – perché credo che sia una persona moderata e la pensi come la Chiesa ufficiale; forse è stato il libraio che, avendo saputo che voleva fare un omaggio ad un sacerdote, le suggerì il volume che tratta della sua categoria.

Don Gallo è un mio coetaneo che si è sempre occupato di sbandati, prostitute, drogati ed estremisti a livello sociale e religioso ed è fondatore e responsabile di una comunità di recupero nella sua Genova.

Don Gallo m’è parso intelligente, prete appassionato delle creature umane anche più derelitte, credente a modo suo e “innamorato” della Chiesa in maniera ancor più a modo suo.

Pur non condividendo io molto lo stile, le battute ad effetto, il linguaggio da bassifondi e la passione sconfinata per tutto ciò che odora di sinistra e di dissenso, ho ammirato e m’ha fatto bene la sua capacità di recuperare anche nelle creature più degradate, esasperate e ribelli, certi valori autentici, anche se testimoniati in modo anomalo e fuori dalle righe del pensare e dell’agire comuni.

Qualche giorno fa un altro caro concittadino mi ha regalato un altro volumetto di don Gallo, dal titolo stuzzicante per una persona come me, particolarmente attenta alle cose della fede e della religione: “Il vangelo di un utopista”. Ho gradito molto il dono, ma sono rimasto perplesso e sconcertato dalla lettura del volume.

Il testo è composto da 5 capitoletti: il Vangelo dell’unica famiglia umana – il Vangelo della pace – dell’utopia – della sobrietà – della costituzione. E, per finire in bellezza: “Il Vangelo De André (il cantautore) e Balducci” (prete del dissenso)

Il messaggio dello scrittore è sconcertante, perché è confuso, irrequieto, scomposto ed inaccettabile.

Un tempo qualcuno disse che “chi cammina sempre sul ciglio della strada finisce facilmente per precipitare nel fosso”. Penso che tutto questo sia capitato anche a don Gallo e infatti ho l’impressione che l’amore per l’eccesso e il fazioso abbia fatto cadere rovinosamente nell’assurdo questo vecchio prete.

Di positivo, dalla lettura, ho tratto la preoccupazione di non fare la stessa fine!

“Le chiavi pesanti” del Papa

Qualche settimana fa ho visto in televisione il Santo Padre che ha avuto bisogno di una specie di passeggino su ruote per percorrere un paio di centinaia di metri nella basilica di San Pietro e nella piazza antistante. Il portavoce del Vaticano, con la consueta solerzia ed ipocrisia curiale, si è preoccupato di affermare che il Papa sta bene; dobbiamo quindi pensare che hanno costruito quell’attrezzo perché sta “troppo bene!”

Il Papa è vecchio, il Papa è stanco, la sua voce diventa sempre più flebile, tanto che quando lancia un monito, una condanna, sembra che pronunci una supplica!

Tanti anni fa ho letto una bellissima ed accorata biografia del giornalista Agasso su Paolo VI, il grande Papa che si portò nel cuore e sul volto l’angoscia e la sofferenza del mondo intero. Il volume che mi ha fatto versare calde lacrime di comprensione, di compassione e di amore nei riguardi di quel pontefice dalla mente onesta e lungimirante, ma dalla voce fessa, si intitolava “Le chiavi pesanti”. Credo che anche per il nostro papa Benedetto le chiavi di San Pietro diventino ogni giorno sempre più pesanti, tanto che pare che lo stiano schiacciando. Povero Papa, vecchio e stanco!

Papa Paolo VI fu un grandissimo Papa che seppe condurre la vecchia Chiesa, ingessata nello spirito e nello stile dell’ottocento, verso il giorno nuovo e a lui toccò la sorte di succedere a papa Giovanni XXIII, tanto amato e tanto popolare, il quale aveva fatto saltare il tappo, ma aveva però pure lasciato al suo austero successore una Chiesa in pieno guado tra una sponda da cui s’era staccata e l’altra verso cui stava tendendo.

A papa Ratzinger toccò pressappoco la stessa fatica, avendo dovuto succedere a papa Giovanni Paolo II, il condottiero indomito ed audace, l’attore capace di galvanizzare le folle e far sognare la Terra promessa ai popoli.

Sulle spalle curve e stanche del nostro Papa tedesco, fine teologo ed interprete acuto dei mali della Chiesa e del mondo, pesa tutta l’irrequietezza di un popolo di Dio che pare temere ancora un dialogo franco col mondo moderno e forse ancora non totalmente cosciente d’avere un messaggio che risponde pienamente alle attese degli uomini d’oggi.

Povero Papa, solo e affaticato, che sembra incerto se ritirarsi a pregare il buon Dio suonando il piano ed approfondendo la scienza di Dio, o continuare la sua via crucis in solitudine, forse non compreso e non amato quanto meriterebbe, anche dagli stessi membri della Chiesa di cui è capo e pastore.

Il giudice Livatino, un esempio che dà onore alla magistratura

In quest’ultimo tempo ho avuto modo di leggere sulla stampa cittadina molti servizi sul giudice Livatino, il magistrato trucidato dalla mafia per la sua condotta integerrima coerente alla sua coscienza di cristiano e alla sua missione di amministratore della giustizia.

A vent’anni dalla tragica fine di questo servitore della società nel settore della giustizia e cristiano esemplare, gli organi di stampa hanno riacceso i riflettori sulla sua persona e sulla sua fine in occasione della scelta della Chiesa di iniziare il processo per la sua beatificazione.

La Chiesa ha un fiuto particolarmente attento nel presentare, come punto di riferimento per la società, quei discepoli di Cristo che possono diventare creature esemplari per quelle categorie della nostra società che annaspano nella nebbia e che sono in crisi per la perdita dei valori autentici la cui presenza dovrebbe essere di supporto alla nazione.

Io mi sento veramente triste e sconsolato leggendo, ogni giorno di più, la crescente critica ed accusa documentata agli uomini della politica. Nel mio animo il cittadino che si rende disponibile a lavorare ai massimi livelli per il bene comune, dovrebbe essere un modello ed un punto di riferimento esemplare per tutti i cittadini, mentre oggi, in realtà, questa categoria di operatori sociali, nel suo complesso, si sta dimostrando avida, parolaia, interessata, faziosa, inconcludente ed incline ad ogni compromesso: questo è uno scandalo, un sacrilegio esecrando!

Ma più ancora dei politici, i magistrati e tutti gli operatori della giustizia, dovrebbero essere le persone più integerrime, laboriose e sopra le parti, coloro che non solo amministrano con saggezza il codice civile e penale, ma che lo impersonano loro stessi.

Ora non capisco bene se per carenza di uomini e di mezzi, per un impianto giuridico pletorico, sorpassato ed inadeguato o per indolenza, spirito di parte, posizione di privilegio e sete di potere, sta di fatto che vi sono centinaia di migliaia, forse milioni, di cause inevase, processi infiniti, sentenze scandalose, poca serietà professionale, per cui avvengono fughe di notizie e, peggio ancora, di delinquenti emeriti, sperperi di denaro, partecipazione, fin troppo scoperta, a partiti politici.

Per questi motivi plaudo quanto mai la Chiesa che presenta figure emblematiche quali il giovane magistrato Livatino, o il politico De Gasperi, quali esponenti splendidi e gloriosi di quelle categorie di persone che oggigiorno arrischiano di squalificare in maniera irrimediabile corpi essenziali della comunità civile, quali sono la politica e la magistratura.

Papa Ratzinger

Per me, come deve essere per ogni cristiano, il Papa è il Papa, il successore di san Pietro e il rappresentante di Gesù in Terra. Questo vale per Papa Giovanni XXIII, per Papa Celestino quinto, per Papa Pio dodicesimo, come per Papa Borgia. Il Papa rappresenta Cristo, indipendentemente dalla sua santità o dalle sue doti personali.

Appena ieri ho confessato la mia profonda ammirazione e il fascino che ha esercitato nel mio spirito Papa Wojtyla per il suo charme fisico e spirituale, per il suo coraggio di sfidare il mondo e mantenere ben saldo il timone della Chiesa, nonostante questo mare insidioso che è il mondo attuale.

Papa Benedetto XVI, Papa Ratzinger, da un punto di vista umano mi piace molto meno; quella sua persona fragile, la voce fioca e stridula, quel suo italiano un po’ stentato, mi esaltano meno, però anche il nostro papa teologo e tedesco è il Papa in cui vedo il volto, il cuore e la parola di Cristo e, man mano che passa il tempo, anche da un punto di vista umano, sempre più l’apprezzo, sento nei suoi riguardi tenerezza ed amore veramente filiale. La sua umiltà, il suo domandare perdono per i peccati della Chiesa, le sue denunce per la fragilità del pensiero oggi corrente, la sua ammissione costante delle difficoltà e dei limiti della Chiesa di cui è capo, me lo rendono sempre più caro.

Papa Ratzinger non ha il fascino della persona, della voce, del coraggio di sfidare il mondo, però è impegnato a salvare la Chiesa e il mondo mediante la sua denuncia umile e dimessa, ma costante e lucida.

Ho particolarmente ammirato il nostro Papa nel suo ultimo viaggio nella sua terra e soprattutto nella terra di Martin Lutero, del quale ha colto il desiderio e il tentativo di purificare e salvare la Chiesa del suo tempo, che non era di certo meno irrequieta ed incoerente di quella dei nostri giorni. Mi ha toccato particolarmente quando ha affermato, in terra tedesca, dove la secolarizzazione e la diserzione religiosa è grave, che non è il numero dei cristiani che ci deve interessare, ma la qualità e la coerenza con l’insegnamento di Gesù.

L’ho ammirato quando poi ha condannato, pur con voce pacata, la pompa, le strutture appariscenti, il ritualismo, per invocare il ritorno alla sobrietà e alla povertà evangelica.

I Papi sono anch’essi strumenti nelle mani di Dio, il quale talvolta adopera la carezza e talvolta l’asprezza, ma sempre raggiunge il suo scopo, qualsiasi sia lo strumento che sceglie di adoperare.

Un bellissimo ritratto di Papa Wojtyla

Pensavo di avere una certa conoscenza del mondo della televisione, avendo un minimo di dimestichezza con i canali “canonici” della Rai e quelli di alcune televisioni del Veneto, però, con l’avvento del digitale terrestre, non faccio altro che scoprire sempre nuove emittenti.

In questi ultimi tempi ho scoperto Tele Medjugorje, imbattendomi un giorno per caso in un programma che, come in un collage, riferendosi costantemente al funerale di Papa Wojtyla, riportava le immagini più disparate del lungo tempo del suo pontificato svolto nel mondo intero. Fui letteralmente affascinato da questo meraviglioso mosaico di immagini riprese nei luoghi e nelle situazioni più disparate del suo ministero, commentato da brani cantati dalla voce calda di Bocelli, che presentavano la figura piena di fascino di questo ministro di Dio, talora capace di una dolcezza e di un calore umano appassionato nei riguardi dei bambini, delle donne e dei giovani, sempre consapevole d’avere un dono, un messaggio, una risposta grandiosa da offrire all’umanità in cerca di luce, di speranza e di certezze, talora in atteggiamento di sfida aperta contro le forze del male.

Man mano si susseguivano questi scorci dell’incontro con i popoli del mondo, passando gli anni il volto e la persona di Papa Wojtyla perdevano prestanza fisica, splendore e fascino umano, ma mai il coraggio, la fede in Dio e l’amore per l’uomo si affievolivano. Sembrava che la ricchezza del messaggio continuasse a fluire pure da un corpo dolorante che andava vieppiù dissolvendosi.

Sono rimasto talmente coinvolto da questa figura ieratica e profetica, che mi sembrava potesse stare accanto ad Abramo, Mosè, Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman. Ho ringraziato di tutto cuore il buon Dio che m’ha fatto vivere in un tempo in cui Egli ha parlato mediante uno strumento così duttile e meraviglioso.

Ogni qual tanto la macchina da presa inquadrava il Vangelo posto sopra la semplice bara di cirmolo, le cui pagine si voltavano girate dal vento, quasi a dire che la vita di questo apostolo del nostro tempo era stata lievitata dal messaggio del Vangelo e per questo aveva fatto tanta presa sul cuore del mondo.