Il vecchio Cardinale

Il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, l’ho sempre immaginato: imponente, autorevole, sicuro, colto. Infatti il vedere questo prelato, già alto di statura, con la mitria in capo che lo allungava ulteriormente, tenere sulla destra il pastorale, che dava la sensazione di comando, il sapere che egli era un biblista di fama mondiale e che governava una diocesi di un paio di milioni di abitanti, l’aver letto alcune sue pastorali dotte ed incisive: tutto questo me lo faceva immaginare come una roccia e me lo faceva collocare tra la schiera degli apostoli e dei profeti, uomini completi e sublimi che incutono soggezione.

Ora scopro sulla copertina del suo ultimo volume che sto leggendo, “Qualcosa in cui credere”, un suo pensiero e l’immagine di questo Cardinale, una immagine che lo mostra curvo, vecchio, ammalato e ritirato in convento, mentre afferma: «L’angoscia nasce dall’insicurezza diffusa e dalla fatica di trovare nel proprio bagaglio risposte rassicuranti. E’ la paura di dover affrontare un futuro incerto, rimanendo privi di quel poco di terreno solido che si pensava di aver conquistato. Tuttavia, se impareremo a guardarci negli occhi con rispetto e da fratelli, ci troveremo uniti nella fiducia, o almeno nel presentimento che ci deve pur essere qualcosa in cui possiamo ancora credere».

Ebbene le parole umili, incerte e povere di questo vescovo che “da ricco s’è fatto povero”, mi stanno aiutando molto di più di quando pontificava sulla cattedra di Sant’Ambrogio. Anche questo è miracolo di quel Signore che con gli umili fa cose grandi.

Una colonna pericolante

La vita de “L’incontro” è, come sempre terribilmente precaria. La sua sopravvivenza mi appare ogni settimana come un autentico miracolo. Da un lato mi riempie l’animo di consolazione che a Mestre sia il periodico più letto, ma dall’altro lato ho lucida coscienza di non essere riuscito a creare un’organizzazione così consistente, capace di parare i guai che si incontrano nella vita. “L’incontro” poggia su una trentina di collaboratori volontari, ognuno dei quali è assolutamente indispensabile; il cedimento anche di uno solo può mettere in pericolo la sopravvivenza del giornale.

Di questa precarietà sono sempre stato cosciente e d’altronde ripeto che mi pare già un miracolo che il periodico abbia continuato ad uscire regolarmente di settimana in settimana.

Ora è in sofferenza la signora Laura, che non solo inserisce nel computer i miei testi, ma pure li riordina da ogni punto di vista e inoltre collabora spesso con dei “pezzi” quanto mai brillanti. Avrebbe bisogno assoluto di una pausa di riposo o perlomeno di un aiuto consistente. Mi sono rivolto al Signore e a chi altrimenti potrei chiedere aiuto? e Gli sto dicendo: «O mi mandi qualcuno oppure debbo chiudere!».

Per ora non mi ha ancora risposto; quindi sto pubblicando ciò che la cara signora Laura ha inserito a suo tempo.

Bertolaso in ospedale

Bertolaso, l’ex capo della protezione civile, m’aveva sempre dato l’impressione di una persona per bene: un volto ordinato e pulito, una personalità franca e onesta. Ero stato infatti ammirato quando ad Haiti, da persona esperta, aveva affermato che l’intervento umanitario degli Stati Uniti era goffo, sproporzionato ed inefficiente. Egli era un professionista esperto e tempestivo negli interventi. Poi la solita marea fangosa aveva travolto la sua persona e la sua opera. Infine era scomparso dalla scena.

Me lo sono ritrovato qualche sera fa alla televisione in un ospedale del Sud Sudan, lo Stato appena nato per un popolo martoriato e distrutto da una lunghissima ed impari guerra. Con sorpresa ho scoperto ch’era medico; avevo sempre supposto che fosse un tecnico, forse un ingegnere.

M’ha fatto enorme piacere vederlo fare “l’apprendista” in quel povero ospedale dell’Africa nera. L’intervistatore, indiscreto come sempre, gli aveva chiesto se fosse andato a fare “il missionario” per espiare i suoi “peccati civili”. S’è difeso con dignità e pacatezza e ha difeso la sua protezione civile. M’ha fatto tanto piacere ritrovare questo personaggio della vita pubblica italiana in un ospedale di un Paese in assoluto tra i più poveri.

Io non sono in grado di dare giudizi su questo uomo pubblico, però posso affermare che m’ha fatto bene ritrovarlo da volontario tra gli ammalati e comunque mi ha edificato la sua testimonianza.

Chisso

Chisso è l’assessore della Regione Veneto onnipresente. Non passa giorno che la stampa locale non lo presenti come protagonista di uno degli infiniti ed ingarbugliati problemi dei quali si intesse la vita della nostra città e della nostra Regione. Ha una voce pacata, un volto sempre composto e sereno e delle prese di posizione sagge. La città si è accorta della sua operosità e l’ha votato in maniera sovrabbondante.

Il nostro assessore dà l’impressione che si prenda a cuore ogni problema, come fosse l’unico e il più importante a cui offrire la sua attenzione. Io lo considero un amico vero del “don Vecchi”. La prima volta che è venuto al Centro io gli spiegai la dottrina a cui ci rifacciamo. Capì al volo che era una soluzione innovativa e vincente, infatti pochi giorni dopo ci arrivò la comunicazione che la Regione aveva stanziato centomila euro per il Centro di Marghera.

Lo incontrai poi in Regione da Sernagiotto per il “don Vecchi 5” per gli anziani in perdita di autonomia. Era venuto per perorare la nostra causa presso il collega. «Questa è gente seria di cui ti puoi fidare» disse a Sernagiotto.

Qualche giorno fa don Gianni l’ha incontrato per chiedergli di aiutarci per il problema aggrovigliato della viabilità per giungere al futuro cantiere degli Arzeroni. Ci ha promesso di darci una mano. Sono certo che lo farà perché è un amministratore galantuomo. Oggi trovare un galantuomo in politica è una fortuna e una grazia del cielo.

Da qualche tempo dico un’ave Maria per Chisso perché non “si stufi” e continui ad aiutare la sua gente e sappia che c’è chi lo stima e gli vuol bene.

I “miei” frati

Qualche settimana fa ho dedicato l’editoriale de “L’incontro” alla presenza dei religiosi nella nostra città, presenza ancora relativamente numerosa, anche se un po’ in declino, come del resto avviene per tutti gli ordini religiosi e per tutte le congregazioni. Durante i cinquant’anni che ho vissuto all’interno della Chiesa della nostra città, ne ho visti passare di frati, tanti e diversi, ma quelli che mi sono rimasti nel cuore sono una mezza dozzina ai quali voglio dedicare una memoria riconoscente.

Padre Simeone, con la sua barba bianca e la sua voce pacata. Non aveva una buona eloquenza, ma possedeva un cuore buono, capace di consolare e di distribuire a piene mani la misericordia di Dio.

Il cappuccino padre Sigismondo, sempre presente e sempre disponibile a fare un piacere ai poveri parroci. Arrivava perfino a fare qualche piccolo sotterfugio di nascosto dei suoi superiori pur di dare una mano.

Padre Francesco Ruffato, l’intellettuale ricco di una carica umana che ha dato vita ai maggiori supporti della cultura cristiana in città.

Padre Evaristo, il frate degli operai del dopoguerra, che aveva una schiera infinita di postulanti per un posto di lavoro. Viveva da assediato ma a tutti dava una speranza.

Padre Matteo, parroco dell’Addolorata, anima ardente, apostolo ottimista e ricco di fede che si è speso per la sua gente senza risparmio.

Padre Antonio, il frate degli stabilimenti di Marghera, apostolo serio e impegnato, poche parole ma fedeltà assoluta alla sua missione.

In questo mezzo secolo saranno passati per Mestre tanto altri bravi frati, ma questi sono quelli che hanno brillato di una luce più bella e più intensa.

Le vacanze del prete

Quanto sono insofferente e critico nei riguardi del “prete borghese” e funzionario tranquillo dell’azienda Chiesa, altrettanto e più sono ammirato dal prete che non si risparmia e si spende per la sua comunità, non a parole ma con i fatti.

Qualche tempo fa don Gianni, l’attuale parroco di Carpenedo, è tornato dal campo dei suoi scout: 180 ragazzi sotto le tende. Ma all’inizio delle sue “vacanze” aveva guidato il grest in parrocchia, 130 ragazzi, e dopo, nella casa di montagna della comunità, la Malga dei Faggi, tre turni di ragazzi e giovani.

Non sono moltissimi i preti di questo stampo, ma fortunatamente ce ne sono ancora. Se potessi dare un consiglio a chi colloca preti appena sfornati dal seminario, gli direi: «Fategli fare un’esperienza in una di queste parrocchie che funzionano, perché non potranno mai dire “non è possibile!” e non potranno mai rassegnarsi al deserto o ad una sopravvivenza parrocchiale stantia».

Suor Laura Piazzesi

La sorella di suor Laura Piazzesi mi ha telefonato per annunciarmi la morte della nostra amata e stimata missionaria nelle Filippine.

Suor Laura mi voleva bene ed io ricambiavo questo affetto ed avevo per lei una forte stima. Il legame con questa suora durava da lunga data, sono stato compagno di classe di suo fratello Giorgio e sempre vicino alle sorelle che ho incontrato quando facevo l’assistente dei maestri cattolici.

Suor Laura è stata veramente una splendida figura di missionaria, intelligente, generosa e coerente, ha amato la sua missione più della sua stessa vita. Infatti ha sempre desiderato morire tra la sua gente ed ha voluto essere sepolta in quella terra amata.

Suor Laura, che fu economa generale delle Canossiane, era una manager nata, missionaria all’antica, ma moderna allo stesso tempo. Ricordo con nostalgia le sue lettere colte ed affettuose, il suo amore materno per i suoi poveri, le sue imprese coraggiose ed innovative. Mestre, e soprattutto la Chiesa mestrina, può andare veramente orgogliosa di questa concittadina.

Spero tanto che qualcuno la faccia conoscere con parole più adeguate delle mie alla città. Il tempo non è riuscito a scalfire la sua fede ed il suo amore al prossimo. La sua bella figura di donna ricca di intelligenza e di umanità, rimane un punto luminoso di riferimento per quello che riguarda l’ansia di aiutare i fratelli più poveri, offrendo loro il pane e, nello stesso tempo, il messaggio cristiano.

Una breve supplenza

Don Gianni, il parroco attuale di Carpendo, mi ha chiesto il favore di supplirlo per una decina di giorni essendo impegnato al campo degli scout. Don Gianni quest’anno s’è concesso una “bella vacanza” in una vallata del Trentino a stretto contatto con la natura e soprattutto con duecento scout della parrocchia – tanti sono a Carpenedo i membri di questa associazione.

Le “vacanze” di don Gianni sono veramente eccezionali: ha dormito per terra in tenda, mangiando quello che i cuochi dodicenni riuscivano a cucinare, dal primo mattino a tarda notte in apprensione per i suoi ragazzini che maneggiano l’accetta per le “costruzioni”, in pena ogni volta che uscivano dal campo per qualche “impresa” che solo i ragazzi sanno inventare. Poi, tornato a casa, la gente gli domanderà: «Si è divertito?». Infine persino lui penserà di dovermi essere riconoscente per aver celebrato la messa vespertina per qualche settimana!

Poveri preti! Se tutto va bene, ma è difficile che accada, genitori e fedeli penseranno di essere loro ad avergli fatto un piacere affidandogli il loro figliolo. Ma se qualcosa non andasse, la critica, e peggio l’accusa, è già pronta. Solamente chi, come me, è vissuto per mezzo secolo queste vicende, sa che cosa “costa” una bella parrocchia e l’educazione dei nostri ragazzi!

Quando un tempo partecipavo ai campi scout, aggiungevo ogni giorno alla preghiera di rito che la liturgia stabilisce, un’altra preghiera che sul messale portava il titolo: “Ad petendam serenitatem”, ossia una preghiera perché il buon Dio mandasse bel tempo, perché con la pioggia la vita da campo è una vera calamità.

Nella settimana, da “supplente” ho sempre aggiunto una preghiera perché don Gianni e i suoi collaboratori sopravvivessero alle loro “vacanze”.

Neanche spero che i parrocchiani conoscano il prezzo del tentativo di fare dei nostri ragazzi degli uomini e delle donne per bene, ma prego perché almeno essi non debbano pagare un sovrapprezzo.

Quale giustizia?

Don Gino Cicutto, attualmente parroco di Mira Taglio, ha vissuto con me a Carpenedo i primi anni del suo sacerdozio. Quindi io ho potuto conoscere bene la sua personalità e le sue risorse.

Don Gino è un prete intelligente, ordinato e fedele al suo ministero. A Carpenedo il suo impegno pastorale ha avuto notevole successo riuscendo a mettere in piedi un gruppo di giovani numeroso ed affiatato, a far convivere pacificamente gli scout con i giovani dei gruppi di formazione – cosa davvero non facile – e ha dato vita ad una comunità di catechiste veramente invidiabile.

Il suo stile aveva come punto di forza la pacatezza, l’equilibrio e soprattutto la misura; non era mai polemico, né faceva progetti esagerati, né partiva quasi mai con la lancia in resta come io, invece, facevo e faccio frequentemente ancora.

Pensavo allora che don Gino avrebbe fatto carriera perché faceva sempre il suo lasciando che il mondo gli cadesse accanto, non disturbando alcuno; però è andata così! Sono straconvinto che ha numeri per occupare posti ben più alti che guidare la sua comunità ai confini della diocesi.

Don Gino mi manda regolarmente il periodico della sua parrocchia che io leggo sempre con estremo interesse. Da qualche tempo però noto con simpatia che sta uscendo un po’ dal suo guscio protettivo e prende posizioni. Qualche settimana fa l’ha fatto sognando, seppur garbatamente, a voce alta che il Vaticano sia più sobrio e più modesto. Ora se la prende con la magistratura criticando una giustizia spesso strampalata.

Ho letto quindi con la consueta curiosità, ma con più condivisione, il pezzo che trascrivo, perché da sempre ammiro e mi fa felice chi non se ne sta quieto in un canto, ma prende posizione. Don Gino è arrivato un po’ tardi, però mi fa piacere ugualmente che non subisca passivamente un corpo dello Stato che in questi ultimi decenni, nel suo complesso, non ha fatto onore al Paese con un comportamento discutibile e non esaltante per la posizione che occupa. Ecco il testo.

Stamattina leggo nel giornale della condanna inflitta ad un piccolo commerciante di ferro vecchio che, dopo aver subito per tre volte il furto di materiale di rame, imbraccia il fucile e spara ad alcuni zingari che, dopo aver tagliato la rete di recinzione della sua proprietà, gli hanno rubato ancora del rame, ferendoli non in maniera grave. Il giudice ha ritenuto esagerata la reazione di questo poveruomo, condannandolo a risarcire i ladri con una somma considerevole. Così si è aggiunto al danno anche la beffa. E’ giustizia questa? Tutti affermano che l’aumento della criminalità è dovuto alla quasi certezza della impunibilità per cui i criminali si sentono liberi di rubare, di massacrare di botte, di fare i prepotenti, tanto, alla fine, si beccano al massimo una “denuncia a piede libero” della quale se ne infischiano tranquillamente. E’ per questo che sale di conseguenza il rifiuto verso le tante persone che vivono di espedienti e di furti, non avendo un lavoro con il quale guadagnarsi il pane quotidiano. Spero tanto che il governo Monti si accorga anche di questo e possa correre ai ripari, dal momento che i tanti governi che lo hanno preceduto, hanno contribuito a creare queste situazioni assurde.

La Messa festiva al don Vecchi di Campalto

Nota della Redazione: questo articolo è stato scritto diverse settimane fa. Da allora la situazione, almeno per quanto riguarda via Orlanda, si è sbloccata perché finalmente l’Anas ci ha dato il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso e l’uscita del centro don Vecchi di Campalto su via Orlanda. Al più presto inizieremo i lavori che saranno a carico quasi totalmente della Fondazione Carpinetum.

Ci pareva di aver finalmente risolto il problema della messa festiva per i residenti del Centro don Vecchi di Campalto, ma ora il problema è tornato in alto mare.

Tutti ormai sanno che il Centro don Vecchi di Campalto conta 64 appartamentini; essendo però alcuni destinati a coppie, i residenti risultano 70. La parrocchia di Campalto dista solamente settecento metri però via Orlanda, che è l’unica strada che porta in chiesa, è una “strada proibita” perché senza margini e con un traffico intenso e veloce, tanto che si contano, in questi ultimi anni, più di una decina di incidenti con dieci morti. L’unico modo per recarsi in centro per partecipare al precetto festivo è l’autobus, ma anche questo mezzo è assai pericoloso perché esige l’attraversamento di questa “strada maledetta”.

Tutti conoscono le vicende veramente tragicomiche per ottenere la messa in sicurezza, almeno per quanto riguarda l’autobus. Da quasi nove mesi stiamo aspettando il permesso dal Comune e dall’Anas e, al momento in cui sto scrivendo queste note, non è ancora arrivato.

Per grazia di Dio ci è arrivato dal cielo don Valentino, un prete anziano con tanti problemi ed ha cominciato a celebrare ogni domenica, tanto che s’era formata una piccola assemblea liturgica alla quale partecipava un terzo dei residenti. Purtroppo vecchiaia e malanni hanno costretto don Valentino in ospedale ed ora pare che debba andare al Nazaret.

Enrico, il diacono “ad honorem”, ha quindi ricominciato a celebrare la “messa secca” con la liturgia della parola e le preghiere, come avviene nelle comunità sperdute nelle savane africane.

I nostri vecchi pare però che non gradiscano simili surrogati al sacrificio di Cristo e disertano bellamente questi incontri religiosi, mentre sembra che la nuova comunità raccogliticcia avrebbe bisogno di prediche abbondanti!

Ora non ci resta che pregare perché il Signore mandi un nuovo operaio nella sua messe.

Don Didimo Mantiero

Avevo letto sul quotidiano “L’avvenire” la presentazione del un diario di un prete vicentino, nato nel 1912, che dopo essere passato per alcune piccole parrocchie della diocesi di Vicenza, terminò la sua vita come parroco a Bassano del Grappa. Leggendo la critica rimasi immediatamente incuriosito, sia perché il discorso sui diari dei preti, scritti a scopo pastorale, mi interessano perché ho modo di confrontarmi su una materia che mi impegna ogni settimana, sia perché nella presentazione si parla di un prete e di uno scritto che ha come punto di riferimento e di confronto le opere di due scrittori importanti, Bernanos, col suo “Diario di un curato di campagna” e Guareschi col suo “Mondo piccolo”, che racconta la vicenda di don Camillo, il parroco di Brescello.

Secondo motivo a suscitare il mio interesse sono le parole con le quali il Papa attuale Ratzinger, definisce don Didimo Mantiero, il protagonista di questo diario, affermando che egli è una delle figure più belle di parroco del nostro tempo e quelle di monsignor Giussani, il notissimo educatore di giovani, fondatore di “Comunione e liberazione”, che definisce questo umile parroco come un grande pedagogo del nostro tempo, che sorretto da una fede forte e generosa, affronta il difficile compito di educare la gioventù attuale.

Partendo da queste premesse avevo deciso di comperarmi il volume, sennonché un caro amico mi ha preceduto donandomelo, avendo intuito che ne sarei stato interessato.

Ho cominciato a sfogliarlo e sono stato così preso da questa figura pressoché indefinita di sacerdote, che ho avuto subito la tentazione di sospendere le letture in cui ero impegnato per leggere il racconto pulito, limpido, immediato e profumato di apparente ingenuità, ma anche di un sano realismo e di fede forte che anima il racconto di questo prete della pedemontana.

Per mettere a fuoco il “diario” e il suo autore, ne riporto una mezza paginetta, certo che presenterà in modo più autentico questo prete vero e fedele discepolo di Gesù a mia edificazione e a quella dei miei amici.

Mi misi in testa che proprio io, pretino da pochi mesi, dovevo avvicinare e convertire quella specie di bestione che era stato e continuava a essere lo spauracchio dei frati e dei preti.
Fatti i miei piani, da bravo sacerdote, li manifestai al Signore Gesù.
Andavo a trovarLo nelle ore in cui la chiesa era deserta e mi prendevo la confidenza di salire i gradini dell’altare.
Toccavo con riverenza, ma con la semplicità del fanciullo, il rosso conopeo, lo baciavo, quasi fosse stato, quello, un lembo della veste del Signore. Poi con l’indice della mano destra davo leggeri e confidenziali colpettini alla porta del tabernacolo, non so se per chiedere permesso o se per «svegliare» il Signore in riposo, e Gli parlavo così:
«Gesù, stammi a sentire. C’è un grosso affare in vista.
C’è l’anima di quel grosso peccatore da convertire: Vuoi, Signore, che facciamo l’affare? A cose fatte, io Ti lascerò l’anima del signor X e Tu mi lascerai la soddisfazione di avertela portata.

Eppure un prete così candido ha convertito una città e messo in piedi una struttura veramente grandiosa.

Il cortile dei gentili

Spesso mi sento un po’ mortificato quando incontro qualcuno che ha una bella intelligenza ed una cultura solida, e fa dei ragionamenti che fatico a comprendere fino in fondo.

Mi sono detto più volte, nel passato, che volevo accettare lucidamente e serenamente, la mia condizione di semplice “manovale”, per quanto riguarda la vera teologia, non quella “in commercio”, fatta ad uso e consumo di chi s’accontenta di tutto. Questa scelta, fatta più per necessità che per libera determinazione, vale pure per altri campi per me pressoché sconosciuti, come la filosofia, l’economia, il settore scientifico e perfino la politica.

Quando però incontro qualcuno che esplicita con lucidità, competenza e logica rigorosa qualche verità che avevo confusamente intuito e che però era rimasta nella nebbia dei miei limiti, allora provo un senso di sollievo perché avverto struggente il bisogno di conoscere, di far chiarezza, soprattutto sulle tematiche inerenti la fede e la religione, perché non vorrei mai spendermi per qualcosa che non è vero e non mi appaga totalmente. In questi casi fatico e mi arrampico per capire, ma talvolta rimango a mezza strada intuendo che, pur desiderando la verità, essa mi sfugge e non riesco ad approdarvi completamente.

Qualche tempo fa s’è rinnovato questo mio stato d’animo seguendo alla televisione una lezione del cardinal Ravasi, che è un po’ il “ministro della cultura” nell’organico del Vaticano. Questo sacerdote milanese è un uomo di una vasta e profonda cultura biblica e teologica ed ha per me il grandissimo pregio di coniugare il suo sapere con la cultura laica più aggiornata.

Nella trasmissione si illustrava la sua iniziativa religioso-culturale, denominata “Il cortile dei gentili”, denominazione derivata dalla storia di Israele che ci ricorda che nel cortile del tempio di Gerusalemme c’era la possibilità che vi potessero stare anche i “gentili”, ossia i non credenti nel Dio di Abramo.

Ravasi immagina e dà vita a questo luogo ideale nel quale il pensiero cristiano si può confrontare e dialogare anche col pensiero dei non – almeno formalmente – credenti.

Mi pare di aver capito, ascoltando gli interventi dei relatori di primo piano, di culture diverse, che la distinzione tra il pensiero cristiano e quello delle altre culture, tra credente e non credente è assolutamente labile. Mi è parso di cogliere non solamente la bellezza della gente che cerca la verità senza pregiudizi e preconcetti, nel comune desiderio di scoprire la “verità assoluta”, ma soprattutto mi pare di aver intuito che nel punto più avanzato del pensiero umano, ci sono delle convergenze estremamente rilevanti.

Per me tutto questo è semplicemente meraviglioso perché mi fa felice che il volto dell’Assoluto risulti affascinante per tutti gli uomini, soprattutto per quelli del nostro tempo.

La coerenza di Madre Teresa

Ho già scritto di aver terminato di leggere un volume pubblicato da “Famiglia Cristiana” che contiene soprattutto il pensiero di Madre Teresa di Calcutta, testimone e profeta del nostro tempo. Spero però di scoprire, prima o poi, un testo che mi offra una biografia più attenta ed intelligente che incornici e presenti meglio questa singolare testimonianza di Madre Teresa.

Già nel passato mi è capitato di leggere, da adolescente, l’autobiografia di Santa Teresa di Lisieux, la giovane carmelitana che ha offerto ai cristiani del nostro tempo la splendida testimonianza di una santità autentica, realizzata attraverso una scrupolosa attenzione nel far bene le piccole cose che sono il tessuto della quotidianità. Allora non mi piacque un granché, perché lei mi era parsa una creatura sentimentaloide, con una personalità un po’ dolciastra. Fortunatamente, molti anni dopo, m’è capitato di leggere un’opera dello scrittore olandese Van Der Meersch, che ha inquadrato in maniera limpida ed intelligente l’umanità di questa giovane carmelitana coraggiosa e dal cuore grande, che s’è fatta santa mediante la “piccola via”, ossia col dare pienezza agli aspetti minuti del quotidiano.

Tornando a Madre Teresa, nonostante le carenze del testo letto, ho però scoperto che lei non era una vecchia suora tutta delicatezza ed amore: ebbe infatti un carattere forte e deciso, abbandonò la sua congregazione che le parve tarpasse le ali alle suore – scelta estremamente impegnativa -. Un giorno, quando un giovane prete, con una conferenza, propone tesi che lei ritenne pericolose per la sua comunità, lo licenziò decisamente e poi, per più di un’ora, smontò le teorie che lui aveva offerto.

Madre Teresa, innamorata di Cristo in maniera appassionata, visse poi dei tempi oscuri in cui strinse i denti senza sentire che Dio le era accanto, ricevette visite, offerte e riconoscimenti da parte di personalità, che a questo mondo contano, senza però lasciarsi vincere da soggezione ed orgoglio, continuando a portare avanti la causa degli ultimi e di Cristo.

Ho capito che questa donna rimase se stessa in ogni situazione, perseguì in maniera estremamente determinata ciò che la coscienza le dettava, mai si adattò ai modelli che la cultura, la tradizione e perfino la Chiesa di allora portava avanti come validi. Fu fedele alla sua missione fino alla fine, riuscendo a dire al mondo che anche la creatura più umile è degna di rispetto e di affetto.

Come nel nostro tempo ci sono state purtroppo delle personalità forti che seminarono violenza e distruzione, altrettanto ella visse in positivo questa forza. Il mondo intero si inchinò di fronte alla sua proposta ed intuì quanto fosse valida.

Ho concluso che ogni persona deve rimanere se stessa fino in fondo, perché uno dei mali più gravi è quello di accettare di farsi modellare sugli stampi proposti dell’opinione pubblica e dai “poteri forti” che non sono solamente quelli dell’economia.

La dottrina di Madre Teresa di Calcutta

Proprio in questi giorni ho terminato di leggere il volume che il settimanale “Famiglia cristiana” ha recentemente pubblicato su Madre Teresa di Calcutta, fondatrice di una delle ultime congregazioni che sono nate nella Chiesa di oggi. Questo volume non si può definire “biografia”, perché di essa traspare solamente un po’ dal testo e un po’ dalle note di chi ne ha curato l’edizione. Credo che il volume si possa considerare il testo col quale questa piccola grande donna di Dio espone il suo pensiero e la sua dottrina.

Mi ero illuso di trovarvi dentro quei “pezzi di pregio” che vengono riportati un po’ ovunque nella stampa di carattere religioso, ma neppure questo vi si trova nel corposo volume. Il discorso che Madre Teresa fa, sembra la raccolta di ammonizioni che lei fa alle sue discepole per passar loro i punti fondamentali della sua scelta spirituale.

Madre Teresa ritorna, quasi in maniera ossessiva, su alcuni punti che devono caratterizzare la sua congregazione: vivere in maniera assolutamente povera, porsi al servizio dei poveri più poveri, fidarsi in maniera totale dell’aiuto di Dio e non chiedere aiuti da nessuno, amare e servire Gesù nei più poveri ed abbandonati, far capire che scegliere di aiutare i poveri è un dono ed una grazia, scegliere i loro assistiti tra gli ultimi nella scala della povertà ed abitare edifici semplici e modesti.

Ebbene, pur con questa “dottrina”, che sembra assolutamente ardua o forse impossibile, Madre Teresa ha reclutato in questo momento difficilissimo per le vocazioni religiose, un vero esercito di discepole e di aderenti e ha fondato case in tutti i Paesi del mondo, sia in quelli più poveri, come in quelli più ricchi, case aperte per gli uomini dell’ultimo livello umano e sociale. Con questa dottrina a Madre Teresa si sono aperte tutte le porte di nazioni di cultura cristiana, mussulmana o totalmente laica.

Il volume, confesso, mi ha messo in crisi, ma credo che metterebbe in crisi il Vaticano, i vescovi e le canoniche con i relativi occupanti.

Sono convinto che il messaggio di Cristo oggi possa farsi accettare dagli uomini del nostro tempo solamente quando si manifesta con scelte radicali e contro corrente e sia testimoniato con questa assoluta coerenza.

Un editoriale di don Gianni che ho apprezzato

Il mio attuale giovane successore nella parrocchia di Carpenedo ha un suo stile tutto personale nel redigere il settimanale di quella comunità cristiana. La linea redazionale di “Lettera aperta” – così continua a chiamarsi il periodico che ho iniziato ben quarant’anni fa – preferisce le notizie succinte, con le quali informare i fedeli sui ritmi e le iniziative parrocchiali, mentre “il fondo”, anche quando tocca argomenti importanti, è sempre breve, veloce e deciso: poche pennellate forti che lasciano al lettore il compito, se ne ha voglia, di sviluppare per conto suo il tema appena accennato.

Qualche settimana fa don Gianni, in preparazione della Pentecoste, ha appena accennato nel suo “editoriale” ad una questione ben importante che nella Chiesa non mi pare abbia trovato finora una soluzione tranquilla e recepita dalla comunità, ossia il rapporto tra la Chiesa, istituzione gerarchica e che cammina lenta, senza grandi scosse e grandi innovazioni, spesso insofferente dei suoi membri che tentano “fughe in avanti”, e la Chiesa del carisma, ossia la Chiesa che si manifesta attraverso i profeti, la Chiesa di quei cristiani “irrequieti”, sempre avidi di coniugarsi col nuovo e col diverso, desiderosa di incontrare Cristo in avanti, piuttosto che indietro.

Questo problema io lo avverto da decenni e confesso che mi hanno sempre più affascinato le prese di posizione dei profeti, anche se irrequieti, propensi a camminare sul ciglio, amanti del nuovo e convinti che sia mille volte più opportuno e doveroso cercare l’incontro con Cristo nel futuro piuttosto che nel passato.

Ricordo una bellissima pagina di don Mazzolari in rapporto al Risorto. “Cerchiamolo”, diceva questo profeta del passato recente “non nel sepolcro ma nel domani, non lo troverete più nelle cattedrali gotiche, pur belle e sublimi, ma dove si vive, si costruisce il domani, anche se colà non è tutto sicuro e tranquillo!”.

Don Gianni ha incorniciato questo discorso con intelligente prudenza, come qualcosa che viene dalla cultura teologica, non prendendo posizione, ma lasciando tuttavia intendere che non bisogna privarsi dell’apporto estremamente vivo ed importante che deriva dal carisma che la Chiesa istituzionale fa fatica ad accettare e spesso cerca di imbrigliare perché non “scuota troppo le mura con il vento della Pentecoste”.

Ho l’impressione che don Gianni indichi una strada senza esporsi e arrischiare qualche pericolo di troppo, o forse è molto più saggio ed equilibrato di me, esponendo una questione annosa nella Chiesa, affermando che c’è, ma affidando alla storia la sua soluzione.

Ecco come don Gianni, con penna leggera e felice, tratta l’argomento.

Qualcuno vede nel Nuovo Testamento due chiese: quella di Pietro, fondata sulla gerarchia dei ruoli (apostoli, discepoli, battezzati) e quella di Paolo, democratica, dove ciascuno ha un proprio carisma a beneficio di tutti. La prima sarebbe la chiesa pasquale, fondata sul Capo degli apostoli che per primo entra nella tomba del Risorto. La seconda sarebbe la chiesa di Pentecoste, ove lo Spirito viene donato a tutti in egual modo. Non credo a questa netta distinzione ma riconosco che in Italia trascuriamo il mistero di Pentecoste, festa dei talenti di ognuno. C’è un secondo passo. Qualcuno, anche fra noi, trova nella diversità una fatica. Essa è invece un’occasione per crescere. È lo Spirito di Pentecoste che unisce i figli di Dio diversi fra loro e tutti capiscono il linguaggio degli altri. Anche questo è un dono da chiedere nella liturgia di domenica prossima.