Sono con la Severino

Una volta ancora ribadisco che ammiro quanto mai la Severino, ministro di grazia e giustizia del governo tecnico. L’ammiro talmente da temere di finire per innamorarmi di questa cara donna che ragiona col cuore e con la testa tra tanti parlamentari balordi e senza senno.

Una volta ancora ella ha ribadito anche in questi ultimi tempi che è opportuno adottare soluzioni alternative al carcere, perché da un lato le sfoltirebbero da un sovraffollamento crudele ed incivile, e dall’altro recupererebbero ad una vita ordinata e civile tanti condannati che nelle patrie galere sono praticamente costretti ad iscriversi alla “Università del malaffare” perché le carceri italiane sono tali, benché si dica che hanno il compito di rieducare i detenuti.

C’è un solo punto su cui dissento, osservando che da tanto tempo annuncia provvedimenti del genere, ma poi finisce per rimandarli a motivo degli ostacoli che incontra da parte dei parlamentari che avrebbero, loro, più di un motivo per essere messi dentro. Sarei più contento se dicesse a tutti, bianchi, rossi o verdi: «O mi autorizzate a far così, altrimenti ritorno al mio mestiere!».

Qualche tempo fa raccontai agli amici che incontrai “un galeotto” che aveva scontato la sua pena e s’era fortunatamente trovato un lavoro dignitoso e forse, vivendo da mane a sera tra le tombe, aveva compreso il vero senso del vivere: in una parola s’era redento. Sennonché lo Stato aveva scoperto che gli mancavano ancora da scontare venti giorni di galera e non ci sono stati santi a evitarglieli: “la giustizia deve fare il suo corso”, come affermano i forcaioli Di Pietro e Bossi! E’ andato in carcere, lo Stato ha speso almeno cinquemila euro per mantenerlo ed è uscito, fortunatamente, senza rancore.

Ora, nel tempo libero dal lavoro, fa il volontario al “don Vecchi”. Termina all’una, mangia un panino in piedi e poi porta carrelli di vestiti da un magazzino all’altro del “don Vecchi”.

Qualche giorno fa l’incontrai durante il tempo del suo doppio lavoro, mi sorrise con tenerezza ed affetto, quasi a dirmi “non sono quel mostro che la giustizia mi reputa”. Allontanandomi pensai che più di un secolo fa Victor Hugo aveva insegnato questo ne “I miserabili”. La nostra società, purtroppo, rimane sempre più ottusa ed incapace di credere nell’uomo.

“Il galeotto”

“Il galeotto” di cui ho parlato un paio di volte sul mio diario, l’ho finalmente rivisto al lavoro dopo una ventina di giorni di assenza. Riassumo questa storia per chi non avesse letto tutti i numeri de “L’incontro” o non avesse, come me, una buona memoria.

Due, tre mesi fa, uno di quei lavoratori che tutti una volta chiamavano becchini, ma che ora si chiamano operatori cimiteriali, m’aveva chiesto il testo delle preghiere che io ho posto accanto alla Madonna, a Papa Giovanni, a Madre Teresa di Calcutta, san Francesco, Padre Pio, a Papa Vojtyla, a sant’Antonio o Papa Luciani per aiutare i fedeli a pregare e per sintonizzarli sul messaggio che questi testimoni di Gesù ci hanno lasciato.

La richiesta mi ha colpito perché la trentina di operai che lavorano nel nostro camposanto, sono dei cari ragazzi con cui ho una rapporto amichevole ed affettuoso, ma non mi capita di frequente di vederli fare la “visitina a Gesù”.

Già avevo osservato questo nuovo operatore perché quest’estate avevo notato i numerosi tatuaggi (oggi questi arabeschi sulla pelle vanno di moda, ma io sono rimasto al tempo in cui i tatuaggi se li facevano solamente i galeotti in carcere).

Questo operatore pian piano mi raccontò la sua storia, una storia non edificante che gli ha fatto trascorrere parecchie stagioni nelle patrie galere. Mi raccontò pure che aveva voltato le spalle al passato, che aveva intrapreso una nuova strada. La giustizia però, facendo i conti, si era accorta che aveva ancora venti giorni da pagare e, nonostante “la conversione”, il lavoro e la buona volontà, l’ha rimesso dentro, spendendo invano altri cinque-seimila euro!

Fortunatamente quest’uomo è stato più bravo dello Stato e mi ha proposto: «Don Armando, dopo il lavoro, che termino all’una, verrei volentieri a far volontariato da Lei».

A sentir questo mi viene da pensare che sarebbe giusto che fosse “lo Stato” a scontare almeno quaranta giorni nelle sue carceri per la sua insipienza che non capisce ancora che l’importante è “la conversione” e non la vendetta!

Il buon Dio continua ancora a far bene il suo mestiere

Confesso che io debbo ai radicali l’interesse per il problema delle carceri. La passione civile di Pannella, della Bonino e di quel piccolo drappello di loro seguaci hanno il merito di sottolineare in assoluto l’assurdità del carcere e, relativamente all’Italia, la barbarie di sovraffollare le celle con quasi il doppio di detenuti che erano destinati ad ospitare.

Quando penso ai radicali, che per tanti altri motivi rifiuto per via del loro esasperato anticlericalismo, concludo che stanno battendo una strada abbastanza praticabile per giungere al Regno dei Cieli, anche se non vengono a messa la domenica e detestano i preti, ma soprattutto il Vaticano.

Credo che in Paradiso ne vedremo veramente delle belle! Io e moltissimi altri colleghi, e i vescovi in particolare, siamo angosciati per il fenomeno della secolarizzazione, per l’abbandono della pratica della religione, per le convivenze e i matrimoni civili, mentre il buon Dio pare impegnatissimo ad aprire strade nuove che portano al Regno.

Per rimanere nel campo dei radicali, non volete che il buon Dio accolga in Paradiso Pannella e il suo seguito con tutti i digiuni quaresimali, con il loro diuturno ed appassionato impegno per la certezza del diritto, per la legalità, per l’umanizzare le carceri, per redimere l’individuo, per la libertà di coscienza e perfino per la libertà religiosa?

Ho l’impressione che, una volta ancora, noi cristiani del terzo millennio ci comportiamo come Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che dicono a Gesù: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo!». Non capivano che non si insegna a Dio ma si va a scuola da Lui per imparare e prender ordini. Noi fedeli, nonostante siano passati duemila anni, continuiamo a fare gli stessi sbagli. Non ci accorgiamo che Dio è Dio, che al Signore non c’è da insegnare, che a Dio interessano i fatti e non le chiacchiere al vento, ma soprattutto che Dio sa fare il suo mestiere, non discrimina le persone, non si lascia condizionare dalle tradizioni, che rimane comunque padre di tutti, che accetta il prodigo pentito e rifiuta il perbenismo dell’egoismo del figlio maggiore.

Quando comincio a guardare la realtà confusa ed aggrovigliata di questo povero mondo, non è che mi venga la tentazione di abbandonare il grande patrimonio ideale che la tradizione cristiana mi ha trasmesso, ma mi incanto nello scoprire con quanta agilità, disinvoltura e fantasia Dio apre nuove strade di salvezza e mi meraviglia e mi confonde come i “lontani” le imbocchino con decisione e con passi da gigante.

Qualche addetto ai lavori afferma con preoccupazione che questa è una “religione civile”, mentre io sono propenso a credere che questa è: vita, provvidenza e salvezza.

Detto questo non ho ancora messo nel messalino il “santino” con il volto di Pannella, però non lo penso neanche infilzato nel forcone di Lucifero! E mi ricordo ancora una volta del detto del ramo che cade con fragore mentre però l’intera foresta cresce in silenzio.

Vittorio, maestro del colore

Esiste a Mestre un’associazione piuttosto numerosa e assai efficiente: “Gli amici dell’arte”. Io non sono iscritto ufficialmente ma ne condivido l’interesse.

Nella mia attività pastorale di un tempo c’era un posto abbastanza di rilievo anche per l’arte. Ricordo con gioia e soddisfazione le quattrocento “personali” fatte presso la galleria parrocchiale “La cella”, le numerose biennali d’arte sacra, le opere esposte nelle strutture parrocchiali che costituiscono in assoluto la più grande galleria d’arte moderna della nostra città. Ma soprattutto il grande “giro” di artisti che hanno colloquiato con la nostra comunità.

Dante afferma che la natura è la “figlia” di Dio e che l’arte ne è la “nipote”. Sono convinto che una comunità cristiana non possa e non debba trascurare questa realtà perché è di certo una strada, magari un po’ sconosciuta, che porta a Dio, indipendentemente dal fatto che i cittadini siano coscienti o meno di questo percorso. Se l’arte non facesse altro, allontana le persone dal brutto, dal banale e dal volgare che spesso trovano posto anche negli edifici parrocchiali e perfino nelle chiese.

La mia vecchia parrocchia aveva, fortunatamente, delle belle personalità di artisti: da Bepi Pavan ad Aldo Bovo, da Toni Fontanella ad Archiutti, da Piero Barbieri a Vittorio Felisati ed altri ancora, senza contare l’indotto che essi richiamavano.

Sono tanto riconoscente a questi protagonisti della vita artistica che, coscientemente o meno, hanno educato al bello e quindi al culto di Dio, almeno un paio di generazioni di parrocchiani.

Ritorno su questo argomento, su cui mi sono soffermato altre volte, perché quest’anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Felisati, il vecchio pittore di via Goldoni che morì improvvisamente mentre stava ritoccando il mio ritratto che voleva regalarmi per l’uscita dalla parrocchia. Come ricordo con nostalgia le lunghe chiacchierate, quando mi presentava l’immenso deposito dei suoi dipinti. Ricordo come brillavano i suoi occhi quando mi diceva, con entusiasmo e quasi con voluttà: «Don Armando, io amo il colore!».

Davvero Felisati aveva una tavolozza di colori forti, con i quali esaltava la bellezza dei suoi paesaggi preferiti: Asolo, il Brenta, le vecchie strade di Carpenedo, Burano, Torcello, Monfumo, ecc.

Il Comune ha organizzato una mostra al Candiani per questo concittadino innamorato dell’arte, ma anch’io voglio offrire un piccolo apporto in onore di questo “maestro del colore”. Il figlio di Felisati mi ha dato una ventina di opere di suo padre, io ho cercato delle cornici che esaltino quanto mai questa festa di colori. Son certo che non c’è stata né ci sarà mostra in cui apparirà il colore nel suo fulgore come nella galleria “San Valentino”, quando a fine giugno, organizzeremo una personale per Vittorio.

Vittorio Felisati ci ha fatto un dono che quasi ci costringe ad accorgerci della bellezza del Creato, segno della gloria ineffabile di Dio.

Ci sono ancora campioni

Non sto qui a ripetere una vecchia storia che per me è stata una bella avventura, ma che al “mio mondo” può non interessare o essere addirittura noiosa. La riassumo brevemente.

Essendo venuto a conoscenza che presso l’ospedale oncologico di Aviano della gente volonterosa aveva aperto una foresteria per accogliere i parenti degli ammalati provenienti da lontano e sapendo che tantissime persone salivano dal sud più profondo per cure presso l’oculistica di Mestre – allora c’era il primario Rama, che rappresentava una delle eccellenze in questo settore – tentai di ripetere l’iniziativa anche a Mestre. Acquistai un appartamento presso l’ospedale, lo suddivisi in sei stanzette, tanto da ricavarne 10 posti letto, aggiunsi un bagno, cercai una direttrice e lo chiamai “Foyer San benedetto” in memoria della proverbiale virtù dell’ospitalità dei seguaci di san Benedetto da Norcia.

All’inizio la conduzione risultò alquanto tormentata perché, pur essendoci a Mestre duecentomila battezzati che ritengono di essere discepoli di Gesù, è difficile trovarne anche uno, o una sola, disposta a diventare “padre e madre di famiglia”, capace di aprire la porta di casa all’ultimo naufrago della vita e condividere la propria dimora con un’altra decina di persone sconosciute che cambiano più volte la settimana.

Fui fortunato come sempre. Dopo i primi infortuni arrivò la Cleofe, vedova da poco, mingherlina e fragile, ma dal polso fermo come un ufficiale prussiano. Quindi, andata in pensione per vecchiaia, arrivò la Maria, una carissima donna dal volto sorridente e dal cuore d’oro, che non solo condusse avanti in maniera splendida il Foyer per anni, ma si preparò perfino chi le succedesse (forse nell’inconscio intuì che il Signore l’avrebbe chiamata presto in cielo, infatti fu così).

Ora c’è Teresa, una maestrina del sud che ha raccolto l’eredità di Maria come un tesoro autentico. Teresa è una ragazza che sa veramente far miracoli. Ogni volta che il mare agitato della nostra società abbandona sul bagnasciuga un “relitto” che mi capita di raccogliere, ricorro a lei, che riesce a trovare sempre una soluzione.

Qualche giorno fa mi è stato riferito che non avendo posto, concesse il suo letto all’ospite e lei ha dormito in una brandina da campo. Il giorno dopo, essendo occupato anche il letto di fortuna, ha chiesto ad un’amica di ospitarla, per non rifiutare l’ultima venuta.

Quando seppi, mi ricordai di Giacobbe che ottenne la salvezza della città facendo presente a Dio che in quella città c’erano ancora 10 giusti.

Finché a Mestre ci saranno ragazze del genere credo che, nonostante tutto, Dio avrà pietà di noi.

“Le perle preziose”

Sto leggendo un volume, appena uscito per i caratteri della Mondadori, dal titolo fascinoso ed enigmatico: “Colti dallo stupore” del compianto cardinale Carlo Maria Martini. Credo si tratti dell’ultima fatica del vescovo di Milano, perché negli ultimi mesi il Parkinson andava di giorno in giorno ad impedire al suo pensiero, ancora lucido, di farsi voce. L’editore infatti annota nelle ultime pagine, contenenti le sue omelie, che esse sono più brevi ed essenziali perché egli non riusciva ormai più ad esprimersi.

Il volume contiene 174 omelie, ossia i commenti al Vangelo festivo che vanno dal 3 agosto 2008 al 4 aprile 2010. Le prediche di Martini sono assai brevi, da una facciata di pagina ad un massimo di due e risentono delle ricerche di riferimento biblico, come è comprensibile dato il suo “mestiere” amato ed esercitato per una vita intera – ossia quella di uno studioso e docente di biblica.

Dalla lettura, fin dalle prime pagine, si avverte che il cardinale aveva una conoscenza profonda della Sacra Scrittura per cui ci si accorge di quanto si muova a suo agio facendo citazioni e confronti con una puntualità ed un rigore assoluto.

Queste prediche mi hanno dato la sensazione che ci sia tanto poco del suo pensiero personale, ma che egli si limiti quasi ad accostare i singoli passi della Sacra Scrittura in maniera da far emergere più nitida e precisa la Parola di Dio. Inoltre m’è parso di cogliere che per il cardinale l’unica cosa importante e necessaria non sia tanto l’attualizzazione o il commento dei passi evangelici, né tanto meno che il pensiero del Signore sia in linea con l’opinione pubblica e la cultura corrente, ma che esso risulti nitido e sicuro.

Per il cardinale vale solamente ciò che dice il Signore perché quello solo è vero, giusto e valido. Egli si limita a mettere una cornice essenziale e per nulla vistosa alla “Parola del Signore”.

La lettura di Martini mi ha colpito così profondamente, tanto che domenica scorsa ho impostato il mio sermone tentando di imitarlo, ossia mettendo in luce che le perle preziose e di grande valore sono le parole di Dio e non le nostre.

Ho estrapolato le frasi clou della pagina evangelica, mettendoci una cornice umile, così da esaltare tutto il loro splendore. Di certo non sono risultato un “orafo” esperto come il cardinale, m’è parso però che l’assemblea dei fedeli abbia ascoltato e reagito in maniera quanto mai positiva a questa impostazione.

Il commerciante benefico

La segretaria di un noto commerciante di Mestre mi ha telefonato per informarmi della morte del suo titolare. A pochi minuti di distanza un’agenzia di pompe funebri mi confermò la notizia e mi chiese di fissare giorno e ora per il commiato. Queste tristi notizie sono frequenti per me e per tutti perché nella nostra città ogni giorno se ne vanno, più o meno silenziosamente, una dozzina di concittadini per raggiungere la “casa del Padre”.

La notizia di oggi però ha per me connotati ed impatto un po’ diversi dal solito. Questo commerciante lo conoscevo indirettamente da molti anni perché i miei collaboratori nel settore della carità me lo avevano segnalato per la sua particolare generosità ed anche quando si è ritirato dal commercio aveva talmente insegnato ai suoi dipendenti il valore della solidarietà che chi gli successe nella sua azienda continuò ad essere generoso.

Lo conobbi invece di persona circa un paio di anni fa. Egli infatti mi invitò a casa sua, si informò delle mie attività a favore dei vecchi e dei poveri, mi chiese la ragione sociale della struttura con cui opero e poi si lasciò andare ad un discorso del tutto confidenziale. Mi disse che ormai era vecchio, assai acciaccato e sentiva che la fine doveva essere prossima, così aveva deciso di destinare il suo patrimonio in maniera lucida. Continuò dicendo che ammirava il mio impegno solidale e che aveva pensato di destinare il suo appartamento per le opere in cui sono impegnato, perché questo servizio verso i poveri potesse continuare a svilupparsi. Gli lasciai i dati della Fondazione Carpinetum e uscii dalla sua casa edificato da tanta lucida saggezza e generosità.

Non ci sentimmo mai più, solamente oggi mi giunge la notizia della sua morte pressoché improvvisa. Non so se abbia dato corso ai suoi propositi nei riguardi della Fondazione, so invece che più volte ha beneficato l’Avapo, in cui pure aveva fiducia e di cui ammirava la giovane ed intelligente presidente.

Comunque vadano le cose, la testimonianza discreta ed appartata di questo concittadino generoso è per me motivo di consolazione e di stimolo a ben pensare.

P.S. Ha destinato il suo appartamento alla Fondazione.

Il pensiero del cardinal Martini

Del cardinal Martini ho letto parecchie cose, ma confesso che non avevo colto il filo conduttore del suo pensiero, le sue convinzioni profonde le tesi di certo non eterodosse, ma non sempre condivise dalla Chiesa ufficiale. In occasione della sua morte è venuto a galla un mondo sommerso che mi era rimasto sconosciuto e che ho colto con tanta gioia interiore.

La stampa cattolica ha inquadrato questa splendida figura di studioso e di pastore evidenziandone lo stile, le doti, la ricchezza interiore. L’ha fatto con ammirazione ed entusiasmo, cosa che mi ha edificato e reso orgoglioso che pure la Chiesa del nostro tempo continui ad esprimere figure così belle di testimoni e di profeti. Confesso però che il cardinal Martini, visto “da sinistra” mi è piaciuto e mi ha fatto del bene ancor di più.

E’ vero che se da un lato il mondo cattolico ufficiale gli ha creato un bel monumento che ha coperto un po’ tutte le sue divergenze sotto la lapide tombale del bene della Chiesa, quello laico ha accentuato gli aspetti più critici del pensiero e del messaggio del presule ambrosiano. Forse li ha accentuati fin troppo e ha visto solo quelli; ma pur essi c’erano! Ad esempio mi fa bene quella frase con cui Martini dice che la nostra Chiesa è indietro di almeno duecento anni sullo sviluppo del mondo.

Questa critica per me è un dono, è affermazione stimolante per cercare, per buttar ponti, per dialogare con l’uomo di oggi, per guardare avanti. Oppure quest’altra affermazione:

“Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”.

Mi pare sacrosanto questo invito alla libertà della mente che ha fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e ha inquietato ancora oggi il potere ecclesiastico.

Infine scelgo un’altra affermazione che ha sapore di “lievito di sale” di tipo evangelico:

“Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti^ È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II, è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo.

Credo che soltanto accostando i giudizi e le valutazioni di “casa nostra” con quello del “mondo laico” si possa avere una visione equilibrata e reale di questo profeta del nostro tempo. Guai però tacerne per opportunismo o per faziosità una di queste componenti.

I miei Padri spirituali di carta stampata

Di primo mattino, mentre mi sto preparando per il nuovo giorno, la Rai trasmette una rubrichetta nella quale un giornalista intervista il sindaco di un piccolo paese d’Italia che si sta impegnando in una iniziativa particolare che merita di essere conosciuta da tutti i concittadini. Mentre mi faccio la barba ascolto con qualche curiosità su come “gira questo mondo”.

Questa mattina mi si sono drizzate le orecchie sentendo che invece del sindaco l’intervista era rivolta ad un parroco di un piccolo paese del Friuli di cui qualche mese fa ho letto un volume, “Fuori dal tempio”. Siccome dalla lettura ho capito quanto intelligente e quanto questo prete si prendesse a cuore in maniera appassionata le problematiche della Chiesa e della società, ho ascoltato con estremo interesse l’intervista.

In sostanza questo sacerdote, che si rifà al messaggio di Padre Balducci, morto vent’anni fa, ha aperto una casa di accoglienza per rifugiati politici di ogni Paese e ora organizza un convegno internazionale su Padre Balducci per incorniciare la sua testimonianza e il suo messaggio che egli ritiene attuale e quasi profetico.

Padre Balducci è il prete scolopio, pure a me caro, perché libero, di pensiero, critico nei riguardi degli apparati, in dialogo con la società e teso a scrutare il futuro. Diresse la rivista “Testimonianze”, rivista che ha avuto un ruolo importante nel mio pensiero, a cui sono stato abbonato e che ho letto fin dal suo inizio.

Padre Balducci è anche per me un testimone e un profeta del nostro tempo che, pur divergendo spesso dal pensiero ufficiale della Chiesa, amò e la servì offrendole il suo contributo intelligente.

In questa occasione ho avuto modo di ricordare con riconoscenza le riviste che sono state determinanti nella mia formazione: da “Adesso” di don Mazzolari a “Testimonianze” di Padre Balducci, dal “Gallo” di Genova al “Nostro tempo” di Torino, dal “Molino” di Bologna a “La rocca” di Assisi. Una volta ancora ho capito quanto debbo a questi miei maestri e padri dello spirito. Cosicché sento il dovere di consigliare i miei amici di scegliere dei periodici che esprimano ricerca, che non si accodino al pensiero dominante, che abbiano il coraggio di andare controcorrente e amare la Chiesa anche denunciando i suoi limiti, le sue contraddizioni e le sue lentezze.

Don Didimo

Da poco è uscito ed ho letto il diario di don Didimo Montiero, il prete vicentino del secolo scorso che, dopo una girandola di parrocchie come cappellano, finì la sua “carriera ecclesiastica” come parroco di Bassano, ove divenne celebre per aver fondato “Il Comune dei giovani”.

Ho letto d’un fiato il diario di questo collega molto buono, un po’ ingenuo ma soprattutto pio ed amante della gioventù. Questa lettura di una vita pulita, fresca, piena di entusiasmo e di fede m’ha fatto bene, tanto che mi riaffiora sovente la sua immagine, come m’ha colpito la meschinità e la pochezza della “piccola gerarchia ecclesiastica” ottusa, arrogante ed invidiosa che a quel tempo era ben presente nel nostro territorio.

Questa storia di prete si abbina ad un’altra storia di un prete friulano del nostro tempio, don Piazza, che ha scritto un altro splendido volume “Fuori dal tempo”. Due preti tanto diversi, forse diametralmente diversi, ma ambedue veri preti. Quanto il primo era ingenuo, remissivo, dottrinalmente allineato, altrettanto il secondo è lucido, critico, problematico, sensibile alle tematiche religiose e civili del nostro tempo ed un pizzico contestatore, ma soprattutto espressione di una religiosità nuova e d’avanguardia,

Un tempo avevo letto molto sui preti, perché fino a quaranta, cinquant’anni fa essi interessavano l’opinione pubblica, poi il prete scomparve di scena. Ora mi fa piacere di aver incontrato queste due figure di certo minori, ma belle e capaci di far pensare.

Sommersi e salvati

Tra i fedeli con i quali prego ogni domenica, c’è un magistrato che mi onora della sua amicizia e che spesso mi dona un film, un CD di musica sinfonica e, più spesso, qualche volume. Questo mio caro amico ha fiuto nello scegliere le sue letture e si rende pure conto di quello che mi interessa.

L’ultimo volume donatomi è “Sommersi e salvati” di Primo Levi, uno dei pochi ebrei che fisicamente è uscito dal lager di Auschwitz, ma la cui tragica esperienza non gli risparmiò la vita; infatti Levi è morto suicida sotto il peso insopportabile di questa sua tragica esperienza.

Di Primo Levi avevo letto, in proprio, “Se questo è un uomo!”, una lettura che mi ha segnato per la vita, facendomi scoprire gli abissi dell'”homo, homini lupus”, l’uomo capace di sbranare l’altro uomo. Il volume mi portò davanti agli occhi, alla mente e al cuore, la brutalità di certi elementi del popolo tedesco traviati da un uomo pazzo e sanguinario. Poi lo stesso magistrato mi regalò “La tregua”, in cui Levi narra del suo ritorno fortunoso tra la ragnatela di una burocrazia insensata ed assurda.

Infine mi ha regalato quest’ultimo, “Sommersi e salvati”, volume in cui Levi si lascia andare solo marginalmente al racconto, mentre fa un’analisi lucida e spietata dei comportamenti umani. In questo volume veramente sublime questo ebreo torinese mostra una intelligenza, un intuito ed una capacità di analisi insuperabili.

Ho letto il libro d’un fiato, ma dovrei rileggerlo mille volte per recuperarne tutta la sapienza.

San Paolo fu rapito al terzo cielo e quando mise i piedi per terra disse: «Ho visto cose che occhio umano non ha mai visto e sentito cose che orecchio umano non ha mai sentito». A me è capitata la stessa cosa a proposito del negativo dell’umanità. Di questa lettura dovrei dire mille cose; non ne dico alcuna perché mi è pressoché impossibile e perché spero che ai miei amici venga voglia di leggerlo. Voglio solamente confidarvi la conclusione, a livello emotivo e razionale, a cui la lettura del volume mi ha fatto giungere: “Hitler è stato una bestia feroce impazzita, ma i suoi seguaci, nella loro globalità, non furono da meno. E oggi i tedeschi della Merkel purtroppo fanno gli arroganti per la loro forza economica. Essi sono i figli di chi si è prestato ad eliminare milioni di ebrei, minorati fisici, zingari, dissidenti politici e nemici della mania della superiorità.

Un Papa mancato ed un cristiano realizzato

Proprio un paio di giorni fa ho scritto della mia profonda ammirazione per il cardinal Martini che “da ricco che era s’è fatto povero”. E confessavo che l’odierna sua “povertà” mi convinceva molto di più di quando si presentava in tutta la sua imponenza di Cardinale di Santa Romana Chiesa e di successore di sant’Ambrogio, l’arcivescovo della diocesi più grande e importante d’Italia.

Non ho ancora finito di leggere il suo ultimo volume, scritto mentre il Parkinson gli stava rubando la parola e la vita. Ho udito però alla televisione la morte di questo vecchio vescovo che ha continuato a lavorare fino all’ultimo e ho ripreso in mano il volume “Qualcosa in cui credere” cercando la data in cui fu scritto. Non l’ho trovata, comunque non credo che di Martini sia uscito nulla di più recente.

Ho riletto con tenerezza e commozione la frase scritta in copertina, in cui egli denuncia non solamente la sua fragilità fisica, ma pure la sua fragilità spirituale. Al grande cardinale sembrava che venissero meno le certezze proclamate con enfasi dalla cattedra prestigiosa di Sant’Ambrogio, per vestirsi dei dubbi, delle perplessità e della fragilità spirituale degli uomini del nostro tempo. La sua ricerca dimessa è la confessione di cercare di trovare un terreno ancora solido su cui mettere i piedi della sua vita.

Questo cardinale che ha messo nell’armadio la porpora per vestirsi della veste povera della fede del cristiano di oggi, lo sento vero, lo sento un povero come me, che offre e chiede a sua volta il braccio per non cadere e per continuare il cammino fino alla fine.

La stampa s’è buttata a capofitto e per qualche giorno guazzerà dentro la vita e la testimonianza di questo uomo di Dio. Ho letto che Martini è stato perfino “un Papa mancato”. Di queste cose non me ne intendo e non mi interessano, però posso dire che per me è stato un cristiano felicemente incontrato.

Il Patriarca Luciani

Rai tre in questo ultimo tempo ha offerto degli ottimi servizi sugli avvenimenti principali della seconda metà del secolo scorso. Ho seguito con interesse quei documentari perché gli avvenimenti descritti li ho vissuti in prima persona anche se dal “loggione”, o guardando per il buco della chiave.

Queste ricostruzioni storiche mi hanno offerto dei tasselli interessanti, che io non avevo colto perché offerti dalla stampa che quasi sempre legge gli avvenimenti da un punto di vista interessato. Ad esempio io non avevo colto fino in fondo il fatto che la IOR, banca vaticana, ha venduto a Calvi, tramite la mediazione di Sindona, su ordine di Marcinkus, la Banca Cattolica, quel gioiello di famiglia dei cattolici veneti che essi avevano costruito con tanti sacrifici.

Aldo Nicolussi, il mio vincenziano direttore di suddetta Banca, non lasciava passare occasione per condannare i vescovi del Veneto per aver ceduto anche “quella perla di gran valore!”. Ora però, che ho capito come il nostro Patriarca Luciani ha dovuto amaramente subire “l’esproprio” di questo ente da parte del Vaticano, ancora una volta mi sento portato a rivendicare l’autonomia di scelte e di giudizio da parte delle Chiese locali, che non dovranno ridursi a pedine in mano di poteri occulti che tramano da lontano. Credo che anche a questo livello il concetto di corresponsabilità dei fedeli col loro vescovo e di apporto critico, vada ripensato, ma soprattutto valorizzato.

Il diacono del deserto

Un concittadino che oramai da trent’anni lavorava in un deserto del Medio Oriente, è ritornato in aereo qualche giorno fa, per trovare adeguato commiato e sepoltura in terra cristiana. L’ha accompagnato nella mia umile chiesa, perché gli si concedesse “il biglietto d’entrata in Paradiso”, un suo collega di lavoro a cui, pur lavorando come tutti gli altri, era stata affidata la cura spirituale della piccola comunità di cristiani in quel lontano mondo contrassegnato dalla mezza luna di Maometto.

In attesa dell’orario per la messa, mi parlò della sua pastorale. Ogni sera recita del rosario, ogni mese ritiro spirituale e, quando un prete indiano aveva la possibilità di passare di là, Santa Messa per tutti. Rimasi edificato da questo cristiano così convinto e così entusiasta della sua missione.

Al funerale non c’era molta gente: il figlio ed alcuni funzionari della Montedison. Il diacono lesse le letture e animò la messa con alcuni canti, intonati “alla Pavarotti”. Eravamo in pochi, però questo servo del Signore non solo riempì la chiesa come ci fosse il coro della Fenice, ma di certo raggiunse con la sua voce e la sua fede il trono di Dio.

Il Papa di montagna

Qualche settimana fa il primo canale della Rai ha messo in onda una fiction su Papa Luciani. Come sempre accade questo tipo di trasmissioni non raggiunge quasi mai un alto livello artistico; per quanto poi riguarda la storia lascia alquanto a desiderare. Queste trasmissioni normalmente non sono di un grado molto superiore ai fumetti.

Di positivo c’è stata la straordinaria rassomiglianza fra Papa Luciani e l’attore che lo impersonava: sia il volto che la parlata si avvicinavano veramente all’originale. C’era poi qualche bella scena girata nell’Agordino e qualche altra a Venezia. Per tutto il resto si avvertiva quanto mai la finzione scenica sia nella narrazione che nella rappresentazione del personaggio.

Quello che avvertiva uno come me, che ha conosciuto da vicino il vecchio Patriarca, era quanto difficile, quasi impossibile, per il cinema riprodurre la realtà. Mentre per lo scritto si può puntualizzare più efficacemente il clima, la sensibilità, lasciando anche spazio alla memoria o alla fantasia di chi rievoca un personaggio, per la macchina da presa questo è estremamente più difficoltoso e il risultato è sempre goffo e poco fedele. Nella fiction poi, in cui si impegnano meno soldi, questo risulta ulteriormente più difficile.

Quello che invece ho colto e che mi pare un dato assolutamente reale, è lo smarrimento, il bisogno di un uomo semplice, onesto ed umile, che in Vaticano, nonostante l’ambiente religioso, appare indifeso e fuori posto in una realtà purtroppo artificiosa, popolata da gente che, tutto sommato, ha una mentalità politica, dove la fede non gioca un ruolo primario.

La morte di Papa Luciani è stata di certo un dono che l’ha liberato da una croce troppo pesante. Credo però che il suo pur rapido passaggio, abbia destato nel cuore dei credenti il desiderio di un Papa di forte semplicità, di autenticità e di coerenza tra messaggio e vita reale.

Questa attesa ed esigenza che Papa Luciani ha fatto emergere nella coscienza dei cattolici penso sia stato un dono immenso per la Chiesa di Dio.