Tardi, ma in tempo

Ormai sono giunto alle ultime pagine del volume di Andrea Tornelli: “Carlo Maria Martini, il profeta del dialogo”. Confesso che ho scoperto, con enorme piacere e nello stesso tempo con altrettanta amarezza, di non aver conosciuto il cardinale di Milano, questo grande testimone cristiano del nostro tempo, mentre era ancor vivo.

Già scrissi, più di una volta, del sussulto di sorpresa quando ho letto dai giornali alcune espressioni che mi sarei aspettato di cogliere dalle labbra di un prete contestatore o della teologia della liberazione, piuttosto che da un cardinale di Santa Romana Chiesa quale fu il cardinale Martini. Personalità di primo piano nel campo della biblica e vescovo della più numerosa ed importante diocesi d’Europa, scrisse frasi come questa: “La Chiesa è in ritardo sulla società civile almeno di 200 anni”, oppure “Ci sono prelati e vescovi che per motivi di carriera si defilano, non prendono posizione”, o ancora “Solamente nel rispetto della libertà delle coscienze crescono cristiani veri”, o perfino “Il dialogo e il confronto con i non credenti è assolutamente necessario per purificare e rinsaldare la nostra fede”.

Dapprima ebbi il sospetto che queste frasi fossero state estrapolate dal contesto del suo pensiero da parte dei laicisti. Ora però, che ho letto fino in fondo il volume di cui parlavo, che riporta il suo pensiero, piuttosto che la sua vita, sono ben conscio dell’onestà intellettuale, della schiettezza, seppur delicata e rispettosa, di Martini, che seppe prendere posizioni ben decise su problematiche che, a parer suo, hanno bisogno ancora di studio, di riflessione, di rielaborazione. Il cardinal Martini ha sempre detto, magari sommessamente, la sua, sui problemi della fede, della morale, dell’economia, del dialogo interreligioso e dell’attuale cultura.

M’è venuta voglia di scorrere l’indice del volume per riscoprire come egli abbia guardato in faccia tutti i problemi del nostro mondo e della nostra Chiesa, senza mai dimostrarsi un cattedratico onnisciente, ma manifestando con onestà i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi distinguo e perfino le sue non condivisioni del pensiero dominante.

Voi, miei amici, non potete immaginare quanto mi abbia fatto bene, mi abbia donato una sensazione di liberazione e di conforto, venire a sapere che per i miei dubbi, i miei rifiuti e le mie perplessità potevo finalmente non sentirmi un ribelle, un apostata, ma solamente uno che vive la condizione esistenziale da persona onesta.

Il cardinal Martini l’ho conosciuto tardi, ma fortunatamente non troppo.

La preghiera di un “miscredente”

Un magistrato in pensione, in onore della sua cara e calda amicizia, spesso mi passa libri, dischi e films che egli intuisce che mi possono interessare quanto mai. Essendo questo signore ormai in pensione, dopo essere stato presidente per il tribunale dei minori a Venezia e avendo perduto la sua cara consorte un paio di anni fa, si dedica ora alla lettura, alla musica e all’amato sport della bicicletta.

Laureato alla “Cattolica” di Milano, questo magistrato ha acquisito un sottofondo culturale di notevole spessore, che aggiorna costantemente seguendo la produzione letteraria contemporanea che affronta tematiche sociali e religiose, vedendo film di contenuto elevato e, nello stesso tempo, vivendo la vita religiosa con grande semplicità. Io, come con tutti, gli dedico poco tempo, ma egli, con grande discrezione, mi rende partecipe della sua ricerca spirituale.

Qualche settimana fa mi ha passato una bella preghiera, che pubblico in questo numero de “L’Incontro”, e con fare un po’ sornione mi ha chiesto che, dopo averla letta, gli facessi sapere chi io ritenessi ne fosse l’autore. Ho letto con particolare attenzione questa preghiera; notai che non aveva nulla del lagnoso che spesso hanno le preghiere, anzi intuii, specie nel finale, un lieve sapore critico per la religiosità ufficiale e di maniera.

Tentai, pur sapendo che non era credente e che si era suicidato, di attribuirla a Primo Levi, sapendolo un uomo che ha sperimentato tutta la meschinità dell’uomo sadico e prepotente. Sennonché il mio amico, con un altro sorriso sornione, mi disse che l’autore era Voltaire, il pensatore laico del secolo dei lumi. Al che obiettai: «Ma Voltaire non era ateo?». Il magistrato mi chiarì: «No, Voltaire era anticlericale, non ateo!». Capii subito che il pensatore francese ne aveva ben donde per essere anticlericale, dopo il comportamento dell’alto – ma anche del basso – clero dei suoi tempi.

Riflettei a lungo e seriamente su questo argomento, arrivando ad una conclusione quanto mai amara per chiunque, soprattutto per un prete quale sono io: l’anticlericalismo, piuttosto che un segno di areligiosità o di ateismo, credo che lo si debba considerare segno di una ricerca e di un bisogno di una religiosità autentica. Il discorso si farebbe lungo e triste su questo argomento; per ora mi limito a tentare di trarne le conclusioni per quanto mi riguarda.

Dio

Il mio “primo amore” è stata certamente la parrocchia di San Lorenzo, ove ho fatto le mie prime esperienze di giovane prete. Da questo amore, mai spento, nasce la particolare e costante attenzione allo sviluppo religioso di quella comunità in cui ho imparato che il messaggio cristiano ha ancora mille prospettive di sviluppo qualora sia offerto in linea con la sensibilità della gente del nostro tempo.

Seguo le vicende della vita pastorale di San Lorenzo, soprattutto con la lettura del foglio settimanale “La Borromea” spinto dal fatto di esserne stato cofondatore con monsignor Vecchi nel 1968. “La Borromea” fu il primo foglio parrocchiale apparso nella nostra città ed ha tratto origine da un (per me famoso) “pellegrinaggio pastorale” che, attorno a quegli anni, feci con Monsignore in Francia, Paese che a quel tempo era all’avanguardia nel campo della pastorale.

Ebbene dalla “Borromea” appresi qualche tempo fa il progetto che mons. Bonini sta portando avanti con gli studenti universitari della casa studentesca San Michele e quella della parrocchia. Don Fausto ha denominato questo ciclo di incontri giovanili “Cercatori di Dio”, rifacendosi alla famosa caccia all’oro che ebbe luogo in America un paio di secoli fa.

Questo ciclo di incontri, portato avanti con il metodo seminariale, per arrivare ad una conoscenza più approfondita di Dio, mi fece venire in mente un articolo-confessione apparso su “Epoca” un paio di decenni fa, in cui il famoso giornalista Augusto Guerriero, che si firmava sul settimanale con lo pseudonimo di “Ricciardetto”, scriveva allora che aveva cercato Dio appassionatamente, ma non era stato capace di trovarlo.

Il giornalista intitolava il suo articolo “Quesivi et non inveni” (Ho cercato ma non ho trovato). Nel giro di pochi giorni Carlo Carretto, il famoso presidente della Fiac del dopoguerra, che s’è fatto “piccolo fratello di Gesù”, rispose: “Quesivi et inveni!”, discorso di cui ha fatto poi oggetto di un libro. La “corsa all’oro” anche oggi può avere un risultato positivo. Dio si fa trovare anche dagli uomini di oggi, però lo si deve cercare veramente, senza preconcetti, con grande impegno, senza presunzioni e con animo semplice ed aperto.

Sto leggendo un libro del cardinal Ruini su “Dio”, un testo difficile con infinite citazioni dei pensatori più irrequieti del nostro tempo, animi aggrovigliati, irrequieti e sconclusionati. Per quella strada credo che Dio rimanga sconosciuto per sempre.

Con mia grande consolazione ho appreso invece, alcuni anni fa, che il famoso giornalista di “Epoca” era finalmente approdato alla fede ed era morto in pace con Dio, perché aveva continuato a cercarlo con onestà intellettuale.

“Redenta”

La settimana scorsa ho sentito il bisogno di presentare ai miei amici una rivista mensile che porta a conoscenza dell’opinione pubblica la singolare esperienza di suor Elvira, una suora a cui andava troppo stretto il convento “vecchio stampo” e quindi ne uscì per dar vita ad un’esperienza religiosa semplicemente meravigliosa.

Questa suora, sulla sessantina, senza una qualifica specifica, si è buttata a capofitto nella stupenda avventura del recupero dei giovani che si sono abbrutiti ed hanno tentato di evadere da un serio confronto con la realtà della vita, lasciandosi risucchiare dal terribile gorgo della tossicodipendenza o dalle varie devianze che inghiottono una falda tanto larga di giovani di oggi.

Ho parlato del fascino delle foto che ritraggono tanti volti puliti e sorridenti, intenti al lavoro o alla preghiera; mai avrei potuto immaginare che nel loro passato erano come quei gruppuscoli di “rifiuti d’uomo” che purtroppo si incontrano in determinati luoghi della nostra città. Ho pure riferito delle stupende testimonianze di giovani che raccontano le storie della loro redenzione e che ogni mese sono pubblicate nella rivista “Redenzione”.

L’avventura umana di questa suora e le comunità a cui ella è riuscita a dar vita, hanno qualcosa di miracoloso, per nulla confrontabile ai magri risultati che i vari “Sert” (organizzazione statale per il recupero) riescono a fare, che sono anzi spesso fonte di disagio per i cittadini che abitano vicino ai luoghi dove essi si trovano.

Qualche giorno fa al “don Vecchi” mi è capitato di incontrare due “ragazze di suor Elvira” che erano venute ad acquistare dei vestiti per una rappresentazione che avevano deciso di fare nella loro comunità. Erano talmente pulite e belle che pensai subito che fossero due religiose del nuovo ordine fondato da questa suora prodigiosa, ma loro mi dissero che erano due “redente”.

Ho ancora negli occhi quei bei volti sorridenti e puliti. I vestiti non erano alla moda: due sottane piuttosto lunghe e ruvide, però i loro occhi erano belli e pieni di fascino come due perle preziose.

La formula pedagogica che suor Elvira attiva per rigenerare questi poveri ragazzi e ragazze, caduti tanto in basso, è semplicemente carità e preghiera.

Una volta ancora ho capito che la verginità non ha nulla a che fare col nostro corpo, è lo splendore dello spirito che sprigiona dolcezza, soavità, armonia e bellezza.

Mi è amaro il pensiero che troppe donne meravigliose si inaridiscano e si sciupino dentro conventi o in organizzazioni religiose che in realtà non credono alla vita e all’amore.

Nessuno è profeta

Per Capodanno ho ricevuto una lettera, che trascrivo, da parte di un confratello, parroco di una grossa comunità della diocesi di Padova, collega che molto tempo fa, essendo venuto a conoscenza de “L’incontro”, mi ha chiesto il favore di inviarglielo. Questa lettera mi è stata molto di consolazione e di conforto perché credo che non mi sia mai capitato di ricevere un segno di consenso, e meno ancora di complimento, da parte di alcun prete della mia diocesi.

A dir il vero, appena arrivato in diocesi, il cardinale Scola, avendo letto qualche numero del periodico, m’aveva detto che esso era uno strumento quanto mai valido a livello pastorale e mi aveva incoraggiato a continuare. Poi però, dopo “l’incidente” delle vacanze del Papa (quando, avendo appreso dai giornali che queste vacanze avevano un costo – almeno per me – enorme, esorbitante e quindi inaccettabile per un cristiano, avevo manifestato il mio dissenso su “L’incontro”, intervento che la stampa nazionale aveva ripreso dandogli un risalto eccessivo) il vecchio Patriarca non era più tornato sull’argomento del periodico. Mentre c’è stato il silenzio e, talvolta, qualche critica dei colleghi, ho sempre raccolto tanti consensi dai cristiani comuni.

Ora m’è giunta questa lettera che mi conforta facendomi sperare che anche a questo riguardo sia valida l’affermazione evangelica che “nessuno è profeta in casa propria”. Ed ecco la lettera da cui tolgo, per discrezione, ogni elemento di riferimento.

03.01.2013
Carissimo don Armando,
voglio ringraziarla per il dono che mi fa ogni settimana col suo “L’incontro”. La ammiro per la sua parola sincera, libera e carica della passione del Pastore che ama tutti, particolarmente le “pecore” più deboli, come gli anziani. Questo è di stimolo anche per me a dedicarmi con amore e predilezione a questa categoria di persone.
Spero nella sua buona salute e gliela auguro di cuore. Prego con lei e per lei, perché il Signore esaudisca ogni suo desiderio di bene.
Conto sempre sulla sua amicizia, come io le assicuro la mia.

Resurrezione

La comunità “Cenacolo”, che io ho conosciuto tramite una cara volontaria che presta la sua collaborazione presso il Banco alimentare del “don Vecchi”, mi fa pervenire mensilmente la bella rivista “Resurrezione”, che è l’organo di una Onlus che si occupa del recupero dei tossicodipendenti.

Questa comunità è stata fondata da una certa suor Elvira, una religiosa che una ventina di anni fa ha ottenuto il permesso di uscire da una delle tante congregazioni femminili ormai ammuffite e stantie e ne ha fondata un’altra che ha come scopo il recupero dei molti soggetti che sono caduti in una delle tante devianze del nostro tempo, ed in particolare il recupero ad una vita normale dei tossicodipendenti.

Questa suora, in un tempo relativamente breve, ha aperto più di una sessantina di comunità in Italia, in Europa e in tutto il mondo. Lo sviluppo di questo istituto religioso e delle case da esso aperte, ha veramente del miracoloso. Di lei e della sua opera ho parlato più di una volta su “L’incontro” e spesso ho pubblicato delle bellissime testimonianze che la rivista riporta in ogni numero nella rubrica “Testimoni di speranza”. Sono storie raccontate in prima persona da parte di ragazzi entrati in una di queste comunità fondate da suor Elvira e che hanno trovato qui la loro “resurrezione”.

Quando mi arriva la rivista, per prima cosa guardo le foto, poi leggo i titoli, perché sono immagini e parole che sempre sprizzano vita, gioia e ottimismo. Normalmente queste foto che riportano il volto dei “redenti” e delle religiose che si occupano di loro, sono immagini di ragazzi e ragazze che esprimono allegria, ripuliti dalla vita in comunità che ha adottato, come metro per il recupero, la proposta e la vita di un cristianesimo integrale.

Ogni volta che apro la rivista ho la sensazione che il vivere seriamente le proposte del Vangelo di Gesù porti ad essere felici e a servire in letizia chi ha bisogno di un aiuto fraterno. Quando poi comincio a leggere le varie testimonianze, respiro un’aria di entusiasmo, sento come la gente ha ritrovato la strada in una vita serena, aperta e felice, raggiunta attraverso la preghiera.

La rivista “Resurrezione”, che fotografa la vita di queste comunità di recupero dei “rifiuti d’uomo”, è qualcosa che mette ali al cuore e fa capire che il vivere seriamente ciò che Gesù è venuto a insegnarci, è il modo migliore per vivere una vita libera e bella.

Un’ottima “predica”

Qualche giorno fa un mio collega più giovane, – credo pur senza volerlo – m’ha fatto un’ottima “predica”, uno di quei sermoni che fanno pensare e mettono positivamente in crisi. Tutto questo non avviene facilmente, perché sono convinto che noi preti, predicatori di professione, siamo maestri nel trovare interpretazioni e scappatoie per cui “stiamo sempre a galla” e ci salviamo nonostante certe posizioni e certi comportamenti siano manifestamente poco conformi al Vangelo.

Vengo alla vicenda che mi ha portato ad ammirare e ad essere quanto mai toccato dal modo di pensare, ma soprattutto di agire, di questo mio confratello.

Gli anziani residenti al Centro don Vecchi di Campalto, dimorano, come qualcuno di loro ha felicemente affermato, “in una prigione d’oro”, ma sempre di prigione si parla perché a causa del traffico forsennato di via Orlanda, a mala pena e con pericolo possono muoversi solamente usando l’autobus; muoversi a piedi o in bicicletta sarebbe un suicidio certo.

Preoccupato anche per l’aspetto religioso, ho fatto due tentativi con due vecchi preti, però per motivi diversi sono andati male. Per grazia di Dio si è praticamente offerto un giovane prete della zona. Io, come comunemente si usa, gli avevo fatto avere una busta con l’offerta, che però egli ha respinto. Per Natale cercai di superare l’ostacolo facendogli avere “il panettone con un’offerta per la sua parrocchia”. Ma questo sacerdote, con una lettera quanto mai nobile ed edificante, mi rimandò l’offerta con queste parole che mi costringono ad una seria verifica personale. Spero di non essere indiscreto pubblicando il motivo del suo rifiuto, ma lo faccio solamente perché penso sia bene che i concittadini sappiano che ci sono anche dei preti di tale rigore, coerenza e delicatezza di coscienza.

Rev. Don Armando,
ho gradito il suo pensiero di riconoscenza, che un suo collaboratore mi ha consegnato la sera di Natale, ma ritorno indietro la somma che lo accompagnava. Non voglio essere scortese nei suoi confronti, e non metto assolutamente in dubbio le sue intenzioni, tuttavia io voglio essere fedele ad un principio che mi sono dato, quello cioè, per quanto è possibile, di fare qualsiasi servizio religioso, senza che esso sia “adombrato” da motivi economici, sia che figurino come offerta – compenso al celebrante o alla parrocchia o ai poveri o a qualsiasi altro scopo. Non entro qui nel discorso, che sarebbe lungo e complesso fare, sulla gestione economica delle parrocchie e sul sostentamento del clero. Sono sicuro che capirà questo mio desiderio.
Mi creda, quel grazie sorridente che gli anziani del Centro mi rivolgono alla fine della Messa, è per me più che sufficiente. A ben pensarci sono io che la devo ringraziare per l’occasione che mi ha dato.

Cordialmente,
29.12.12
(lettera firmata)

Un discorso del genere non può e non deve lasciarmi indifferente. Io finora mi sono comportato nella stessa maniera ogni volta che altri sacerdoti mi hanno chiesto qualche servizio religioso, né mai ho chiesto ai fedeli un centesimo per messe, funerali o matrimoni, però ho sempre accettato e accetto ancora ogni offerta che spontaneamente mi si dà in occasioni del genere, destinandola però interamente alle opere di carità.

Da queste offerte sono nati i Centri don Vecchi ed altre strutture di carità. Ripeto però che mi fa un immenso piacere e mi ha edificato quanto mai il discorso e il comportamento di questo mio confratello, offrendomi un’occasione per una verifica seria e rigorosa delle scelte che finora ho fatto.

Il dono di una splendida testimonianza

Una famigliola, che fa parte di quei “miei parrocchiani del don Vecchi” dei quali ho parlato ieri, per Natale mi ha donato un libro che, a differenza di altri volumi, per leggere i quali mi vogliono mesi, ho divorato in un paio di giorni. Ho deciso di parlarne agli amici perché spero che sentano il desiderio di leggerlo anche loro.

Non è frequente scoprire libri che parlino di Dio e della preghiera in maniera sciolta, scorrevole ed avvincente. Normalmente questi libri sono lagnosi, pieni di frasi fatte, di luoghi comuni, ma soprattutto tanto pedanti da far temere che non siano veri. L’editoria cattolica, a cui sono sommamente interessato non come studioso ma come utente che cerca la verità, sta sfornando attualmente dei libri quanto mai interessanti, ma spesso presumono una seria preparazione culturale specialistica; sono rivolti agli addetti ai lavori e perciò usano un linguaggio da esperti e quindi sono difficilmente fruibili dalla gente normale che ha poco tempo e ha soprattutto bisogno di discorsi scorrevoli, avvincenti, che si rifacciano a testimonianze personali e, per di più, che “suonino” veri.

Il volume che mi ha interessato e mi ha fatto molto bene durante il tempo natalizio, è scritto dal figlio di Adriano Celentano, il cantautore “molleggiato” che talvolta si impalca a predicatore destando ammirazione per le sue canzoni e discussione per i suoi predicozzi duri e provocatori.

Celentano, che non ha mai fatto mistero della sua fede, ma che spesso è stato duramente criticato dai cristiani della domenica, ha tre figli, uno dei quali è Giacomo, autore del volume “La luce oltre il buio”. Dalla lettura si avverte che è un “ragazzo” intelligente, con mille interessi.

La genesi del libro deriva dal fatto che l’autore, mentre sta intraprendendo, con un certo successo, la professione di suo padre, è colpito da una forma di improvvisa e gravissima crisi esistenziale che gli blocca la carriera, lo isola dal mondo e lo fa cadere in uno stato di terribile prostrazione.

Celentano junior confessa come recupera la salute e la fede attraverso la preghiera appassionata, rivolta al Signore.

E’ interessante il racconto autobiografico, ma è ancora molto più interessante il suo discorso sulla fede, su Dio, sull’amore e sulla preghiera. Faccio fatica a descrivervi quanto sia forte la convinzione religiosa di questo giovane del nostro tempo, quanto sia bella ed entusiasta la sua testimonianza di fede, di cui parla apertamente, quasi voglia farne dono a tutti.

La lettura di questo volume a me ha fatto più bene delle ultime encicliche papali; penso che farebbe altrettanto bene anche a tutti i miei amici.

I cari “nemici”

Del Cardinale Martini avevo una conoscenza abbastanza approssimativa. Lo conoscevo come biblista famoso e soprattutto per quella sua lettera pastorale alla diocesi di Milano che aveva come titolo “Farsi prossimo” e che è un testo veramente importante per chi, nella Chiesa, avverte il dramma dei poveri, ma non sapevo niente più di questo. Ora che è morto, Martini mi sta diventando più che mai un maestro di vita e soprattutto un testimone autentico di Cristo.

Per Natale amici cari mi hanno regalato una serie di volumi su questo vescovo gesuita, testi che mi stanno aiutando a sentire questo Cardinale come un caro e prezioso compagno di viaggio. Per un paio di anni ho materiale sufficiente a farmi conoscere questo uomo di Chiesa, ma soprattutto di Dio, che è quello che conta. Già ho parlato agli amici di quanto mi hanno fatto bene le sue “confessioni” sul passo lento della nostra Chiesa, sulle sue contraddizioni e sui suoi “peccati”. La “fragilità” spirituale dell’arcivescovo di Milano mi è quanto mai di conforto e mi sta aiutando ad accettare i miei limiti di fede e le mie “riserve” nei riguardi di quella Chiesa che amo e per cui voglio spendere pure i “tempi residui” della mia vita.

Uno degli ultimi volumi ricevuti in dono su Martini è una sua biografia. Oggi ho letto un capitoletto e ho trovato una sua affermazione che è stata per me come un raggio di luce che ha toccato il mio animo. Il cardinale “ringrazia” tutti i razionalisti, da Renan in poi, che hanno dato una lettura umana, oppure critica e scettica, delle Sacre Scritture, perché – dice il cardinale – l’hanno aiutato ad approfondire il suo studio, a documentarsi meglio, ad apprezzare di più il testo sacro.

M’è venuto da pensare: “A che cosa si ridurrebbe la Chiesa senza critici, atei, persecutori?” Già ora la Chiesa italiana, che da più di mezzo secolo tutto sommato ha avuto pochi nemici, anzi troppi privilegi, sta arrischiando di diventare flaccida, fideista, evanescente e confinata negli spazi siderali. Ho capito che i nostri “nemici”, e semmai i nostri persecutori, sono un autentico “dono di Dio” perché ci costringono all’autocritica, ad una revisione di vita, alla purificazione e ad una maggior coerenza.

Oggi quindi ho ringraziato il Signore per i radicali, i socialisti, i liberali, gli atei e l’intera sinistra, perché ho capito che in realtà sono una “benedizione” del Signore. Senza questi “nemici” solo Dio sa che cosa saremmo diventati!

“I santi del giorno”

Ho la sensazione che la linea editoriale della Rai diventi ogni anno sempre più “laica”. Un tempo Rai uno era un patrimonio dei democristiani e Rai tre della sinistra, quale frutto del compromesso storico per offrire un contrappeso ai laici.

Con il crollo delle ideologie tutto si è andato vieppiù sfumando, pur rimanendo nelle reti ancora qualche eccezione. Ad esempio Rai uno mantiene ancora “Porta a porta” con Vespa, decisamente di matrice cattolico-liberale, mentre a Rai tre c’è Santoro, certamente radical-socialista, o “Ballarò” che è guidato da uno che non sa di sacrestia.

A parte però queste rubriche che si muovono soprattutto a livello politico e quelle condotte da non credenti dichiarati, rimane una rubrichetta trasmessa di prima mattina, dal titolo “I santi del giorno”, condotta da un certo monsignor Pellegrino. E’ una rubrichetta di un paio di minuti che questo sacerdote offre con garbo ed intelligenza, che però parla sempre di vecchi santi, a parer mio un po’ fuori corso. La santità espressa dagli uomini di oggi pare che non trovi quasi spazio nella cultura ecclesiale moderna.

Qualche giorno fa, per una strana, forse stravagante associazione di idee, m’è venuto da chiedermi in quale categoria di santi monsignor Pellegrino collocherebbe Marco Pannella, che sta arrischiando la vita per rendere cosciente l’Italia dello sconcio e del degrado delle carceri del nostro Paese. Per me non avrei difficoltà ad inserirlo tra i “confessori” o forse tra i “martiri”. Più laico di Pannella credo non ci possa essere nessuno, né più anticlericale credo si possa trovare. Però credo che in questo tempo di avvento e di Natale sia ben difficile trovare un “cristiano” più coerente. Mi vengono in mente le parole di Gesù: «Non c’è nessuno più amico di chi perde la vita per i fratelli».

Nel medioevo c’è stato perfino un ordine religioso i cui membri si offrivano di sostituirsi ai cristiani in schiavitù. Pannella mi pare che potrebbe oggi chiedere di entrare in questa congregazione religiosa, perché ne avrebbe tutti i titoli.

Faccio fatica a trovare dei cristiani veri che sappiano testimoniare a favore della vera legalità e della dignità dell’uomo. Non sarebbe male perciò scrivere un martirologio laico parallelo a quello della nostra Chiesa.

L’arroganza dei governi

I palestinesi della striscia di Gaza per molti anni han tenuto prigioniero un giovane militare di Israele. So che i ripetuti tentativi per liberarlo, o con un blitz o con uno scambio di prigionieri, non ebbero esito positivo. Non so come la cosa sia andata a finire, però confesso che tante volte ho pensato a questo povero ragazzo che, per motivi che gli erano estranei, perdeva gli anni migliori della sua vita e correva il pericolo di pagare al posto di chi comanda e che, con le sue decisioni, l’ha costretto a prendere in mano il fucile contro altri ragazzi che l’ha costretto a chiamare “nemici”.

Di recente ho letto un’altra storia che s’è svolta al di là del confine di Israele. Un altro ragazzo che credeva nell’uomo e che ha ravvisato negli abitanti della striscia di Gaza il debole, il senza domani, il povero e il senza terra, a sua volta è pure stato giudicato, per motivi che gli erano estranei, “nemico”, e per questo motivo, mai valido a livello umano, è stato trucidato.

Da mesi altri due nostri giovani marò, mandati a difendere le navi dai pirati, sono lontani dalle loro famiglie e dai loro affetti, perché han fatto quello che han detto essere il loro “dovere”.

E’ ben triste che la magistratura e il governo di un grande e nobile Paese, qual’è l’India, non vogliano capire che non devono far pagare ai giovani incapacità o, peggio, la cattiva volontà dei vari governi di trovare soluzioni ai problemi che purtroppo ci sono e ci saranno sempre. Sono i governi che non scelgono il dialogo, il compromesso, ma le armi, le ripicche, che non hanno nulla a che fare col bene dell’umanità.

Ripeto ancora una volta che spesso gli individui si comportano in maniera stolta e disumana, ma i governi, che dovrebbero rappresentare il meglio di un popolo, sono sempre arroganti e spietati e soprattutto sprezzanti della vita e delle lacrime dei più indifesi.

Ritorno

Qualche tempo fa la dottoressa Lina Tavolin, responsabile de “Il Germoglio”, centro polivalente per l’infanzia, mi ha invitato a partecipare alla celebrazione del centenario di quello che un tempo era denominato “L’asilo infantile” della parrocchia di Carpenedo, sito in via Ca’ Rossa.

Su questa “creatura”, che con tanti sacrifici ho tentato di far rifiorire, ho scritto innumerevoli volte sulla stampa parrocchiale. Quello del restauro architettonico, ma soprattutto di quello pedagogico della vecchia ed ormai “sgangherata” scuola materna, è stato un capitolo quanto mai importante e ricco di fascino della mia vita come responsabile di quella comunità cristiana.

In una decina d’anni quella struttura obsoleta ed ancorata ad un cliché superato, è diventata una “scuola d’infanzia” – come si dice oggi – di prim’ordine e certamente ai primi posti nella graduatoria delle scuole materne di Mestre. Anzi penso proprio che le si possa con certezza assegnare la medaglia d’oro.

Da un punto di vista strutturale è stato il piccolo alunno di tempi lontani, Andrea Groppo, ora manager affermato, a fare dei veri miracoli. Mentre l’esterno del fabbricato mantiene l’austero volto dello stile Liberty di inizio novecento, l’interno è diventato quanto di più moderno e funzionale che si possa desiderare.

Per quanto invece riguarda l’aspetto pedagogico e didattico, il cuore, il calore e l’incanto, gliel’ha donato l’allora giovanissima pensionata dottoressa Lina Tavolin.

Lina – così tutti la chiamano -, ha creato un corpo di educatrici quanto mai valido ed affiatato, ed uno stile di vita parascolastico così fresco, sorridente, familiare ed accogliente grazie al quale tutta la struttura sembra un’aiuola fiorita dai volti belli dei piccoli della comunità.

La dottoressa Tavolin, che cinque, sei anni fa era andata in pensione per la seconda volta, è stata richiamata alle armi dal nuovo giovane parroco don Gianni, facendo così rifiorire sia la scuola che se stessa, attraverso una sorprendente rigenerazione.

Quando sono entrato nel mio vecchio asilo per il centenario, m’è venuto da pensare che la dottrina buddista della reincarnazione non sia del tutto sbagliata, vedendo questa fresca realtà nata da una struttura centenaria.

Raramente ho visto tanta vitalità, tanto movimento, tanta efficienza e collaborazione tra la scuola e il tessuto ambientale e sociale di cui è anima ed espressione. Ogni infisso, ogni arredo, ogni stanza che ho rivisto in quella mezz’oretta in cui vi sono rimasto, mi ha ricordato un’avventura che ha avuto anche momenti difficili e perfino drammatici, ma che tutto sommato ha approdato a risultati quanto mai positivi.

Me ne sono tornato a casa più che convinto che il coraggio, la collaborazione, la buona volontà e lo spirito di sacrificio, sono ancora capaci di “far miracoli”, e miracoli quanto mai belli e promettent!

Il costruttore benefico

Qualche giorno fa la direttrice della sede del Banco San Marco di Viale Garibaldi mi ha telefonato annunciandomi che un certo Ernesto Cecchinato aveva versato centomila euro a favore della Fondazione Carpinetum per la costruzione del “don Vecchi 5” per gli anziani in perdita di autonomia.

Di primo acchito non riuscii ad orizzontarmi, poi pensai alla telefonata di un responsabile dell’AVIS di Marghera che, qualche tempo prima, mi aveva chiesto le coordinate bancarie perché un novantenne di Bassano voleva fare un’offerta per il “don Vecchi”. Infine chiesi in banca l’indirizzo del generoso benefattore ed allora, pian piano, capii che si trattava di una cara e vecchia conoscenza: l’ingegner Ernesto Cecchinato.

Conobbi personalmente l’ingegner Cecchinato in un’occasione particolare che mi piace ricordare. Sapevo da sempre che questo professionista mestrino, assieme ad un certo “faccendiere” di Carpenedo, aveva bonificato le cave che soprattutto un altro paesano di Carpenedo, il signor Casarin, aveva scavato per cuocere i mattoni nella sua fornace. Nella periferia di Mestre, in quello che poi fu chiamato viale don Sturzo, si trovavano e si trovano tuttora degli strati di argilla con cui si facevano tegole e mattoni a mano in quantità. L’ingegner Cecchinato progettò e realizzò tutti quei fabbricati del viale che ora ha, ai bordi, due magnifici ed imponenti filari di pini marittimi.

Fu un’operazione terribilmente faticosa ed intricata, per la solita burocrazia comunale che anche attualmente mette i bastoni fra le ruote alla costruzione della Torre Cardin, ma che pure vent’anni fa non era meno ottusa ed ingombrante. Tali e tante furono le complicazioni e gli ostacoli, che questo ingegnere finì per prendersi un grave esaurimento nervoso da cui venne fuori dedicandosi alla pittura.

Otto o nove anni fa l’ingegner Cecchinato si presentò al “don Vecchi” chiedendomi se volevo accettare i suoi dipinti. Si trattava di 150 quadri ad olio, di buona fattura, già incorniciati. Li accettai di buon grado perché sono appassionato di pittura e perché mi dava modo di ornare l’immensa sala dei 300 ove ogni settimana celebro messa per i residenti. In quella occasione l’ingegnere mi regalò pure cinque milioni.

Ora questi paesaggi, come murrine ricche di colore, mi sorridono ogni volta che dico messa. Da sempre questi quadri mi ricordavano il volto buono e caro del concittadino costruttore. Ora quel ricordo si ravviva e si impreziosisce per il rinnovato gesto di fiducia e di solidarietà.

Al “don Vecchi” una targa di bronzo ricorderà per i secoli il munifico benefattore.

Le scarpe del Papa

Ho confessato più volte che io sono un uomo passionale e mi lascio coinvolgere in maniera viscerale dai drammi in cui mi imbatto. Confesso pure che quando leggo testimonianze di uomini del nostro tempo, sento il bisogno profondo – specie quando queste persone sono di notevole spessore umano – di indagare sul loro rapporto con la fede e con la Chiesa.

Oggi ritorno ancora sul discorso che ieri ho appena abbozzato, circa la morte tragica del giovane Vittorio Arrigoni, volontario nella striscia di Gaza. Sua madre, autrice di questa particolare biografia e che si dichiara cattolica praticante, parla dell’infanzia di questo suo figliolo che da bambino aveva fatto il chierichetto e che da adolescente s’era allontanato dalla pratica religiosa anche se lei rimane convinta che, a modo suo, fosse ancora credente.

Dagli scritti di Vittorio a me pare, almeno a livello formale, che non sia così, anche se l’amore materno interpreta certi accenni religiosi come una prova di questa fede sopravvissuta alle scelte e alle tristi esperienze fatte da suo figlio. Comunque sono personalmente convinto che persone come Arrigoni che sognano “il Regno di giustizia e di pace”, abbiano comunque un accesso più facile al Cielo che i fedeli alle messe e ai rosari che però non si sporcano mai le mani per la causa dei poveri, dei derelitti e degli oppressi.

Mi ha colpito una frase, quasi buttata giù per caso: la signora Beretta Arrigoni scrive che il figlio, avendo trovato su un giornale la foto del Papa che indossava scarpette rosse di Prada, la pubblicò accanto ad una immagine di Gesù in croce con i piedi trafitti e quella di un africano a piedi nudi, con la didascalia “Se solo con queste calzature è lecito intraprendere le vie del Signore, quanto sarà improbabile per gli scalzi miseri dell’Africa avere accesso al Paradiso?”

Quello delle scarpe del Papa è certamente un particolare di poco conto, però mi vien da osservare che chi abbraccia il Vangelo deve essere attento anche ai particolari, perché se questi sono divergenti dallo stesso, diventano “scandalo” per chi sogna un mondo veramente nuovo.

A questo riguardo dovrei aprire un discorso serio per una revisione di fondo su tradizioni, pratiche, riti, indumenti, dimore, parole e scelte che sono in manifesta dissonanza con il “manifesto” di Gesù.

La morte di un sognatore a senso unico

Una cara signora che stimo e a cui voglio veramente bene, mi ha regalato il volume “Il viaggio di Vittorio” raccomandandomi di leggerlo presto, anzi meglio subito!

Il volume è stato scritto dalla mamma di un volontario di un piccolo paese della Lombardia che è stato rapito a Gaza e quindi ucciso da non so chi.

Qualche tempo fa avevo letto o sentito alla televisione di questa uccisione avvenuta nella striscia di Gaza, ma non ricordo assolutamente più chi siano stati gli esecutori di questo delitto. Il libro, non ne fa cenno. Comunque la madre di Vittorio – così si chiama il protagonista – sindaco eletto dal P.D. di un paese del bresciano, ricucendo soprattutto le lettere del figlio, parla con amore e condivisione totale delle scelte del figlio il quale, seguendo la splendida utopia della libertà, della democrazia e di quant’altro c’è di nobile, partecipò a varie missioni tramite delle organizzazioni umanitarie nei Paesi più tormentati del mondo più povero e oppresso.

Vittorio perse la sua giovane vita in Palestina, nella striscia di Gaza, avendo egli abbracciato fino in fondo la causa dei palestinesi e dando un giudizio estremamente negativo sugli israeliani.

La tragica vicenda di questo giovane è scritta dalla madre più col suo cuore materno che con la lucida ragione di chi cerca di essere comunque obiettivo.

Confesso che pur ammirando questo giovane generoso, non riesco ad accettare tutte le tesi che l’hanno animato. La signora che mi ha donato il volume è una donna di forte fede comunista che ha vissuto in maniera viscerale il manifesto di questo movimento e credo che viva con una profonda delusione ed amarezza il fallimento di questo sogno che si è miseramente infranto. Immagino che mi abbia donato il volume per mostrarmi l’altra faccia della medaglia della tragedia dei palestinesi e di Gaza in particolare, soprattutto avendo io espresso talvolta la mia simpatia per il popolo ebraico che, tutto sommato, ritengo coraggioso e soprattutto un popolo che lotta disperatamente per poter sopravvivere nonostante sia circondato da Paesi islamici, nemici acerrimi e spietati che apertamente ne vogliono l’annientamento.

Come io posso schierarmi contro gli ebrei avendo letto tutto di Primo Levi? Condivido il sogno di questo ragazzo, che ha seguito un’utopia nobile, condivido pure l’amore di sua madre e la tristezza della mia amica per aver dovuto assistere al fallimento di un sogno condivisibile, però io continuo a sognare e pregare perché questi due popoli vivano in pace nella terra nella quale Gesù ha offerto il messaggio più alto e più risolutivo dei problemi umani.