Don Puglisi

Non so se sia solamente casuale oppure appartenga ad un disegno della Provvidenza, che il funerale di don Gallo sia stato celebrato lo stesso giorno in cui papa Francesco ha portato all’onore degli altari don Pino Puglisi, il prete assassinato dalla mafia perché ha avuto l’ardire di attuare il Vangelo a Palermo.

Don Gallo e don Puglisi, a mio parere, fanno parte ambedue di quella piccola schiera di “preti folli” che hanno tentato di praticare un cristianesimo radicale e da Vangelo, a differenza della gran massa di preti, anche per bene, che però non tentano di uscire dai ranghi per tradurre il messaggio di Gesù, la “buona notizia”, nella realtà cruda del nostro tempo, ma che preferiscono la religiosità quieta che vive nelle sagrestie e celebra i riti cristiani in santa pace, senza scomodare la coscienza di alcuno.

Don Gallo e don Puglisi erano tanto diversi fra loro, hanno operato in ambiti tanto lontani, uno nel nord borghese e benestante, l’altro nel profondo sud povero e sottomesso ad una tradizione di mafia e sopruso; eppure hanno avuto ambedue in comune la radicalità evangelica, il coraggio di andar contro corrente, di osare quello che umanamente sembra per tutti folle ed impossibile.

Ho già parlato della testimonianza ardita ma solitaria di don Gallo, che penso nessuno mai si sarà sognato di nominare monsignore, anzi che è sempre stato guardato con sospetto perché ha abbracciato la causa degli ultimi.

Don Puglisi, pur con una testimonianza ed un taglio di vita da prete in ambito e con modalità diverse, perseguì la stessa utopia di don Gallo. Mi sono tante volte domandato in questi venti anni che ci separano dalla sua morte: “Al tempo in cui visse ed operò nel sud questo parroco e fino ad oggi, quanti sono stati e sono i preti che operano nelle terre desolate dominate dalla mafia? Centinaia, migliaia, forse decine di migliaia! E come mai “l’onorata società” ha trucidato solamente – o quasi – don Pino? Di certo essi erano e sono “buoni preti”, che però hanno poco a che fare con il Vangelo di Gesù, anche se portano titoli di merito e sottane rosse.

Mi viene da gridare a questo nostro amato popolo di Dio, e soprattutto ai miei colleghi preti: “ammiriamoli e siamo almeno orgogliosi dei nostri campioni e dei nostri martiri, anche se noi non riusciamo a far altro che tirare le ciabatte e lustrare i candelieri dell’altare!

Don Gallo

E’ morto don Andrea Gallo, il prete genovese noto in tutta Italia per le sue prese di posizione, per il poco ossequio verso le gerarchie ecclesiastiche, per la sconfinata ammirazione per il cantautore De André e per la sua frequentazione del mondo dei drogati, delle prostitute, dei transessuali, dei centri sociali e della sinistra estrema. Confesso che questa morte, per me non prevista, mi ha sconcertato.

Sono rimasto scosso da questa notizia ferale perché non sapevo che ultimamente don Gallo non stesse bene di salute, ma in cambio sapevo bene che aveva la mia età. Parlare della morte, dire che non si ha paura di morire è abbastanza facile, ma se poi constati che le date dei morti di cui celebri i funerali girano tutte attorno alla tua età, e venendo a sapere della morte non prevista del “collega”, col quale si è stretto un certo rapporto di pensiero, porta un certo sconvolgimento.

Ripeto ancora una volta che avevo sentito parlare di don Gallo una decina di anni fa come un prete della fronda, filocomunista, irrequieto, sbandato da un punto di vista dottrinale, che la gerarchia teneva sott’occhio per le sue stravaganze e per le sue prese di posizione per nulla ortodosse; ma nulla più. Dentro di me non avevo preso posizione essendo arrivato, per esperienza diretta, alla conclusione che l’autorità costituita è purtroppo sempre più preoccupata per chi fa fughe in avanti o tenta di praticare un cristianesimo radicale e da Vangelo, che per chi invece sonnecchia, s’accoda alla massa, pensa ai fatti suoi, è ossequiente all’autorità, per chi non prende posizione su niente, tira a campare e vive una fede in modo estremamente borghese, pago di vedere accese le candele, di controllare che il profumo di incenso sia gradevole e l’acqua santa sia senza germi.

Ho conosciuto invece più da vicino questo vecchio prete un paio di anni fa leggendo una sua strana e particolare autobiografia che m’è stata donata da qualcuno che, non sapendo cosa regalarmi, ha scelto un volume sulla cui copertina c’era il volto di un vecchio prete con un sigaro in bocca e un cappellaccio nero a larghe falde in testa. Conoscere le parole, le scelte, il pensiero e la vita di questo prete, mi ha toccato a fondo, messo in crisi e – perché no? – edificato.

L’amore di don Gallo per gli ultimi, i perduti, i fuori strada, gli abbietti della nostra società, mi ha sorpreso. Le scelte di don Gallo d’istinto le ho collegate ai movimenti radicali del tempo di san Francesco descritti nel volume “Nel nome della rosa” di Umberto Eco, che volendo vivere autenticamente il Vangelo, come Francesco d’Assisi, hanno faticato alquanto per farsi legittimare dall’autorità religiosa costituita. La nostra società perbenista e il nostro cristianesimo formale tagliano fuori con un colpo netto, senza pensarci due volte, quel mondo che Gesù ha amato e del quale ha parlato con bontà.

Forse non tutti condivideranno il mio pensiero, però io sono propenso a mettere il nome di don Andrea Gallo accanto a quelli di don Tonino Bello, don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, padre David Maria Turoldo e qualche altro. Penso che fra non molto anche don Gallo diventerà una bandiera per i cattolici: siamo purtroppo un popolo che ancora “uccide” i profeti e poi erige loro i monumenti.

Don Gallo

Alla sera ascolto il telegiornale mentre ceno con la televisione accesa, così mi pare di essere in compagnia, perché cenare da solo mi porta sempre un po’ di tristezza. Nella mia infanzia a tavola eravamo sempre una brigata: papà, mamma, sette fratelli, ed un tempo c’era pure il nonno.

Le notizie del telegiornale non sono purtroppo mai belle, eppure sono la vita della nostra società ed ascoltandole mi pare d’esserne immerso. Penso che un prete, se vuol essere “lievito”, debba sempre e comunque immergersi, almeno idealmente, nelle vicende del mondo in cui vive.

Mentre mangiavo la ricotta fresca mandatami dalla signora Luciana, quella che tiene la rubrica “Giorno per giorno” de “L’incontro”, fui attratto dalla voce del giornalista che pronunciò un paio di volte il nome di don Gallo. Alzai gli occhi dal piatto e riuscii a vedere la rapida carrellata di immagini con cui la televisione ha inquadrato la vita e soprattutto la testimonianza di questo prete sempre in prima linea, anzi fuori dalla trincea quale fu il prete dei bassifondi umani del porto di Genova.

Don Gallo è un mio coetaneo e con lui ho “fatto amicizia” attraverso la lettura dei suoi scritti un paio di anni fa. Per molto tempo avevo pensato a lui come ad un prete sovversivo facente parte della fronda ecclesiastica; poi, conosciutolo un po’ di più, ho capito che era “un prete da Vangelo”: onesto, schietto, libero, anticonformista ed innamorato degli uomini, specie di quelli che il mondo ecclesiastico considera fuori dalle righe e che qualche anno fa le gerarchie avrebbero “sospeso a divinis” e qualche secolo fa mandato al rogo.

Fino a ieri i cristiani allineati, tra i quali ci sono stato per molti anni anch’io, l’hanno guardato con sospetto, ma ora sono certo che in meno di un paio d’anni lo presenteranno come una delle bandiere al vento di cui si fregerà anche la Chiesa ufficiale.

Per Pasqua la mia “Beatrice” m’ha regalato l’ultimo volume di don Andrea Gallo, dal titolo in linea col personaggio: “Come un cane in chiesa”. Credo che non avrebbe potuto descriversi in un modo migliore. La signora Laura mi ha allegato al volume il biglietto che trascrivo perché offre una giusta pennellata per definire la mia recente “amicizia” con questo prete di frontiera.

Caro don Armando, immagino che lei non sappia più dove mettere i libri che le vengono regalati e non so dove trovi il tempo per leggerli. Penso che stia ancora gustando i testi sul cardinal Martini, perciò non si affanni a leggere questo. Ma quando un giorno avrà dato una scorsa – e non solo un’occhiata alle figure di Vauro, che sono simpatiche ma “strampalate” come l’autore – mi sappia dire che cosa ne pensa.
Il libro è recente, parla addirittura del governo Monti e don Gallo ha anche lui la sua bella età, 84 anni. E’ un prete particolare e su alcuni temi ha delle idee discutibili, incomplete, certamente controcorrente e più o meno “ingenue”, però credo che sia veramente un uomo di fede e un innamorato dell’uomo, un tipo che, come lei, non ama le sacrestie e che lavora, giorno e notte, fuori dalle trincee.
A me è piaciuto, fino all’ultima pagina. Con affetto e buona lettura!

Confesso che la notizia di questa morte non prevista del collega – non mi piace definirlo confratello perché è un termine che odora di sacrestia – mi addolora alquanto, mi sento più solo, sento di aver perduto un punto di riferimento quanto mai apprezzato.

Sono convinto che per la Chiesa italiana questa morte sia una grave perdita. Confesso pure che provo un senso di invidia per questo prete che ha avuto il coraggio di portare fino in fondo il suo cristianesimo da Vangelo e non da manuale, mentre io sono sempre rimasto a mezza strada.

Mi ripropongo di leggere il volume appena iniziato perché sono certo che la parola libera e schietta di questo “prete amico” mi farà molto bene.

Olmi: delusione

A nessuno “tutte le ciambelle riescono col buco”. Stavolta è capitato ad Ermanno Olmi, il grande regista cinematografico, e di riflesso anche a me che ne sono sempre stato un grande ed appassionato ammiratore.

Credo che ci sia da togliersi tanto di cappello di fronte all’arte e alla poesia di alcune opere cinematografiche del cantore del mondo contadino dal quale quasi tutti noi, direttamente o meno, proveniamo e che rimane, in fondo al nostro spirito, un mondo un po’ appannato, ma sempre avvolto dall’incanto di ciò che abbiamo sperimentato nei tempi lontani della nostra fanciullezza.

Questa dolce nostalgia, alimentata dai ricordi ormai vaghi, vale soprattutto per la gente della mia generazione, alla quale appartiene anche Olmi, per il mondo rurale che non era ancora meccanizzato e perciò si muoveva con i ritmi lenti delle stagioni, con la sobrietà dei costumi e con la guida forte della tradizione.

Chi ha un minimo di cultura cinematografica non può non ricordare con sconfinata ammirazione “L’albero degli zoccoli”, “La leggenda del santo bevitore” e, più recentemente, “Il villaggio di cartone”. Soprattutto in quest’ultima opera Olmi ha affrontato, sempre in chiave poetica, il problema della fede e della Chiesa. La critica seguita a questo film ha messo in luce particolarmente la sua presa di posizione nei riguardi di una Chiesa ingessata, eccessivamente attenta ai riti, poco aperta alla sensibilità e alle attese della società. A me è parso di condividere questa lettura, critica ma stimolante.

Quando mi fu regalato il volume “Lettera ad una Chiesa che ha dimenticato Gesù”, di Ermanno Olmi, mi sono buttato a capofitto nella lettura, tanto da sentire il bisogno di riprodurre integralmente nel mio diario la “spalla” della copertina, che pretende di condensare il pensiero di questo uomo di cultura.

La lettura dei primi capitoletti mi pare che confermasse l’attesa; proseguendo però, mi sono imbattuto in uno zibaldone di argomenti assai irrequieti e sconclusionati, attraverso i quali Olmi rivendica il primato della coscienza ed esprime una critica poco argomentata e disordinata sulla Chiesa attuale e nulla più.

Il volume non fa certamente onore all’autore e non offre una chiave di seria lettura del messaggio cristiano e della Chiesa di oggi. Sento quindi il dovere di fare questa precisazione per evitare ai miei amici una lettura pesante, per nulla documentata sulle problematiche della Chiesa. Spero che Olmi torni a fare il mestiere che sa fare e non annoi il prossimo con un volume raffazzonato e con discorsi poco consistenti.

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

La mia “amicizia” ideale con Ermanno Olmi, il famosissimo regista italiano, dura da moltissimi anni, almeno fin dal tempo dell'”Albero degli zoccoli”. Recentemente si è ancora rinvigorita col suo “Villaggio di cartone” e per alcune interviste ai giornali, sempre su temi di fede.

La mia simpatia è determinata da una “sintonia religiosa” veramente forte, tanto che le sue dichiarazioni fatte a mezzo della stampa e, in maniera ancora più esplicita, attraverso i suoi film, mi sono state sempre di tanto conforto ed incoraggiamento. Avere “dalla mia parte” un intellettuale ed un credente del genere, mi ha sostenuto, liberandomi, in qualche modo, da una solitudine ideale che spesso mi preoccupa e mi addolora.

Qualche giorno fa un volontario mi ha regalato un volumetto di Olmi che, fin dal titolo, mi ha incuriosito in maniera quasi morbosa: “Lettera ad una Chiesa che ha dimenticato Gesù”. Sto leggendo il volume, però sento il bisogno di riportare integralmente, fin da subito, la sua presentazione scritta sulla spalla della copertina, perché posso ritenerla come “manifesto” del mio credere oggi. Quando avrò finito il volume, ci ritornerò, perché le argomentazioni di Olmi e le sue analisi sulle “piaghe” della Chiesa odierna, mi paiono valide almeno quanto quelle più che note di Rosmini.

“Attinge alle emozioni più profonde questa lettera appassionata, e il suo autore, fra i più grandi cineasti viventi, non nasconde che forse disturberà gerarchie e devoti benpensanti, ma nella sincera convinzione che il nostro Occidente e la nostra Italia – sempre più piccola e incapace di grandi slanci – abbiano bisogno di un supplemento d’anima.

La Chiesa dell’ufficialità è sempre più lontana dagli uomini di questo tempo, il suo apparato ha esaltato la “liturgia del rito” dimenticando la “liturgia della vita”, ha aperto sportelli bancari anziché combattere l’idolatria del superfluo, ha fatto di se stessa un dogma svilendo la sacra libertà della coscienza. Questa progressiva lontananza dall’umanità è coincisa con un allontanamento da quel falegname e rabbi di Nazareth che con la sua vita ha suggerito l’unica strada della gioia: spendere senza sconti il bene prezioso della propria esistenza.

Nel rivolgersi alla Chiesa, Olmi chiama in causa anche altre “chiese”, che con la loro supponenza si sono allontanate dalla realtà: le “chiese” dei potenti, delle lobbies, degli pseudo-intellettuali e di tutti coloro che vorrebbero condannarci a consumare in perpetuo per sostenere sistemi ed economie che hanno divorato il patrimonio di nostra madre Terra nell’illusione che le sue risorse fossero illimitate.

Da sempre attento ai temi della religiosità, Olmi non disdegna di dire che la sua è frutto più del sentimento che della dottrina, perché «i sentimenti sono misteriosi, e hanno dentro più verità di qualsiasi ragionamento»”.

La mia stima per Andreotti

Una volta ancora mi trovo in disaccordo col mondo intero! In occasione della morte di Giulio Andreotti, come era prevedibile, si sono versati fiumi di inchiostro per inquadrare la sua persona e la sua opera. Ne han parlato tutti e ne han parlato molto: gli sono stati riconosciuti dei meriti, però, in quasi tutti gli interventi, m’è parso di cogliere sempre un’ombra di riserva, una critica talora aperta da parte dei suoi avversari politici, e talora sommessa da parte di quel mondo con cui egli ha pur collaborato a livello politico.

Io non sono certamente uno studioso, né godo di una documentazione tale da poter dare giudizi, eppure ho sempre avuto una grande simpatia ed una grande stima per questo politico rimasto al vertice dello Stato dall’inizio della storia repubblicana ad oggi. Per me Andreotti è stato una persona intelligente, capace, arguta e coerente. Dobbiamo anche ad Andreotti la rinascita del Paese e soprattutto l’averci risparmiato la tragica esperienza di un regime comunista, e questo è un merito pressoché insuperabile. Come ogni uomo anche Andreotti ha avuto i suoi limiti ed avrà fatto i suoi sbagli, ma mai quanti i suoi detrattori.

Come ho avuto stima per Andreotti, altrettanto ho avuto disistima per i suoi detrattori, soprattutto per il magistrato Caselli che ha fatto spendere al Paese una cifra enorme per un processo fazioso durato dieci anni, con spreco di tempo, oltre che di denaro, con sofferenza e soprattutto con perdita di stima della magistratura presso l’opinione pubblica.

Andreotti è sempre andato diritto per la sua strada, ha detto con franchezza ad ognuno quello che pensava di lui, ha testimoniato a viso aperto la sua fede e credo che abbia fatto il bene del Paese in tempi tristissimi.

Più volte ho scritto della mia stima per i cristiani che non si vergognano di essere tali e che non hanno complessi di inferiorità nei riguardi della gente faziosa, prepotente o sempre schierata con le idee alla moda.

Tanti anni fa ho ricevuto dalle mani di Andreotti il titolo di “Mestrino dell’anno”, titolo di cui vado fiero; conservo con piacere la foto di questo evento e ritengo doveroso dargli questa testimonianza di stima per controbilanciare quel mondo anticlericale e di sinistra che non riesce mai a riconoscere il merito dei cattolici coerenti e tenta sempre di infangarne la testimonianza con supposizioni e malignità di ogni genere.

La preghiera per Pierluigi

Questa settimana, non quella segnata sulla data ma quella in cui sto scrivendo, è caratterizzata da una situazione politica che non vorrei definire amara ed inconcludente, ma veramente disastrosa ed apocalittica. Il parlamento a cinquantacinque giorni dalle elezioni non ha un barlume di idee concrete per dar vita ad un governo e per di più ha bruciato sull’altare della faziosità uomini come Marini e Prodi, e ha fatto ballare sulla passerella delle ipotesi Rodotà, la Bonino, la Cancellieri, Amato e qualche altro, per finire ad andare a pietire ai piedi del bisnonno Napolitano perché “smontata la sveglia” non sanno più ricomporre i suoi pezzi.

Gli attori di questa commedia – ma sarebbe meglio dire tragedia nazionale – sono più di uno perché sono saliti sul palco tutti i capibanda dei quali sono composti i partiti del nostro Paese. Uno però, degli attori principali, che fino a qualche settimana fa intratteneva il pubblico italiano con tanta sicumera, è stato Bersani. Pur non avendo mai apprezzato più di tanto la scuola da cui proveniva e le frequentazioni giovanili, m’era parso che avesse messo giudizio, guidasse con una certa autorità il suo grande partito, tanto che, pur non avendolo votato direttamente, ho tentato di mettergli accanto il professor Monti, che mi sembrava avesse i piedi per terra e conoscesse meglio le regole dell’economia.

Improvvisamente il palco gli è crollato addosso: s’è scoperto che il partito che guidava era come la statua sognata da Nabucodonosor: testa d’oro, petto e braccia d’argento, ventre di bronzo e piedi, purtroppo, di ferro e argilla. Al primo scossone tutto s’è frantumato e il mondo intero che l’aveva incensato s’è accorto che ha sbagliato tutto!

Mi hanno detto che Bersani ha poco più di sessant’anni, troppo presto per andare in pensione! In questi giorni sono tornato più volte a riflettere sul dramma di questo povero uomo. Pareva che fosse arrivato finalmente il suo momento, quel momento sognato da una vita, ma la bolla iridata di sapone gli è scoppiata in mano, punta dallo spillo di rancore verso Berlusconi, il nemico di sempre.

Questa sera ho pregato per Bersani, spero che il Signore gli offra un altro motivo per cui vivere. Veltroni voleva andare in Africa, Bertolaso, della protezione civile, c’è andato. “Forza Pierluigi, ci sono ancora tante cause valide per cui impegnarsi; tu qualità ne hai, volta pagina e spendi finalmente le tue risorse in un ambiente più sano! Ne hai diritto e dovere!”

Il sì del vecchio presidente

La cronaca in Italia corre veloce ed imprevista. Il vecchio presidente della nostra Repubblica in questi giorni ha dato una splendida lezione di dedizione ed amore veramente esemplare al Paese e a tutti gli italiani.

Come ho provato più che stizza, forse ribrezzo, per la processione dei politici che sono andati in ginocchio a chiedere che il vecchio uomo di Stato restasse per trarli da quei guai in cui loro si sono messi, altrettanto ho avuto ammirazione per questo vecchio che ormai aveva già fatto fagotto per andarsene a vivere finalmente in pace gli ultimi anni della sua vita.

Forse la mia comprensione è più sentita e più vera perché mi pare di trovarmi anch’io nelle stesse condizioni e provo sulla mia pelle la fatica, talvolta perfino la nausea, di dovermi sobbarcare impegni che mi risultano tanto gravosi a motivo dell’età.

Io sono un pensionato ufficiale da almeno otto anni, ma Napolitano avrebbe avuto il sacrosanto diritto di esserlo almeno da dieci, dodici. Per di più sono anni che il presidente non ha fatto altro che raccomandare a quella ciurma di perditempo, parolai e rissosi, saccenti e strapagati, di fare le riforme indispensabili per avere un governo capace di governare ed impegnato a rimettere in moto il Paese che si va avvitando su se stesso e sta precipitando in una crisi che non ha precedenti.

Il si di Napolitano non solo mi ha riempito di ammirazione, ma mi ha anche commosso per non aver fatto pesare più di tanto gli errori, le faziosità e i tatticismi inconcludenti dei politici, tutti tesi a salvaguardare i propri interessi personali. Più volte ho ripetuto che la virtù ha un peso specifico immensamente superiore a quello del vizio, motivo per cui sono convinto che il gesto di Napolitano fa più bene al nostro Paese di tutto il male fatto dai nostri mille parlamentari.

Spero che l’ammirazione e lo stimolo ad operare per il bene della collettività che provo di fronte al gesto di Napolitano possano far bene anche ai miei connazionali. Non riesco però a concludere questa pagina senza bollare di falsità e di infamia il comico Grillo e la sua banda di plagiati che stanno recitando una commedia veramente stucchevole, che pretenderebbero di essere i vessilliferi del nuovo, quando in realtà rappresentano quanto di più stantio, meschino ed illiberale un gruppo politico possa esprimere e che non tien conto neppure degli elementi più rudimentali delle regole della democrazia in un Paese moderno.

Renzi, lo scout prestato alla politica

Le mie analisi sulla politica d’oggi sono tutte saltate e sono risultate perdenti. Avevo pensato che Bersani col “battesimo” si fosse emancipato dall’educazione di Botteghe Oscure, che avrebbe vinto le elezioni e che si sarebbe alleato con Monti per rassicurare il mondo dei moderati e dei cattolici, invece tutto è andato a rovescio con la scelta di portarsi dietro Vendola e di garantirsi la collaborazione dello zoccolo duro dei vecchi compagni, specie dopo le elezioni, andate in maniera così imprevista, e dopo aver preteso l’incarico di formare il nuovo governo, incarico che l’ha letteralmente bruciato.

Da come sono andate le cose mi par di aver capito che Renzi, il giovane politico proveniente dal mondo scout, che da sempre coltiva questi valori e ne fa regola di vita, col suo spirito di avventura, la disponibilità al servizio e la concretezza, aveva ragione. M’è piaciuto Renzi perché è stato sincero e fedele al suo segretario politico, mi piace Renzi perché in questo momento difficile per il nostro Paese, sceglie ora la strada del realismo voltando le spalle ai tabù vetero-comunisti, ed è disposto a lavorare con tutti coloro che si dichiarano disposti, voltando le spalle ai pregiudizi e alle fruste ideologie, ad impegnarsi perché il Paese non ci crolli addosso ed i poveri non paghino un prezzo ulteriore ai tatticismi, ai miti e ai pregiudizi di chicchessia.

Renzi ha scritto nel suo manifesto elettorale che “considerava suo onore” meritare fiducia, che è il primo articolo della legge degli scout. Mi pare che finora, nelle alterne e non previste vicende, abbia mantenuto fede a questo principio.

Il percorso è certo terribilmente difficile; le imboscate, i tranelli, i voltafaccia, i tatticismi, le furbate degli esperti del mestiere saranno all’ordine del giorno. A me però piace lo spirito di avventura di quest’uomo, la sua concretezza e la sua volontà di servire il Paese. Spero proprio di non restare ulteriormente deluso.

Scalfari e i cardinali

Il solito magistrato in pensione, che mi onora della sua amicizia e frequenta la mia chiesa, probabilmente vedendo quanto mi interessano i pensieri del compianto cardinal Martini e l’uso che ne faccio nelle mie omelie, recentemente mi ha regalato un altro volume che riporta alcune conversazioni tra il famoso giornalista, fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari e il cardinale di Milano. Queste conversazioni hanno avuto luogo nella casa di riposo dei Gesuiti di Milano, quando Martini era già in pensione da anni e il suo stato di salute era molto precario perché minato dal Parkinson.

Scalfari, che da sempre si dichiara laico ed ateo, pone delle questioni al cardinale su tematiche esistenziali, ecclesiali e sociali. Quello che mi ha alquanto sorpreso è la delicatezza, quasi la tenerezza con le quali interroga il cardinale, più giovane di lui di qualche anno.

Io ho conosciuto Scalfari leggendo i suoi editoriali: decisi, acuti, spesso taglienti e di una ironia sferzante, ma soprattutto in un dibattito, sempre su temi religiosi, che qualche anno fa questo giornalista ha avuto a Cortina su iniziativa di quella prestigiosa comunità montana. In quell’occasione Scalfari era stato impietoso, facendo degli “affondo” di una durezza spietata, tanto che non gli avevo perdonato di avere letteralmente umiliato il nostro Patriarca, non solo con la sua notevole bravura dialettica, ma usando perfino sarcasmo nei riguardi delle tesi portate avanti dal nostro cardinale il quale fu ridotto in visibile affanno, tanto da arrancare penosamente.

M’aspettavo qualcosa del genere anche con Martini, invece no: ha posto le domande con una delicatezza e con sommo rispetto, convenendo con lui su quasi tutto. M’è sembrato del tutto aperto al dialogo e in ricerca sincera di tutti gli elementi che potevano essere condivisi.

Di certo Martini si comportò con una calda ed umile umanità, mai impalcandosi a maestro, ma offrendo sempre le sue proposizioni, confessando le debolezze della Chiesa e i suoi dubbi, proponendosi come un umile ricercatore della verità. Mai una condanna, mai un’affermazione perentoria!

Leggendo questo volume mi è parso di capire che la cultura del nostro mondo non può considerarsi ostile e nemica del messaggio cristiano, anzi mi è parsa un filtro per purificare ed inverare il pensiero cristiano nel nostro tempo.

Papa Giovanni, che di saggezza ne aveva molta, aveva veramente ragione quando affermò che “sono molto più i punti che uniscono di quelli che dividono tra credenti e non!”.

Il “mio” pubblico ministero

Con amarezza sconfinata, da un mese a questa parte, sto seguendo sul Gazzettino l’ultima enorme impresa truffaldina di un grosso imprenditore locale – e dei suoi collaboratori ed adepti – che riusciva ad accaparrarsi i più grossi lavori e che evadeva bellamente le imposte.

A parte il fatto che credo sia ormai impossibile in Italia poter lavorare senza evadere perché la tassazione per mantenere l’impalcatura statale e comunale è così gravosa che diventa comprensibile che le imprese vadano nei Paesi vicini dove le tasse sono minori, la burocrazia più agile e veloce e l’energia meno cara. Ho la più ferma convinzione che finché in Italia non si troverà il coraggio e la forza di sbaraccare un apparato pubblico inefficiente, sovraffollato, costosissimo, pieno di privilegi e assai più complicato di quello di “Franceschiello”, sarà assolutamente inevitabile che, nonostante la magistratura, la finanza, il fisco e quant’altro – che sono pure parte integrante del sistema – coloro che ci riescono portino i soldi nei paradisi fiscali o delocalizzino le loro aziende.

Non giustifico assolutamente le malefatte dei “furbi” però, con altrettanta onestà, debbo denunciare di immoralità, di malcostume, ingiustizia, prepotenza e malversazione, della sua filiera banche comprese.

Una concausa di tutte le ruberie è certamente l’organizzazione pubblica del nostro Stato.

Io che non sono un imprenditore, ma un operatore sociale, vivo sulla mia pelle questo dramma. In questa occasione la sorpresa è stata ancora più forte venendo a sapere che il pubblico ministero che segue la vicenda di cui parlavo è l’avvocato Stefano Ancilotto, il ragazzino di un tempo, conosciuto in parrocchia. Stefano era un ragazzo lucido, intelligente, deciso. Egli ha ereditato dal padre questo tipo di personalità forte e volitiva – della dolcezza della mamma credo abbia preso poco. Ricordo che, giovane magistrato, l’avevano mandato nel profondo sud, impero indiscusso della mafia. Ho pregato spesso per lui, avendo la sensazione che corresse tanto pericolo, anche se lui più volte mi ha assicurato di essere piuttosto tranquillo.

Poi ero venuto a sapere che s’era sposato ed era rientrato nella nostra terra. Per lungo tempo non ne avevo più sentito parlare ed essendo uscito dalla parrocchia non avevo più avuto occasione di incontrare i suoi genitori, la sorella e le zie. Pensavo che fosse stato assorbito da quel mondo particolare dei tribunali e della giustizia.

Sennonché, in queste ultime settimane, “il mio Stefano” è riemerso come protagonista lucido e autorevole. Ho ripreso a pregare per lui, da un lato perché quel mondo spietato di cui sta occupandosi non gli faccia male, e dall’altro perché la sua passione per la giustizia non finisca a far del male a quel mondo di dipendenti che vive delle briciole dei loro padroni, ma che comunque ha bisogno assoluto anche delle “briciole che cadono dalla mensa”.

L’altra sponda

Da sempre, lo voglia o no, mi lascio coinvolgere dalle esperienze che vado facendo. Non riesco a stare alla finestra a guardare stupito, curioso, sornione o disinteressato; sento la necessità di scendere nella mischia, desidero vederci chiaro, sono costretto a cercare argomenti per prendere posizione.

Il cardinale Martini ha scritto che dentro il cuore di ogni uomo c’è il credente, ma c’è pure l’ateo che obbietta, che mostra l’altra faccia della medaglia, ed ha pure aggiunto che non è opportuno cacciare il miscredente, perché è quello che ti purifica, ti costringe a mettere a punto il problema, che ti obbliga a motivare, da un punto di vista esistenziale e razionale, le tue scelte sulle varie problematiche della vita.

A proposito di tutto questo ritorno ancora una volta sul messaggio pasquale della Resurrezione di Cristo, pegno della nostra sopravvivenza e della vita eterna. Il laico, il miscredente che è in me, lo voglia o no, sta là ad insistere: “La tua presunta fede sulla vita eterna è immotivata, la risposta cristiana è solamente consolatrice, nessuno è mai tornato dall’aldilà per attestarne l’esistenza, al massimo l’uomo sopravvive nella specie, ma non a livello personale”.

La rivelazione mi aiuta a supporre l’esistenza dell’altra sponda, però non mi offre una prova apodittica determinante. L’elemento che convince me ad accettare la scelta cristiana dell’esistenza dell’altra vita è che ci sarà finalmente una risposta esaustiva a tutte le mie attese, che possiederò finalmente una felicità, un amore ed una verità totale. Tutto questo me lo garantisce un istinto profondo e primordiale connaturato alla mia stessa esistenza, la quale non ha bisogno di dimostrazioni razionali per confermarmi il mio esistere, coscienza che mi assicura che c’è l’altra sponda, che la vita non sbocca nella morte, che il mio tendere, il mio cercare, la mia fatica, non sono una beffa ed una illusione che la morte spazza via in un sol colpo ed in maniera inesorabile.

Ho visto un film su Cristoforo Colombo. Il navigante genovese aveva percepito nel profondo che ci doveva essere un’altra sponda, quella che lui aveva chiamato Indie. Contro tutto e contro tutti riesce ad armare le sue tre caravelle, ad ingaggiare una ciurma che lo segue poco convinta e a prendere il mare verso una sponda che nessuno aveva mai visto ed alla quale nessuno era mai arrivato. La razionalità libresca era di certo contro di lui. Ricordo un momento terribile quando, dopo settimane e settimane di navigazione, Colombo ha davanti solamente cielo e mare infido. La ciurma ha paura, è tentata di ammainarsi, lui pure ha dubbi atroci mentre guarda l’orizzonte sconosciuto e misterioso, ma decide di proseguire e di giocarsi tutto, nell’intuizione che supera la logica banale di tutti gli altri.

Io pure, vecchio, stanco, dubbioso, avverto di dover ascoltare il credente che è nel profondo del mio essere e punto sul positivo, sulla resurrezione, sulla sopravvivenza e sulla vita eterna. La pensino pure come credono gli altri, ma io gioco la mia vita e credo all’angelo che duemila anni fa disse alle donne: «Egli è risorto e non è più qui, lo incontrerete più avanti!».

Il guru

Qualche giorno fa mi è giunto dal parroco di Dese un opuscolo in carta patinata, corredato da belle foto, con un commento al “Padrenostro” scritto da alcuni sacerdoti e laici della nostra Chiesa e con uno scritto di don Tonino Bello e di don Primo Mazzolari, i due più bei profeti del nostro tempo. Don Emilio Torta è un prete intelligente e caro, che da un po’ di anni promuove questa bella e simpatica iniziativa pastorale in occasione della quaresima.

A me piacciono i preti impegnati per la loro parrocchia, ma più ancora quelli che tentano di fare un discorso nuovo che superi l’ombra del proprio campanile.

Parlando con don Gianni, mio simpatico e giovane successore sia in parrocchia che alla presidenza della Fondazione, gli chiesi se conosceva l’iniziativa di don Torta e, meglio ancora, l’associazione che promuoveva l’opuscolo. Non avevo mai sentito dire che in diocesi esistesse un’associazione cattolica o parareligiosa con questa testata: “Gaia, associazione onlus”, tre frecce di colore diverso che si rincorrono lungo la circonferenza di uno spazio bianco, con dentro un alberello stilizzato con alcune foglie su tre rami.

Don Gianni tirò fuori di tasca il cellulare, cominciò con la punta dell’indice a picchiettare veloce i tasti e in quattro e quattr’otto venne fuori che “Gaia” significa “terra” ed è il simbolo della dottrina del guru del Movimento 5 stelle, quel Casaleggio con una gran capigliatura che gli copre la vista e attraverso la quale, come le donne, è costretto ad aprirsi costantemente un pertugio per vederci.

Avevo già sentito che questo Casaleggio, superesperto di computer e del mondo digitale, era l’eminenza grigia e la mente pensante di Beppe Grillo, il pifferaio che ha incantato gli italiani e li sta conducendo verso l’ignoto.

Il telefonino riassumeva in poche parole la dottrina di questo moderno teosofo che profetizza che il mondo digitale renderà inutili e farà scomparire le religioni, i partiti politici e i governi e ci sarà un modo assolutamente nuovo di vivere a questo mondo. “Gaia”, che significa terra, è per lui una specie di nuova divinità onnicomprensiva, che abbraccia e farà vivere più felicemente gli uomini del futuro.

Telefonai a don Torta per chiedere chiarimenti sulla sua iniziativa, sembrandomi strano che, da persona intelligente qual’è, si fosse lasciato coinvolgere da una teoria così fumosa e pochissimo razionale. Egli mi rassicurò dicendomi che la sua “Gaia” era invece un’associazione di mutuo soccorso presente nella sua precedente comunità quando era parroco nel litorale.

Sono rimasto invece grandemente preoccupato dalla “Gaia” di Casaleggio, una dottrina che suggerisce una ideologia e dei comportamenti molto simili a quelli adottati da Hitler per narcotizzare i tedeschi, scalare il potere, per arrivare alle nefandezze compiute dal nazismo. D’ora in poi aprirò ben più gli occhi sulla “Gaia” che, come nuova Circe, sta già determinando scelte e comportamenti non solo incomprensibili, ma stravaganti ed irrazionali della nuova ed improvvisata classe politica appena apparsa all’orizzonte del nostro Paese.

La tenerezza

Un paio di anni fa è morto uno dei direttori della nota rivista “Famiglia cristiana”, don Zega, un discepolo di don Alberione, che è stato il testimone e il profeta del nostro tempo, che ha insegnato ai cattolici della nostra nazione un uso più serio dei mezzi di comunicazione sociale. In quella occasione scrissi più volte di questo giornalista intelligente, brillante, ma soprattutto ricco di umanità e carico di messaggio cristiano.

Don Zega, come tutti gli uomini seri e coerenti, non ebbe vita facile neppure all’interno della sua comunità. Poi, come avviene quasi sempre, una volta morto, la sua rivista e pure i periodici di ispirazione religiosa, si diedero un bel daffare per erigergli un “monumento funebre” quanto mai specioso. Io però ho colto la solitudine, la sofferenza di questo discepolo di Gesù che ha tentato di essere fedele al Vangelo col cuore, con la testa e con la penna.

In uno dei tanti servizi di “Famiglia cristiana” che rendevano onori postumi a questo giornalista dal volto umano, ricordo di aver appreso che in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio era ritornato nel suo povero paese natio e durante il discorso delle sue “nozze d’oro” con la Chiesa, aveva affermato che noi preti dovremmo essere soprattutto testimoni della “tenerezza” di Dio.

Questa frase, che faceva brillare di luce splendida il cuore di Dio, mi aveva davvero colpito, tanto che vi sono ritornato più volte, leggendo nel Creato, ricco di bellezza sovrana, il tocco della “tenerezza” di Dio che ci raggiunge in ogni tempo e in ogni luogo per accarezzare con dolcezza il nostro cuore.

Cosa mi capita di vedere e di sentire in questi giorni? Il Papa che ripete con insistenza che dobbiamo credere nella tenerezza, non temerla, perché è un mezzo per far sentire il battito del cuore di Dio agli uomini del nostro tempo, così soli e bisognosi di un amore semplice e dolce. Ma soprattutto con stupore ho spalancato gli occhi vedendo Il Papa che dà un bacetto sulla guancia alla presidentessa dell’Argentina che, da quanto so, è una “grimetta” di donna non facile. Quella lady dal cappellino sulle ventitrè in maniera un po’ spavalda e da primadonna, ha detto che pensa di essere la prima donna ad essere baciata da un Papa. Io penso che quel bacetto inaspettato e forse – anzi senza forse – immeritato, non le permetterà mai più di immaginare la Chiesa come una suocera impicciona, ma la farà sentire come una madre buona che tutto sa comprendere e perdonare.

Battuto sul tempo!

Sfogliando l’ultimo mio volume “Tempi supplementari”, una delle tante critiche che gli faccio, io che ne sono l’autore, è che risulta assai ripetitivo negli argomenti trattati. Tento di giustificare questo difetto tanto evidente.

Primo: io sono un povero diavolo con tanti limiti. Secondo: ogni individuo non può avere dentro di sé una enciclopedia con tutto lo scibile umano o un archivio con un progetto per tutto. Io ho a cuore certi argomenti e coltivo alcuni progetti: uno, e forse il principale, è quello di offrire risposte adeguate al “povero” che incontro, come “il buon samaritano” mezzo morto per strada. Terzo: sono infine della scuola di Papa Giovanni XXIII che affermava a cuore un problema, deve parlarne da mane a sera a chi incontra per qualsiasi motivo.

Allora, pensando alle nuove povertà, torno su uno degli argomenti di cui ho parlato già molte volte. Ho letto che i mariti di mezza età che divorziano finiscono in un gravissimo disagio di ordine sociale ed economico perché il giudice normalmente decide di lasciare l’uso della casa alla moglie, le affida i figli e le destina una parte rilevante dello stipendio del marito. Quindi quel povero gramo spesso finisce per non avere più una famiglia, una casa e spesso di non poter neppure vedere i figli perché non riesce più a dimostrare al giudice di avere un luogo adeguato per ospitarli.

Questa mattina la Veritas mi ha chiesto di celebrare “un funerale di povertà” per un residente all’asilo dei senzatetto di via Santa Maria dei Battuti. Prima del funerale ebbi modo di sapere, da chi conosceva bene il defunto, che egli era un brav’uomo. Il divorzio lo privò del figlio, perché la moglie lo mise contro il padre, e della casa, assegnata alla stessa.

Quest’uomo, che era stato un buon agente di commercio, si ridusse a dover andare a dormire all’asilo notturno, dove si comportò tanto bene e si fece così ben volere da tutti che, meraviglia delle meraviglie, gli inquilini e i dirigenti della stessa struttura gli permisero di morire tra i suoi nuovi compagni di sventura e molti di loro parteciparono al suo funerale.

Proprio l’altro ieri avevo buttato giù un progetto di massima per costruire, presso il “villaggio solidale degli Arzeroni”, una quindicina di appartamenti per divorziati che vengono a trovarsi nella situazione di questo malcapitato. Purtroppo nostro Signore mi ha battuto sul tempo, assegnando a questo fratello una dimora eterna nei cieli.

Non desisto però dall’impresa benefica perché chissà quanti altri si trovano nelle stesse condizioni del concittadino che ho accompagnato alla “Casa del Padre”! Spero quindi che i miei concittadini non mi lascino mancare i mezzi per farlo.