Non è giusto lasciarla passare

All’inizio dell’anno, su sollecitazione di un consigliere della Fondazione Carpinetum, ho scritto una lettera ad uno dei sub commissari che aiutano Zappalorto nella gestione del nostro Comune per informarlo che i settanta anziani del Don Vecchi di Campalto da ben tre anni sono praticamente prigionieri in quella struttura perché Via Orlanda, la strada che congiunge il Don Vecchi al centro di Campalto, è assolutamente impraticabile. Sollecitavo questo pubblico amministratore ad affrontare il problema, per arrivare poi, in seconda istanza, almeno ad inserirlo nel programma di interventi che il Comune si impegna ad affrontare nei prossimi tre anni.

Dal Comune silenzio assoluto!

Ritengo però che non sia lecito permettere ad un funzionario, a cui paghiamo lo stipendio, di essere tanto maleducato da non rispondere alle richieste dei cittadini. Aspetterò ancora un paio di settimane e poi mi farò nuovamente vivo, intervenendo per l’ennesima volta. Sono convinto che purtroppo noi cittadini non interveniamo con sufficiente determinazione nei riguardi di questi burocrati, se non altro per far capire loro che sono al nostro servizio. Un tempo mi è capitato di leggere un articolo sul numero esagerato di segretarie di cui potevano disporre il sindaco e i singoli assessori. Non credo siano state tutte licenziate tanto da costringere il sub commissario a rispondere personalmente!

Una qualche emozione!

Una parrocchiana di San Pietro Orseolo, che scrive per “L’incontro”, ha chiesto al nuovo parroco l’autorizzazione a porre nel banco della sua chiesa, riservato alle varie pubblicazioni, anche il nostro periodico.

Don Corrado, così si chiama il sacerdote, ha acconsentito di buon grado. La prima volta un nostro collaboratore ha portato una quarantina di copie mentre La settimana seguente, passando per viale don Sturzo, ho portato io il numero successivo de L’Incontro. In chiesa non c’era nessuno, ho deposto allora in bella nostra il nuovo numero lasciando pure le due copie che erano rimaste della settimana precedente. Ho provato una certa emozione nel tentare di contribuire ad aiutare questa piccola comunità cristiana a riflettere sulla pastorale e sulle vicende religiose della nostra città.

Ormai sono ben poche e certamente tra le meno importanti le parrocchie che non accettano “L’incontro” e, una volta ancora, ho pensato all’utilità di un periodico, distribuito gratuitamente, per aiutare la Chiesa mestrina a verificare e maturare la propria coscienza religiosa.

Don Bonini

Qualche tempo fa, don Fausto Bonini, l’ex parroco del Duomo di Mestre, mi ha chiesto di potermi incontrare. Ho pensato che, poiché era stato “nominato” rettore della chiesa della Madonna della Salute e cappellano della Casa di Riposo avesse da chiedermi qualcosa per una sua nuova sistemazione pastorale all’interno della nostra Chiesa.

Ero preoccupato perché oggi io non ricopro alcun ruolo a Mestre se non quello che mi sono scelto da solo ma don Fausto, con garbo e cordialità, è venuto a ringraziarmi perché nei miei interventi l’ho sempre sostenuto ed ammirato.

Ero e sono convinto che la chiesa del Duomo, guidata da don Fausto, sia stata, fino a qualche mese fa, la mosca bianca delle parrocchie di Mestre, l’unica o quasi che sapesse dialogare con il mondo d’oggi, l’unica o quasi che fosse strutturata in maniera organica ed efficiente.

Non sono proprio riuscito a capire perché non sia stato chiesto a don Fausto di rimanere un’altra decina d’anni, non fosse altro per dargli la possibilità di testimoniare che è ancora possibile impostare, in maniera moderna, la pastorale parrocchiale.

Oggi a Mestre pare si sia optato per il passo del gambero, il ripiegamento su vecchi schemi è continuo e costante.

Non è che Venezia brilli per impegno, però è ancor più triste che, per inedia e per scelte incomprensibili, si sia lasciata spegnere la pur tenue speranza del dopo Concilio.

Per Venezia non c’è salvezza

Mi rattrista il dover parlar male ancora una volta di Venezia perché, nonostante tutto, l’amo e sono orgoglioso di abitarvici, però ogni giorno di più mi convinco che per questa città non c’è più salvezza.

Voglio evitare di ripetermi sulla cattiva amministrazione, sulle occasioni perdute, sul mal governo e sull’acqua alta, ma vorrei richiamare la vostra attenzione sullo sconfinato esercito di burocrati impietosi, stupidi ed irresponsabili che la stanno soffocando.

I motivi di sconforto, di amarezza e di sdegno sono stati tanti, questo è solo l’ultimo.

Una cara signora, che ha avuto l’incarico dalla sorella deceduta alcuni anni fa di distribuire ad opere benefiche il patrimonio che ha lasciato, ha deciso di donare alla Fondazione i proventi della vendita di un “bacaro” che si trova vicino a San Marco.

Si tratta di una cifra ingente con la quale potremo finanziare la struttura per le emergenze abitative destinata a: divorziati, disabili, vecchi preti, operai ed impiegati di altre città che lavorano a Mestre, parenti di degenti in ospedale, giovani che tardano a sposarsi per la mancanza di un alloggio. Un complesso di 65 appartamenti che offriranno un servizio quanto mai necessario e soprattutto creeranno quella cultura e quella mentalità solidale di cui Mestre ha bisogno come il pane quotidiano.

Ebbene i burocrati del Comune, che sono poi gli stessi che hanno fatto perdere a Venezia il grattacielo di Cardin, le carceri, lo stadio e quant’altro, stanno facendo l’inimmaginabile per impedire o ritardare un’operazione benefica di notevole portata culturale e sociale.
Perché? Proprio non lo so!

Quando la prima Comunione?

Ultimamente nel vicariato, il gruppetto di parrocchie che insistono sulla vecchia comunità cristiana di Carpenedo, è nata un po’ di maretta tra i preti, sulle modalità e sull’età in cui accostarsi alla prima Comunione.

La cosa non è del tutto nuova perché da molti anni l’ex parroco di viale Don Sturzo ha portato avanti, solitario, una certa “rivoluzione” nel modo di preparare i bambini ad accostarsi all’Eucarestia e soprattutto nei tempi in cui far fare la prima Comunione. Io sono sempre andato diritto per la mia strada concordando totalmente con San Pio X che aprì le porte ai bambini per incontrare il Signore in tenera età.

Ora, pur essendo quel parroco in pensione, pare voglia proporre con una certa pressione la sua tesi e che abbia trovato anche qualche nuovo adepto. Già scrissi che la validità di certe scelte si misura dai risultati e per quanto riguarda la vitalità della parrocchia di San Pietro Orseolo, i risultati.

Incontrandomi con mio fratello don Roberto, che credo sia il parroco di una delle più belle e vivaci comunità cristiane della diocesi, gli chiesi la sua opinione in merito a questo problema. Mi rispose senza esitazione: “Da me i ragazzi fanno la prima Comunione in terza elementare, a quell’età essi sono limpidi ed innocenti, chi la fa in quinta, quando i ragazzini pensano già alle “tosette”, incide ben poco sulla loro coscienza.

Ancora una volta vale la prova del nove sulla validità di questa scelta, infatti la parrocchia di Chirignago ha il più bel vivaio di ragazzi e di giovani.

Le novità non sono sempre garanzia di validità!

Adorazione perpetua

Ormai da alcuni anni, per iniziativa di don Narciso Danieli, a Santa Maria Goretti, almeno una persona ad ogni ora del giorno e della notte veglia e prega di fronte all’Eucarestia.

Da quanto ho appreso ben quattrocento fedeli si sono offerti per compiere questo servizio affinché almeno un rappresentante della nostra città incontri e parli al Cristo nell’Eucarestia dei nostri problemi e delle nostre attese.

A Venezia un tempo si faceva qualcosa di simile nella chiesa di San Giuliano poi, non so per quale motivo, l’iniziativa si spense.

Ho appreso però qualche settimana fa che qualcuno si sta dando da fare per riprendere l’adorazione perpetua in un’altra chiesa di Venezia.

Mi rende felice il sapere che qualcuno a nome di tutti possa ascoltare e parlare a Gesù di Nazareth rappresentato dall’Eucarestia e si faccia portavoce dell’intera città. Però pensando a San Giacomo e a San Giovanni Crisostomo mi farebbe ancor più piacere se ci fossero almeno altri quattrocento cristiani che, inquadrati da qualcuno, fossero in costante disponibilità a colloquiare e servire il Signore presente a Mestre e Venezia sotto il segno del povero.

Qualcosa esiste ma sarebbe opportuno che questo servizio fosse organizzato in maniera più seria ed efficiente.

Baruffe chiozzotte

Nota della redazione: questa riflessione risale a ottobre. Successivamente la concessione è finalmente giunta.

I miei rapporti col Comune, ossia con gli uffici e con i suoi dipendenti, non sono mai stati idilliaci. Credo che i motivi di fondo siano questi.

  1. Ho la convinzione profonda che tutta la struttura comunale sia al servizio del cittadino e non viceversa. Non accetto di dovermi mai presentare col cappello in mano a mendicare un servizio che mi è dovuto.
  2. Non accetto e non accetterò mai una burocrazia lenta, farraginosa e cartacea. I dipendenti del Comune devono essere lesti, efficienti, rispettosi come qualsiasi altro dipendente di qualsiasi negozio o impresa. Quindi non accetto la “casta” dei dipendenti pubblici.
  3. Non ho mai avuto una grande opinione di quei Consigli periferici di carattere consultivo, perché ho l’impressione che siano composti da personaggi della sottopolitica, verbosi e inconcludenti.

Dato questo mio modo di pensare più di una volta ho avuto modo di entrare in rotta di collisione con rappresentanti del Comune.

Al momento in cui sto buttando giù queste note, sto attendendo da sette mesi la concessione edilizia per il “don Vecchi sei”, la struttura che tende a creare opinione pubblica e cultura verso le emergenze abitative. Mi sono scontrato ancora una volta, tanto che qualcuno mi ha minacciato di chiedere all’avvocatura del Comune di sporgermi querela.

Pure in passato mi è capitato qualcosa del genere con la municipalità, che allora si chiamava “Consiglio di quartiere”. Avendo ottenuto in affitto dal demanio militare quarantamila metri quadri della superficie attorno al forte di Carpenedo perché i ragazzi potessero giocare, ho chiesto ad un imprenditore di spianare il terreno e poi, essendomi accorto che il pallone rischiava di andare in strada con pericolo per gli automobilisti e per gli stessi ragazzi, trovai chi si è offerto di proteggere il campo con una rete alta parecchi metri.

Ma mentre si stava mettendo in atto questa operazione, un membro del Consiglio di quartiere di Rifondazione comunista, passando di là si accorse di quanto il prete stava facendo. Il Consiglio di quartiere mi convocò in veste di imputato.

A verbale si imputava alla “ditta don Armando Trevisiol” di aver manomesso il terreno, mettendo in pericolo le ninfee nane esistenti in quel luogo. Per non aver grane, ma soprattutto per la difficoltà di seguire i ragazzi, restituii al demanio il terreno che, ben presto, si coprì di gramigna e rovi, altro che di ninfee nane! Ognuno può immaginare quale opinione ebbi di questi pubblici amministratori.

Ora ho protestato per il fatto che gli stessi amministratori, mi minacciano di farmi querelare solamente perché ho ritenuto doveroso protestare per l’eterna lentezza del Comune, che finisce per impedire ai cittadini volonterosi di supplire alle sue carenze e a gente che soffre per mancanza di lavoro di poterne avere uno sicuro almeno per un paio d’anni.

Credo che protestare non sia solamente un diritto, ma un sacrosanto dovere!

Grosse manovre

A quasi ottantasei anni di età mi pare che sia più che naturale, comprensibile e giusto che uno non riesca a seguire tutto quello che succede nella sua città. Io poi, avendo interessi di ordine pastorale e, come indotto, quelli di ordine caritativo, non riesco a percepire quello che sta avvenendo nel sottobosco politico in previsione delle prossime consultazioni elettorali per l’elezione del nuovo sindaco.

Qualche giorno fa, quasi per caso, in un incontro avuto con un collega più giovane, sono venuto a conoscenza delle trame e delle cordate che si vanno organizzando per la nuova amministrazione comunale. Sapendo in quale miserrima situazione si trova il nostro Comune a livello finanziario ed organizzativo, pensavo che non ci fosse nessuno, se non un pazzo da manicomio, che si desse da fare per cacciarsi in una situazione a dir poco angosciosa e disperata. Signor no! Ho appreso nomi e cognomi di pretendenti, tutti provenienti dalla vecchia casta, anche se giovani di età, che si stanno dando da fare in tutti i modi per offrirsi a rialzare le sorti di questo nostro disastrato Comune.

Pur non conoscendo più di tanto questi pretendenti, non ce n’era uno, proprio uno, di quelli che mi sono stati citati, che riterrei idoneo per un compito così grave. Tanto che il mio interlocutore e l’amico che era assieme a lui mi chiesero: «Ma tu chi vedresti come sindaco di Venezia?».

A parte il fatto che a me interesserebbe di più il sindaco di Mestre che non quello di Venezia, anche se temo che dovrò andarmene da questo mondo senza vedere l’una o l’altra di queste due città pensare finalmente ai fatti propri, io pregherei il Patriarca di indire almeno un mese di digiuno e di penitenza perché il buon Dio convinca un imprenditore che abbia dimostrato con i fatti di saper condurre un’azienda, ad accettare la croce pesante di amministrare Venezia, almeno fino a che non abbia tirato su un gruppo di allievi promettenti.

Comunque il sindaco che sogno dovrebbe essere un uomo che non si lascia condizionare né dai sindacati né, meno ancora, dai centri sociali; uno che tenga in pugno la sua squadra e pretenda che ogni assessore faccia altrettanto con i propri dipendenti comunali, uno che lavori e lavori per le cose utili per la comunità e non per creare problemi in più oltre a quelli che ogni cittadino ha già per conto proprio.

Il sindaco che sogno dovrebbe mettere il naso sui bilanci di tutte le società partecipate, perché i bilanci siano almeno alla pari, controllare che le due città siano pulite e ordinate, che i vigili siano sempre in strada perché siano osservate da tutti le norme e le leggi. Qualcuno potrà pensare che domando troppo; però, senza presunzione, ho personalmente constatato che quando si hanno le idee chiare e ci si impegna seriamente, le cose possono andare anche così. Se qualche aspirante sindaco ha dei dubbi, venga al “don Vecchi” per rendersi conto che si può anche amministrare bene la propria azienda.

Discontinuità

Una decina di giorni fa il Patriarca ha insediato ufficialmente il nuovo parroco del duomo di San Lorenzo, la chiesa matrice della nostra città, monsignor Gianni Bernardi, che da qualche anno era il parroco della comunità di Santo Stefano a Venezia.

Il nuovo parroco ha fatto un passaggio da vertigini nel trasferirsi da una parrocchia di 1500 anime ad un’altra di quasi diecimila – la prima una comunità sonnacchiosa, pacifica, anziana, la nuova, quella mestrina, numerosa, dinamica, aperta al futuro e quanto mai articolata e attiva.

M’è capitata in mano, per caso, “La Borromea”, il periodico della parrocchia. La Borromea fu il primo foglietto parrocchiale che nacque da un viaggio pastorale che feci in Francia con monsignor Vecchi per esplorare le iniziative parrocchiali di quel Paese che, a quei tempi lontani era, presso l’opinione pubblica ecclesiale, il più avanzato a livello di catechesi, liturgia, animazione giovanile e per tutto il resto. Quella volta trovammo per caso, visitando una chiesa di Parigi, un primitivo prototipo di settimanale parrocchiale dal quale prendemmo spunto per dar vita al periodico di San Lorenzo a cui assegnammo, come testata – “La Borromea” – il nome di una campana che il cardinale Carlo Borromeo, tornando da Roma, ove aveva salutato lo zio Papa, aveva donato al parroco di San Lorenzo, essendo stato da lui ospitato nel viaggio di ritorno.

Questo foglio è cresciuto col tempo e da un paio di anni monsignor Bonini gli ha dato un taglio particolarmente innovativo facendolo stampare a colori in tipografia e comunicando, coi parrocchiani destinatari, quasi esclusivamente attraverso le foto, con brevissime didascalie. Don Bonini si è poi servito di un altro periodico, “Piazza maggiore”, col quale passava i contenuti del messaggio cristiano e dialogava con la parrocchia e i responsabili civili della città.

Dunque, come dicevo, alla vigilia dell’entrata del nuovo parroco, mi hanno recapitato un semplice foglio con la testata della “Borromea” contenente la lettera di saluto che monsignor Bernardi rivolge alla parrocchia e alla città. Il foglio appariva non solamente povero, ma davvero misero. Pensai subito: “Oddio, come ci siamo ridotti!” Temevo che da un foglio che da un punto di vista parrocchiale rappresentava l’eccellenza, si fosse precipitati al livello dei più miseri fogli che purtroppo a Mestre sono assai diffusi. Fortunatamente la domenica successiva ne è stato pubblicato uno con la linea del tutto uguale a quella di monsignor Bonini.

Mi auguro tanto che continui così, anzi migliori, perché rimango del parere che se, anche ufficialmente, si sia orientati ad un assoluto centralismo diocesano, per quanto riguarda la Chiesa di Mestre in concreto la parrocchia del duomo rappresenti la mosca cocchiera, magari solamente per quanto le viene dall’autorevolezza delle sue scelte pastorali. Perché, lo si voglia o meno, San Lorenzo rappresenta la Chiesa mestrina, forse poco cosciente di sé, ma da tutti ritenuta tale.

Il Patriarca al “don Vecchi 5”

A tre mesi dall’inaugurazione ufficiale il Patriarca ha fatto una breve visita al “don Vecchi 5”. In verità la presentazione della nuova struttura alla città era avvenuta a maggio in maniera frettolosa perché l’assessore alla Regione, dottor Sernagiotto, che aveva puntato a “coprire” quella zona grigia compresa tra l’auto e la non-autosufficienza, “correva” per essere eletto al Parlamento europeo.

Forse questo amministratore della Regione voleva presentare all’opinione pubblica quella sua intuizione che avrebbe permesso agli anziani di allungare la loro autonomia e, nello stesso tempo, avrebbe risparmiato all’ente pubblico l’onere pressoché impossibile delle rette per non autosufficienti.

Sernagiotto penso che abbia considerato il “don Vecchi 5” come il fiore all’occhiello del suo servizio in Regione. Con la scelta di creare questa struttura intermedia volle dimostrare che è possibile raggiungere i due obiettivi suddetti.

La Fondazione dei Centri don Vecchi, senza volerlo, aveva già fatto questa esperienza nelle sue strutture esistenti perché esse, partite per ospitare persone autosufficienti, in vent’anni avevano mantenuto la domiciliarità anche per gli anziani che avevano perso molto della loro autonomia. Il “don Vecchi 5” è diventato così non solamente un’esperienza pilota che vuole aprire una soluzione innovativa per i problemi della terza e quarta età, ma pure una sfida sulla possibilità di garantire agli anziani altro tempo di vita da uomini e donne pressoché normali.

L’uscita di scena dell’assessore alla sicurezza sociale, dottor Sernagiotto, ha almeno per ora, congelato il secondo aspetto dell’operazione, aspetto che prevedeva un contributo, pur minimo, per garantire un maggior supporto all’anziano residente. A livello personale sono stato quasi contento dell’inghippo perché, senza contributo, il “progetto sfida” diventa più radicale “costringendo” le famiglie ad essere più vicine al loro famigliare, fornendogli quell’aiuto che è postulato dalla stessa natura.

Comunque l’esperienza è partita. Infatti tutti i 65 alloggi, sono già occupati e forse per l’autunno del 2015 potremo tirare le somme e farne un bilancio.

Tornando al Patriarca, egli ha parlato agli anziani, dimostrando di essere sufficientemente informato sulla “dottrina del don Vecchi”. Ha scoperto la dedica ai benefattori insigni e visitato molto rapidamente la struttura, perché impegnato in altri servizi. Don Gianni, il parroco di Carpenedo, che è pure presidente della Fondazione, ha presentato in maniera brillante l’opera destinata agli anziani in disagiate condizioni economiche. Io, sollecitato dal Patriarca a prendere la parola, ho precisato che ero il “passato prossimo” dell’opera, ma che mi avviavo rapidamente ad essere il “passato remoto”; comunque desideravo affermare con decisione che i Centri don Vecchi vogliono essere un segno visibile, comprensibile e concreto dell’attenzione della Chiesa di Venezia nei riguardi dei fratelli in difficoltà, anche se a molti pare che la Fondazione viva ai margini della vita ecclesiale.

“Gente Veneta”

Nutro la convinzione che criticare per amore non sia solo un diritto, ma un dovere per ogni cristiano, specie quando c’è desiderio di migliorare la qualità della fede e della proposta cristiana. Pure sono convinto che questa critica, porti essa un contributo in positivo o in negativo, sia tanto necessaria da diventare, come ho già detto, un dovere.

Spesso i capi della comunità cristiana o vanno frequentemente fuori sintonia con la sensibilità e le attese del mondo di oggi, o rendono il loro operato poco produttivo perché i loro responsabili, col loro ossequio untuoso e di maniera e con la loro presunta obbedienza cieca, li lasciano soli non offrendo loro motivo di verifica e di confronto.

Io passo per essere un criticone, mentre in realtà ho coscienza di intervenire poco e di non favorire di frequente il dialogo e il confronto, soprattutto nelle questioni controverse. Quando però mi imbatto all’interno della mia Chiesa, in qualcosa di valido, sento altrettanto il dovere di sottolineare questi elementi positivi.

Anche ieri, come ogni venerdì, ho ricevuto “Gente Veneta”, il settimanale della diocesi. Vi ho dato una prima occhiata riservandomi di leggere attentamente i “servizi” più importanti, senza trascurare la cronaca, che offre il polso della vita diocesana. Non penso che il piccolo manipolo di giornalisti che scrive questo giornale abbia delle grosse gratificazioni a livello economico e temo che non le abbia neppure a livello di gratificazione morale, perché quando le cose vanno bene generalmente le si dà per scontate. Io però, che in maniera elementare e marginale bazzico da dilettante entro quel piccolo mondo della stampa, sono in grado di testimoniare, in modo quanto mai convinto, che l’équipe che scrive ed impagina “Gente Veneta” è veramente meravigliosa.

A Mestre fa da protagonista in questo settore, per motivi soprattutto storici, “Il Gazzettino” e, da una decina d’anni, fa da comprimario “La nuova Venezia” che, specie in quest’ultimo tempo, è migliorata alquanto, ma “Gente Veneta” ha ben poco da invidiare ai due quotidiani locali che hanno personale, mezzi tecnici ed economici infinitamente superiori e questa testata dei cattolici non è affatto la parente povera della stampa cittadina.

La piccola équipe, formata da Paolo Fusco, Giorgio Malavasi e Serena Spinozzi Lucchesi, Alessandro Polet e da alcuni collaboratori quali Gino Cintolo, Marco Monaco e qualche altro collaboratore locale, fa degli autentici miracoli offrendo ai lettori servizi quanto mai documentati e sempre puntuali sulle problematiche della vita della città, del Patriarcato e del territorio.

Credo che i cattolici del nostro Patriarcato possano essere veramente orgogliosi e fieri del giornale della Chiesa di Venezia e riconoscenti verso queste persone che lavorano con fede, amore, competenza personale e grande generosità. Peccato che la radio e la televisione, che sono parti integranti di questo strumento pastorale, abbiano dovuto chiudere.

Monsignor Vecchi

Che io abbia stima, riconoscenza ed affetto per il mio vecchio insegnante, prima di lettere, poi di filosofia, ed infine parroco di San Lorenzo, penso sia abbastanza noto. Tra i miei maestri è quello che certamente cito di più e penso di essere stato, tra i suoi allievi, quello che maggiormente ne ha memoria. Ciò, se non fosse altro, per aver dato il suo nome ai cinque Centri don Vecchi.

A Mestre penso che siano veramente pochi i cittadini che non conoscano don Vecchi, anche se spesso solamente per averne sentito ripetere il nome in riferimento agli alloggi per anziani.

Ho già scritto che, per un seguito di vicissitudini, sapevo che il giornalista di “Gente Veneta”, Paolo Fusco, ne aveva scritto la biografia e qualcuno mi aveva pure regalato questo volume, ma l’ho perduto – e solamente, circa un mese fa, avendone avuto in dono una seconda copia dall’ingegner Andrighetti, ho avuto l’opportunità di leggere questa corposa e dettagliata biografia.

In passato non avevo cercato il volume più di tanto, perché pensavo di aver conosciuto molto bene di persona monsignor Vecchi, avendo vissuto accanto a lui in un rapporto molto stretto per moltissimi anni. Ora, avendo terminata la lettura del volume, “Inchiesta su un sacerdote, una chiesa, una città. Valentino Vecchi”, molti aspetti sepolti da decenni sono riemersi alla memoria e altri li ho scoperti in maniera assolutamente nuova. Il biografo deve aver fatto una ricerca veramente certosina scoprendo una documentazione che neppure sapevo esistesse, tanto che anch’io, che pur pensavo di conoscerla bene, con molta sorpresa ne sono venuto solo ora a conoscenza.

Finita la lettura, in maniera globale, non è mutato il mio giudizio nei riguardi del vecchio maestro, però qualche ritocco sono costretto a fare rispetto a come lo ricordavo. Mi soffermo solo su alcuni aspetti assolutamente positivi.

  1. Monsignor Vecchi fu il primo in assoluto a pensare ad una pastorale di tipo globale per le comunità cristiane della nostra città. Se confronto il suo progetto con la situazione attuale, devo concludere che a Mestre in questo campo siamo regrediti di almeno cinquant’anni. I suoi ripetuti, e quasi testardi tentativi, sono andati a vuoto per la passività e il rifiuto di Venezia.
  2. Monsignor Vecchi, nonostante non amasse tanto fare il parroco nella parrocchia che gli fu assegnata – e non si sentisse tagliato per quel “mestiere” – la svecchiò e la portò ad essere, a livello di impostazione pastorale, senza dubbio di smentita, la punta di diamante non solo a Mestre e Venezia, ma pure nel Veneto. Furono veramente tante le iniziative concrete da farne di certo la mosca cocchiera.
  3. A monsignore piaceva parlare, progettare, scrivere e filosofeggiare, però fu il primo, e purtroppo l’unico, a creare gli strumenti concreti perché questa crescita e questa pastorale d’insieme, potessero realizzarsi. Scrissi, e Fusco lo riportò nel suo volume, che Vecchi fu un “generale” di genio, però senza collaboratori, ma soprattutto senza la fiducia e l’appoggio dello “Stato maggiore”.

Scozia docet

O io sono così fragile da lasciarmi suggestionare da certi eventi, o i mass media hanno una tale capacità di suggestionare l’opinione pubblica da rendere importantissimi anche fatti marginali; fatto sta che ho seguito le vicende del referendum tra l’Inghilterra e la Scozia ed ho atteso il risultato con l’ansia con cui avrei seguito un evento che mi riguarda direttamente.

Della Scozia, dei suoi problemi e delle sue vicende conosco ben poco, aldilà delle cornamuse, degli uomini in gonnellino e delle antiche vicende della regina cattolica Maria Stuarda con la relativa decapitazione ordinata da Elisabetta, sua contendente protestante.

Ultimamente mi s’è aggiunta un’altra notizia: pare che nel mare della Scozia vi siano importanti giacimenti di gas e petrolio e perciò gli scozzesi ambiscono di beneficiare da soli dei proventi relativi senza doverli dividere con gli inglesi. Mi pare però che tutto questo non sia sufficiente a giustificare il tifo di un prete ultraottantenne!

La cosa che forse potrebbe essere di qualche mia giustificazione, è la preoccupazione che se la Scozia avesse vinto il referendum, le richieste di autonomia si sarebbero aggiunte a cascata: in Spagna, in Veneto e perfino a Mestre che mal sopporta, ormai da più di mezzo secolo, il “dominio” veneziano.

In questi giorni mi ha colpito un’affermazione del leader scozzese di fronte alle offerte di concessioni che gli inglesi, preoccupati della possibilità di separazione, gli avevano fatto: «Troppo poche e troppo tardi!» Questo discorso, tradotto in italiano, potrebbe essere un monito per il nostro Governo riguardo la richiesta di una maggior autonomia da parte di Zaia, governatore del Veneto, o quella dei promotori del referendum tra Mestre e Venezia e perfino la timida richiesta di autonomia della Chiesa mestrina da quella veneziana. Arriva sempre ad un certo momento il “troppo poco e il troppo tardi!”.

Per quello che riguarda il Veneto, e Mestre in particolare, non mi pare che la richiesta sia così impellente e così grave, ma per quest’ultima dovrebbe far pensare il fatto che questa è la settima volta che Mestre tenta la carta dell’autonomia. Da parte mia non mi pare che si debba battere con violenza la strada della separazione, ma mi parrebbe saggio tenere seriamente conto quella di una maggior autonomia effettiva. Mi pare che sia giunto da un pezzo il tempo di affrontare con pacatezza e con realismo queste richieste che vengono dalla gente.

Sto apprendendo con orrore quanto sia costata all’Ucraina la richiesta di scelte autonome ed ora alla zona nord della stessa nazione, quella parte che è di cultura russa, il desiderio di autonomia.

Non credo che nessuno sia così scervellato e così egoista da voler tornare agli staterelli di un tempo, ma ognuno dovrebbe essere così saggio da permettere che i vari gruppi che hanno cultura, tradizioni ed aspirazioni proprie possano vivere come a loro piace, tentando però di non arrivare a rotture rovinose per tutti.

Per quanto concerne invece il rapporto fra la comunità cristiana di Venezia e quella di Mestre, più che di separazione, si tratterebbe di tener solamente conto della disomogeneità.

I preti veneziani

Non sono mai stato troppo amante di frequentare “il palazzo” o la curia, nemmeno quando ero più giovane. Ora non lo sono anche a motivo dell’età. Ci sono stati tempi però in cui ho avuto un ruolo in certi organi istituzionali della Chiesa veneziana e penso di aver sempre ottemperato al mio dovere di parteciparvi e di farlo in maniera estremamente attiva, perfino troppo!

Adesso sono un osservatore attento, curioso e interessato alla vita del clero veneziano che, pur essendo molto ridotto, conta ancora quasi duecento membri. La mia attenzione si estende dagli ultimi arrivati ai più anziani che conosco molto meglio.

In una delle pochissime occasioni in cui il Patriarca è venuto al “don Vecchi” per un incontro sacerdotale, essendo io il “padrone di casa”, mi hanno fatto sedere vicino a lui. Più che un buon parlatore io sono un buon ascoltatore, ma essendo il Patriarca piuttosto riservato e di poche parole, pranzai piuttosto a disagio cercando con un certo affanno argomenti perché il pranzo non si riducesse ad un mortuorio.

In questa ricerca di dialogo chiesi al Patriarca genovese che cosa ne pensasse dei preti veneziani. (Ora mi pare che il clero veneziano sia abbastanza incolore e poco caratterizzato da personalità forti e particolari. Un tempo però era costituito da un repertorio molto diversificato). Il Patriarca mi rispose abbastanza asciutto che me l’avrebbe detto “fra un anno”. La cosa è finita lì perché non ho avuto altre occasioni per incontrarlo.

Oggi, appena aperta “Gente Veneta”, il periodico della diocesi, mi è balzata agli occhi una lunga lista di trasferimenti di preti da un incarico all’altro e, per una strana associazione di idee, m’è venuta in mente la battuta dell’anno scorso sulla qualità dei preti veneziani. Evidentemente, una volta conosciuti i preti, il Patriarca ha cominciato a porre in atto una sua strategia particolare per rivitalizzare la Chiesa veneziana che mi pare abbastanza appiattita, passiva e rassegnata. I nuovi incarichi, le rimozioni e i trasferimenti, mi sembrano molto consistenti a livello numerico. Mi auguro tanto che questi “rimescolamenti delle carte” abbiano buon esito.

Per Mestre di significativo c’è il cambio del parroco del Duomo, per il resto non mi pare ci sia un granché, soprattutto mi sembra di avvertire che sia scomparsa ormai completamente l’intenzione di dare volto ad un progetto pastorale cittadino ed unitario per questa città, che invece anela ad una sua autonomia, ad una sua specificità perché è notevolmente diversa da quella insulare.

In un tempo in cui c’è ancora in ballo un referendum per la separazione, questo orientamento mi preoccupa un po’.

Cambio al timone della Caritas veneziana

Il solito giornalista ben informato della curia, Alvise Sperandio, ha firmato questa mattina sul Gazzettino un trafiletto con varie notizie sui cambi di incarichi che normalmente avvengono con l’inizio dell’autunno nella Chiesa veneziana.

Ho letto con piacere una notizia che aspettavo da più di vent’anni: il cambio del direttore della Caritas veneziana. Monsignor Pistolato lascia la direzione e gli subentra un diacono permanente che ha appena ricevuto dal Patriarca l’ordinazione diaconale.

Monsignor Pistolato è ormai al vertice della Chiesa veneziana e perciò, molto opportunamente, il Patriarca l’ha sostituito con un uomo nuovo e con più tempo a disposizione. Mi pare ormai un luogo comune la constatazione che la permanenza di una persona, ad esempio un prelato, su un determinato compito, finisca per ingessare l’organismo a cui egli è preposto, mentre si spera che l’alternanza possa vivacizzare un organismo quanto mai importante all’interno della Chiesa, qual è la Caritas.

Io, non solamente perché da una vita mi occupo di questo aspetto vitale della Chiesa, ma soprattutto perché la gestione e la promozione della solidarietà, le ritengo importanti almeno quanto la catechesi e il culto, ho seguito sempre con molta attenzione questo settore della Chiesa; spesso ne sono stato pure un critico che ha tentato di pungolare e proporre, però con ben pochi risultati. Di certo sarà dipeso dal mio fare di inesperto, o forse anche da una divergenza di impostazione e di scelte ideali, fatto sta che attualmente nelle parrocchie l’organizzazione della carità langue quanto mai. Inoltre non mi sono mai accorto dell’esistenza di un progetto globale che metta in rete le varie iniziative rendendole quindi più efficaci nei riguardi dei poveri che hanno diritto di beneficiarne, e più capaci di esprimere il cuore della Chiesa veneziana.

Non conosco assolutamente il nuovo segretario della Caritas, non conosco le sue idee e i suoi programmi, comunque al più presto mi metterò in contatto con lui per fargli conoscere il “Polo solidale” del “don Vecchi”, per ricordargli che esiste una realtà chiamata Mestre, che la carità soprannaturale se non diventa operativa è pura aria fritta e soprattutto per chiedergli un progetto in cui tutte le realtà ed iniziative esistenti siano messe in rete facendo sì che le risposte alle attese dei poveri siano non solamente simboliche, ma reali.

Mi auguro che la conoscenza dell’esistente, delle forze in campo e dei bisogni della nostra gente, facciano sbocciare una sinergia che esalti questa dimensione della nostra Chiesa.