Quarant’anni fa un racconto su una famiglia meridionale e su un parto sopra una stalla fece arrabbiare la Mestre `bene’. Adesso l’emergenza e il grido di aiuto sono reali: di nessuno abbandoni questo `San Giuseppe’ immigrato. Il Natale ha senso se si riconosce Cristo incarnato nei poveri, nei sofferenti che rinnovano la grotta di Betlemme.
Dei natali della mia infanzia, ricordo il presepio con le montagne di cartone e il laghetto fatto con un vecchio specchio, Gesù bambino e le statuine, di gesso. Nonostante la proibizione dei miei genitori, noi fratelli non riuscivamo a non toccare, facendole quindi cadere con dispiacere e rimorso, come se avessimo fatto un gran danno in famiglia. Ricordo ancora la messa a mezzanotte, con un cielo non ancora “affumicato”, in cui le stelle brillavano come perle preziose e la terra era sempre coperta di ghiaccio e spesso anche di neve.
Del tempo del Seminario, il mio Natale era liturgico, quasi che Gesù non sarebbe disceso volentieri dal cielo se le candele non fossero state dritte, le vesti del prete e dei chierichetti bianche e immacolate, i fiori ordinati e le colonne della chiesa avvolte nei damaschi rossi.
Il volto del Bambinello cambiò progressivamente ed in maniera radicale quando, da giovane prete, il Natale lo celebravo a san Lorenzo con una chiesa gremita di giovani seduti per terra, canti ritmati dalle chitarre ed un Gesù atteso come un rivoluzionario alla Che Guevara piuttosto che portato in terra da angeli osannanti. Eravamo nel sessantotto e la contestazione toccava persino il volto del Redentore. I miei ragazzi, ma pure il loro giovane prete, aspettavano più il figlio dell’uomo che il figlio di Dio: un Redentore che finalmente facesse giustizia nella società iniqua e ingiusta. Il mio Natale cominciò ad umanizzarsi ed incarnarsi nelle attese e nelle sofferenze dei poveri. In quella stagione nacque il “Caldonatale”. Un centinaio di ragazzini scouts, con tricicli e motorini presi a noleggio, cominciarono a portare nelle case dei poveri le “uova” di carbon coke che il presidente della Save, l’ingegner Re, su intercessione di monsignor Vecchi, ci donava, mentre il Cavalier Dell’Abaco ci mise a disposizione un camion di antracite e la Breda gli stampi in legno dei manufatti che produceva. A pensarci oggi, quella mi sembra una bellissima avventura, ma a quei tempi fu un dramma: la ventina di tricicli, alcuni a pedali altri a motore, montati da ragazzi tra i dodici e quattordici anni, girare da mane a sera per strade affollate da automobili; per loro fu un’impresa ma per me un’angoscia mortale. Comunque quel Gesù vestito da povero, al quale i miei ragazzi portavano legna e carbone, mi piaceva sempre di più! In quel tempo cominciavamo pure alla San Vincenzo a far Natale distribuendo “Buoni Caldo” ai più derelitti della città.
Fatto parroco a Carpenedo inventammo il pasto di Natale per “Gesù bambino e la sua famiglia”. I parrocchiani, ai quali un paio di settimane prima di Natale avevamo fornito le borse, le riportavano piene zeppe di generi alimentari. Pure a ogni negozio fornivamo le ceste per la carità. I ragazzi poi, durante la “messa della carità” accostavano davanti all’altare giocattoli, vestiti, dolci per il Gesù che qualche giorno dopo sarebbe arrivato.
La chiesa gremita di ragazzi, genitori e nonni offriva uno spettacolo veramente emozionante. Era un Natale anticipato che neppure gli angeli avrebbero potuto rendere più bello!
A quel tempo, prima invitavamo gli anziani e i poveri a pranzare, il giorno di Natale, in canonica assieme al parroco, poi, essendo i locali inadeguati perché troppo piccoli trasferimmo il pranzo di Natale al Ritrovo degli anziani in via del Rigo, nella sala capace di una cinquantina di coperti. Di quel volto di “Gesù bambino” finii per innamorarmi follemente: non avrei potuto riconoscerlo altrimenti, neppure fosse vestito come re Davide o la regina di Saba!
Il Natale dell’ultima stagione della mia vita lo sto vivendo da dodici anni al “don Vecchi” assieme a “Gioacchino e Anna”, genitori della Madonna, nonni di Gesù e suoceri di san Giuseppe. Il “don Vecchi” è già di per se stesso un presepio ogni giorno dell’anno, perché in esso c’è un Gesù vivo e reale anche dopo la sua morte.
Al “don Vecchi” la solidarietà dà volto al Risorto, motivo per cui ogni giorno si celebra sia Natale che Pasqua come dice il canto sacro: “Ubi caritas, ubi Deus”!
Comunque anche i nostri anziani sentono il bisogno di fare ogni anno un presente a Gesù bambino, infatti nella hall del don Vecchi, con l’Avvento, è stato posto un cassone che potrebbe contenere un miliardo e anche più di euro, con la scritta “ogni giorno una scodella di latte per i Gesù, bambini neri come l’ebano, che mia sorella Lucia ha scoperto dimorare a Wamba, un villaggio sperduto nella savana keniota.
Questo è il Gesù bambino che lungo le stagioni della mia vita ho scoperto e che per me ha il volto più reale e sicuro del Figlio di Dio da conoscere, amare e servire. Questo Gesù mi ha liberato dal magico, dalla leggenda, dal rito e dal folclore e ha ancorato la mia fede alla vita reale di tutti i giorni e agli uomini bisognosi di aiuto e di amore.
Senonché martedì 6 dicembre di quest’anno, giorno della seconda settimana di Avvento, mentre stavo prendendo la mia “Punto” per distribuire L’Incontro, suor Teresa, che doveva aiutarmi, prima di entrare in auto già con il motore acceso, si è fermata a parlare con un giovane sui trent’anni. Quando finalmente entrò in macchina, mi raccontò che quel giovane era venuto al don Vecchi per chiedermi aiuto, confessando che la sua giovane sposa è al terzo mese di gravidanza, vivono in un garage al freddo, senza luce e senza acqua e non riescono a trovare un alloggio perché il loro “Gesù” non nasca in quello squallore. Questo giovane fa il panettiere e quindi può pagarsi l’alloggio, ma la nostra gente non si fida di questo extracomunitario. Circa quarant’anni fa, si era di Natale anche allora, scrivessi per il periodico della San Vincenzo, “Il prossimo”, un racconto in cui narravo che due coniugi del Sud, a quei tempi c’era l’enorme salita di immigrati al Nord provenienti dal Sud d’Italia, giunti a Mestre cercavano affannosamente alloggio perché la giovane sposa aspettava un bimbo. Li inviai alla San Vincenzo, alle varie parrocchie, ma ottennero sempre un rifiuto dopo l’altro. Allora li indirizzai alla sede della Croce Rossa di Mestre, ma le Dame erano intente a preparare i regali per Natale e quindi neppure li ricevettero. Infine, deluso e disperato li mandai alla casa colonica dei Pettenò che si trova, ora restaurata, vicino al cavalcavia dei Quattro Cantoni. Sapevo che quella gente di buon cuore ospitava talvolta qualche povero offrendo di dormire nel fienile, dove pure questi due coniugi furono accolti, e Gesù nacque quindi sopra la stalla! In quel frangente il presidente della Croce Rossa, che era un ammiraglio in pensione, minacciò di farmi querela perché avevo sparlato delle sue Dame. Quella storia però era un racconto, inventato ma verosimile, mentre la richiesta di martedì 6 dicembre è tragicamente reale! Non vorrei proprio che quest’anno Gesù fosse costretto a nascere in un garage della periferia! Per scongiurare questo evento fornisco ai quindici – ventimila lettori de L’Incontro il nome di “San Giuseppe”, il futuro padre, e il suo cellulare. Cari amici, vi prego non macchiamoci quest’anno di un ulteriore rifiuto ed assieme facciamo in modo che finalmente Natale sia veramente Natale per tutti noi! Se avete dubbi, telefonatemi direttamente. Solamente dando una risposta positiva a questa richiesta di alloggio, a Mestre nascerà il vero Gesù e non quello di gesso, dei panettoni e delle luminarie allestite dal Comune nelle strade più importanti di Mestre.