Parroci e parrocchie

L’arco di tempo in cui sono stato un attento osservatore delle problematiche dei sacerdoti e delle relative parrocchie è ormai consistente, tanto che mi sono fatto una visione complessiva abbastanza documentata.

Ai tempi della mia fanciullezza le parrocchie erano sufficientemente fornite di sacerdoti; ognuna aveva oltre il parroco, uno o due cappellani, e siccome erano parecchi i sacerdoti che ambivano a diventar parroci, c’era perfino un concorso con degli esami per esser nominati parroci nelle parrocchie che si rendevano vacanti.

Quando ero un giovane prete, intorno agli anni cinquanta-sessanta, tempo in cui ci fu, da un punto di vista canonico, un momento estremamente favorevole, si costruiva un po’ ovunque, tanto che si crearono nuove parrocchie e si smembrarono quelle più numerose. La dottrina di fondo era che il sacerdote poteva seguire meglio una comunità non troppo numerosa.

Con il tempo della contestazione ci furono parecchi preti che smisero la tonaca, il seminario si svuotò in maniera vistosa e iniziò un calo progressivo di preti, tanto che ai nostri giorni non solo non ci sono più cappellani nelle parrocchie, ma si è cominciato ad accorparle sotto la denominazione “unità pastorali” che in pratica è una foglia di fico per tentare di nascondere la mancanza di preti.

L’andamento che nella nostra diocesi – mi pare – si sia scelto, è quello di “stiracchiare la coperta” che comunque è troppo corta. Io speravo invece che ci si orientasse a creare parrocchie più corpose con una, seppur piccola, comunità sacerdotale, ma pure con un organigramma di addetti laici giovani, uomini e donne, preparati nei settori specifici (catechesi, stampa, gioventù, evangelizzazione) regolarmente assunti e pagati per operare in stretta collaborazione con la comunità sacerdotale. Mi pare che si sia invece pensato che questa funzione possa essere svolta dai diaconi o dagli accoliti; in realtà l’esperimento non mi sembra affatto riuscito sia per l’età che per la mentalità degli elementi che si avviano al diaconato o all’accolitato.

Lo “zoccolo portante” delle parrocchie, sul quale si possono aggregare i volontari, deve avere una garanzia economica e soprattutto una valida professionalità specifica. Io sono fiducioso perché ho sempre avuto modo di osservare come la vita, la storia, ma soprattutto la Provvidenza, alla fin fine abbiano sempre la meglio. Però, se non si fanno scelte oculate, il cammino diventa più lungo, più tortuoso e soprattutto con “prezzi” pastorali assai elevati.

Perché io, povero vecchio prete, scrivo questo? Possibilmente per aiutare i responsabili a far meno errori.

19.06.2014

Il duetto

Quando mi alzo alle cinque e un quarto, fuori è già bello chiaro, come dissi altre volte. Dopo essermi lavato e aver riordinato la camera da letto “dico il breviario”.

In verità io continuo, secondo la vecchia tradizione, a definire l’adempimento di questa preghiera ufficiale della Chiesa ed imposta dai canoni del codice canonico “recita del breviario”, mentre nei rari incontri di sacerdoti ai quali partecipo, specie i giovani preti, definiscono questo atto di culto: “pregare il breviario” oppure, quando si tratta della corona: “pregare il rosario”.

Mi pare che il verbo “pregare” significhi chiedere con convincimento ed insistenza. Quindi, nel caso dei preti e della preghiera ufficiale, la recita del breviario corrisponde a chiedere aiuto o glorificare il Signore mediante le parole di questo testo, mentre “pregare il breviario” mi dà la sensazione di rivolgermi ad un piccolo “idolo di carta”.

Comunque, se questa è una moda, passi pure, però io non ci sto. Pure Balotelli ha lanciato la moda di radersi la testa lasciando al suo culmine una striscia di capelli come i moicani d’America ed una folla di adolescenti o di giovani bulli lo seguono. Io però credo sia poco serio, anzi infantile, che pure i preti siano condizionati dalla “moda” lanciata da certi teologi.

Recito il diario nella stanzetta d’ingresso, col breviario appoggiato al tavolo sul quale sono solito anche pranzare. Di solito spalanco la porta-finestra che dà sul terrazzino oltre il quale c’è una fila di alberi che separano il “don Vecchi” dal grande campo verde sul quale sognavo di costruire la “cittadella della solidarietà” ma che invece, non so per quali motivi, la Società dei 300 Campi che ne è proprietaria, lascia incolto. Comunque, il vecchio parroco di viale don Sturzo, che in questi giorni è andato in pensione, e i suoi parrocchiani, non solamente non vedevano di buon occhio l’iniziativa, ma si erano decisamente opposti al progetto.

La mia recita del breviario è assolutamente solitaria, ma da qualche tempo a questa parte s’è unito un uccello che comincia a cantare quando mi faccio la croce d’inizio e termina quando mi segno alla fine. Mi vien da pensare che questo uccello all’alba del nuovo giorno senta anche lui il bisogno e il dovere di ringraziare e di chiedere aiuto al Signore. Il mio compagno di preghiera ogni mattina gorgheggia con toni spesso striduli e sempre misteriosi, toni che io non capisco assolutamente ma che comunque il Signore di certo non solo comprende, ma pure gradisce.

Il modo del mio compagno di preghiera di cantare la gloria di Dio e chiedere il suo aiuto mi conforta quanto mai perché, se il buon Dio capisce ed accetta questo cinguettare incomprensibile, e talora perfino stridulo, spero che accetti anche il mio salmodiare che non riesce a seguire il filo del discorso dei salmi e dei padri della Chiesa, ma che comunque leggo per lodare e ringraziare il buon Dio.

18.06.2014

Il nuovo “vescovo” di Mestre

Il Gazzettino ha pubblicato, senza troppo rilievo, la nomina di don Gianni Bernardi a parroco della più importante parrocchia di Mestre: il duomo di San Lorenzo. Questa nomina mi ha interessato molto di più di altre che sono state annunciate e già poste in atto durante questi ultimi mesi. Il motivo di questo interesse nasce dal fatto di esser vissuto e di aver esercitato il mio ministero sacerdotale per quasi una ventina d’anni in quella comunità parrocchiale in tempi particolarmente significativi, prima con monsignor Aldo Da Villa e poi con monsignor Valentino Vecchi, ai tempi della contestazione del sessantotto che impose alla Chiesa una verifica di fondo.

Posso affermare con tranquillità che se a qualcuno venisse in mente di scrivere la storia della Chiesa a Mestre, dagli anni cinquanta del secolo scorso ad oggi, dovrebbe scrivere soprattutto la storia della parrocchia di San Lorenzo perché è di certo l’unica realtà che ha dato un volto significativo alla vita cristiana a Mestre e che ha dialogato con la città e con le sue componenti civili. Questo è avvenuto indipendentemente dagli incarichi ufficiali che sono sempre stati piuttosto formali che reali, a motivo della forte personalità di Da Villa, di Vecchi e, ultimamente di Bonini. Ho sempre avuto la sensazione che la curia veneziana abbia avuto quasi un complesso di inferiorità nel trovarsi di fronte, specie per il passato, ma anche ora, una Chiesa mestrina giovane, aperta, consistente e intraprendente, mentre ove risiede il governo del Patriarcato c’è una situazione di stallo con aspetto sì supponente, ma in realtà vecchio, povero e infossato in una tradizione stanca e povera di vitalità.

In passato, forse intuendo questa situazione, s’è aggiunto al titolo di parroco di San Lorenzo, che la gente ha promosso in maniera autonoma, Duomo, qualche incarico, quale “delegato per la terraferma”. Queste “deleghe” sono state sempre piuttosto formali, forse temendo che una Chiesa, qual è quella di Mestre, numerosa almeno tre volte tanto quella insulare e più giovane di almeno due generazioni, finisse per “prevalere” sulla sede vescovile. Per questo motivo monsignor Vecchi, in tempi ormai lontani, s’era perfino pensato e mosso qualche passo perché ci fosse a Mestre una sede patriarcale, mettendo gli occhi su Villa Tivan, però poi non se ne fece nulla e le deleghe date al titolare del duomo si dimostrarono inconsistenti perché solo di facciata.

Don Fausto, che mi pare avesse solo la delega al dialogo con le autorità civili, pare che non si sia mai avvalso della nomina, ma in realtà si è imposto per la sua forte personalità e per aver offerto alla città un modello di parrocchia assolutamente valido, innovatore ed efficiente.

Mi auguro che il nuovo parroco del duomo, con deleghe o senza deleghe, sappia che comunque dovrà essere per Mestre almeno un “vice vescovo”, o comunque un sacerdote ed un parroco di riferimento per l’intera città e soprattutto per le altre parrocchie.

17.06.2014

Città amica

Ho imparato dal patriarca Roncalli che quando si ha a cuore un problema bisogna parlarne un po’ con tuti, perché da qualche parte c’è di certo qualcuno che è disposto a darti una mano; l’importante è incontrare questo qualcuno. Monsignor Vecchi mi ha poi ripetuto mille volte che i soldi meglio spesi per un prete sono quelli che lui investe nei mass media per passare il suo messaggio.

Penso di aver fatto tesoro di questi insegnamenti. Ho speso una barca di soldi per comunicare ai concittadini i miei sogni e i miei progetti. Ho speso un patrimonio per Radio Carpini, le riviste parrocchiali, il mensile “Carpinetum” e “L’Anziano”, il settimanale “Lettera aperta” ed ora “L’Incontro”. Dire che stampiamo e distribuiamo ogni settimana cinquemila copie del periodico può sembrare quasi una notizia banale; vedere però una pila alta un metro e mezzo di fogli A3 è tutt’altra cosa! Eppure ogni settimana si ripete anche questo “miracolo”.

Le spese sono davvero notevoli, ma il “ritorno” è di gran lunga superiore; se non fosse altro la ventina di miliardi spesi per i cinque Centri don Vecchi ne sono la riprova. Non passa giorno che qualcuno si offra di collaborare, che i funzionari delle varie società non agevolino le pratiche, che qualche altro non offra denaro, piante, mobili, tappeti. La superficie dell’ultima struttura è immensa, perfino troppo grande, però non c’è angolo che non offra qualcosa di bello.

Questo riscontro poi, a livello materiale è solo un aspetto, quello però a livello umano e sociale è di certo di gran lunga superiore. Non c’è luogo dove non incontri gente che mi saluta con affetto e deferenza, forse illudendosi che io sia un personaggio che in realtà non sono. Credo di riconoscermi solamente una certa coerenza, un impegno serio e costante al lavoro ed una disponibilità assoluta alle richieste del prossimo. Ho sempre preso sul serio la parabola della pecorella smarrita perché ho scelto che la sorte di nessuno mi sia indifferente. Sono pure convinto che da ognuno abbia qualcosa da ricevere e a cui donare.

Però, per fare tutto questo, bisogna abbassare il ponte levatoio, abbattere lo steccato attorno alle parrocchie, esser coscienti di avere il messaggio più valido e soprattutto aprire un dialogo con tutti. Io non mi sono mai arreso a pensare che la parrocchia sia costituita da quel 10, 15…… per cento che viene a messa alla domenica, perché tutti gli uomini indistintamente sono figli di Dio e fratelli nostri. Sono immensamente grato ai miei “maestri” e mi piacerebbe tanto poter passare anche ai colleghi vecchi e giovani, queste convinzioni che danno respiro alla vita.

06.07.2014

Fede e ragione

Uno dei grandi problemi che hanno tormentato la coscienza dei credenti responsabili e dei laici onesti soprattutto nel passato, è stato “Il rapporto tra fede e ragione”. Il problema è presente anche oggi, ma a me pare meno violento, meno astioso, anzi più corretto, rispettoso e nobile tra i rappresentanti più intelligenti e più onesti delle due sponde opposte.

Di certo questo discorso non può essere affrontato correttamente e con qualche risultato tra bigotti o credenti esaltati da una parte e dall’altra atei militanti faziosi e in cerca di battute ad effetto, o motivazioni che giustificano una condotta amorale.

Ultimamente ho letto lo scambio di opinioni tra Scalfari e il cardinal Martini e lo stesso giornalista e papa Francesco e ne sono rimasto edificato per la pacatezza, il rispetto e lo spirito di comprensione e di ricerca che ho avuto modo di cogliere tra i “contendenti”. Ora sto completando la lettura di uno scambio epistolare tra Umberto Eco e lo stesso cardinal Martini e vi trovo lo stesso garbo, spirito di ricerca, rispetto e comprensione reciproca. Se il dialogo e il confronto avvenisse sempre con questo stile, sono portato a pensare che ne risulterebbero arricchiti gli uni e gli altri.

Per quanto mi riguarda personalmente mi sono sempre rifatto ad una sentenza che penso ci sia stata offerta dalla “scolastica”, ossia da san Tommaso d’Aquino: “Credo ut intelligam et intelligo ut credam”. Il senso di questa affermazione credo sia pressappoco questo: “Tento di indagare, di cercare e ragionare per dare supporto e giustificazione alla mia fede e uso la fede per giungere oltre la mia comprensione del mistero in cui sono immerso”.

Su questo assioma poggia la mia testimonianza di cristiano e di sacerdote; questo vale per la mia vita personale, ma vale pure per il mio impegno pastorale nei riguardi dei fedeli, degli agnostici e pure dei non credenti che incontro sul mio cammino. Tutto questo tento di viverlo con umiltà e con rispetto, specie nei riguardi della fragilità dei semplici e delle persone con poca cultura, però questo è il filo conduttore del mio pensare e del mio agire.

Fatta questa affermazione, debbo pur confessare che ogni mia professione di fede passa per un crogiolo di domande, di verifiche, spesso faticoso e sofferto, però mi guardo bene dal vendere fumo o “articoli” della cui bontà non sono convinto. Sono quindi portato a scartare in partenza rivelazioni, apparizioni e pratiche che sanno di portento o di facile miracolo.

Quanto sono convinto della creazione, della paternità di Dio, del suo dialogo con le creature, altrettanto rifiuto tutto quello che sa di magico e talvolta perfino di miracoloso viene fatto passare come pensiero di Dio. Lascio volentieri ad altri farsi propagandisti di paccottiglia religiosa, perché il Dio in cui credo è un Dio serio e non da baraccone.

03.07.2014

La mosca bianca è la cocchiera

Ho già raccontato questo episodio, ma credo che non solo sia giusto quello che affermava la sapienza di Roma antica “che i vecchi hanno diritto di dimenticare”, ma – io aggiungo – hanno pure il diritto di ripetersi.

In forza di questa sentenza ripeto che un giorno che ero particolarmente amareggiato perché avevo l’impressione che i miei vecchi parrocchiani mi lasciassero solo e non mi dessero una mano nelle difficoltà, mio padre mi disse: «Non preoccuparti, su un centinaio di persone ce ne sono certamente due o tre che hanno la mania di lavorare; punta su quelle». Ed un altro amico sacerdote, quanto mai saggio, in un momento di sconforto che stavo passando, mi disse pure: «Non conosci due tre persone che stimi, che ti sembrano sagge e generose?». Al che, io risposi di si. Allora lui soggiunse: «Segui le loro tracce e vai avanti».

Mi pare d’essere arrivato anch’io alla certezza che in ogni categoria di persone ed in ogni tempo c’è sempre qualcuno che esce dal gruppo e testimonia con la sua vita l’onestà, la coerenza, l’impegno, lo spirito di servizio … . Queste persone spostano i paletti in avanti e affermano, con il loro esempio, che c’è pure chi fa meglio, salvando così la loro categoria e il loro tempo.

Pare che anche il buon Dio sia di questo parere. Successe quando Abramo, di fronte alla decisione del Signore di distruggere le città di Sodoma e Gomorra per i vizi che albergavano in quelle comunità, “contrattò” con Lui dicendo: “non salverai quella città se vi sono almeno cento giusti…? e procedette nel contrattare fino ad ottenere che il Signore avrebbe salvato le due città anche se vi fossero stati soltanto dieci giusti.

Applico il discorso ad uno studio che mi è capitato di leggere un paio di settimane fa e che presentava un prete che fu parroco di Zelarino intorno al settecento, Quel secolo è stato quanto mai deludente a livello di sacerdoti: ce n’erano una caterva, erano poco preparati, sempre a caccia di prebende per avere una vita agiata. Ebbene, in questo contesto assai deludente, questo parroco ha lasciato una testimonianza veramente luminosa affermando che i preti ricevono sì l’incarico dal vescovo, ma hanno il loro potere che deriva direttamente da Gesù perché è stato lui stesso a volere non solo gli apostoli, ma anche 72 discepoli. Ma soprattutto quest’uomo ebbe le idee così chiare sul dovere di rendere partecipi i poveri dei frutti del “beneficio” (ossia della rendita ecclesiastica) che leggendo quel saggio mi è parso di sentir parlare don Mazzolari o don Milani, tanto sono attuali e di una radicalità evangelica le sue convinzioni.

Il Signore non fa mai mancare in nessun tempo i suoi messaggeri e i suoi profeti; per salvarsi dalla desolazione e dalla mediocrità, basta cercarli, individuarli e seguire queste testimonianze anche se poche e non vincenti.

28.06.2014

Voltandosi indietro

Il Patriarca Roncalli era, tra l’altro, uno studioso particolarmente esperto della storia ecclesiastica in generale, ma in particolare di quella del Lombardo-Veneto. Da quanto poi ho avuto modo di comprendere, non era uno storico del particolare come il professor don Antonio Niero, che era un fine e incomparabile conoscitore di situazioni, fatti, tradizioni, per cui la storia diventava quasi un puzzle di aneddoti ed episodi. Il nostro vecchio patriarca procedeva per sintesi di grandi periodi storici, offrendo all’ascoltatore la linea di tendenza e l’evoluzione di quanto soprattutto riguardava la nostra Chiesa.

Roncalli non aveva una chiave di lettura per aprire i singoli cassetti del farsi della storia, ma procedeva per grandi sintesi che facevano comprendere il percorso e l’evolversi della realtà da cui proveniamo e nella quale siamo immersi. Ricordo che un giorno, parlando con noi seminaristi, giustificò il suo ottimismo di fondo mostrando che l’evoluzione delle vicende della Chiesa volge sempre verso il positivo ed affermando che mai nel passato la Chiesa era stata così sana ed evangelica come nel nostro tempo.

Sono riandato a questo giudizio positivo sull’evolversi del Cristianesimo del nostro tempo che Papa Roncalli sottolineava a noi (quanto mai allora pessimisti sugli orientamenti della Chiesa), essendomi capitato in mano, in maniera del tutto casuale, uno studio della Fondazione Cini sull'”Ordinamento parrocchiale veneziano alla fine della Serenissima Repubblica”. Il testo mi ha incuriosito quanto mai perché documentava come venivano scelti i parroci nella diocesi di Venezia fino all’inizio dell’ottocento.

Qualche giorno fa ho confidato in una pagina di questo diario come io oggi vedrei configurata una parrocchia, auspicando una radicale riforma di quella attuale. Dopo la lettura dello studio suddetto mi accorgo che in questi due secoli se n’è fatta di strada e tutta decisamente in positivo.

Leggendo lo studio della Fondazione Cini ho capito che la parrocchia in quei tempi lontani offriva la possibilità per un prete di ottenere una prebenda che garantiva, oltre al privilegio, una condizione economica favorevole. Tutto il contesto ecclesiale accettava allora supinamente questa situazione.

Un tempo la scelta del parroco veniva fatta dai parrocchiani, e questo, a nostro giudizio, era un fatto democratico, in quanto si sceglieva il sacerdote più rispondente alla comunità. Purtroppo, dall’analisi di questi studi, ho capito che questo era invece un meccanismo complesso in mano a coloro che possedevano i fabbricati entro i confini della parrocchia. Tutto sommato credo che i criteri che i nostri vescovi oggi adottano per scegliere i parroci siano molto più illuminati ed aderenti ai veri bisogni delle singole comunità parrocchiali.

E’ vero pure che, nonostante tutto, la religiosità del nostro tempo, nonostante si sia affievolita la presenza ai riti, è sostanzialmente più sentita di quando tutti i fedeli andavano a messa e si comunicavano a Pasqua. Rimane vero che “gli uomini si muovono ma è Dio che li conduce”. “E, affermerei io, sempre verso il meglio!”.

20.06.2014

“La carica dei 170”

Questa mattina, mentre tornavo dalla celebrazione della messa in cimitero, ho incrociato una fila infinita di ragazzini che percorrevano via Vallon per raggiungere qualche meta nelle propaggini della periferia della nostra città.

La prima sensazione alla vista di questi ragazzini, tutti con la maglietta rossa e lo zainetto in spalla, è stata quella di uno squadrone di “giubbe rosse” guidate da giovani ufficiali in perlustrazione della zona. Poi l’immagine si coniugò ben presto con un’informazione che don Gianni, il mio giovane successore come parroco a Carpenedo, mi aveva data qualche giorno prima, quando ancora funzionavano i baracconi della sagra. Le adesioni al grest (gruppo estivo, ossia una proposta di attività in tempo di vacanza), ammontavano quest’anno a ben 170 elementi tra ragazzi ed educatori.

Lo squadrone che ho incrociato stava dirigendosi verso il boschetto che l’antica “Società dei trecento campi” mi aveva messo a disposizione in fondo a via Vallon, concedendomelo con atto ufficiale come segno di riconoscenza quando uscii dalla parrocchia di Carpenedo. Per molti anni parve che la parrocchia non sapesse cosa farsene di quello spazio erboso popolato da alberi che ormai hanno raggiunto vent’anni di età. Una comunità viva poi ha capito quale risorsa potesse offrire quello spazio solitario raggiungibile in dieci minuti a piedi dalla parrocchia.

Mentre guardavo commosso e compiaciuto quella lunga fila di ragazzini festosi e felici che sognavano giorni di gioco ed avventura, il mio pensiero si spinse un po’ più avanti nel tempo: tra luglio e agosto altri 200 ragazzi scout della stessa comunità pianteranno le tende nei luoghi più diversi ma sempre belli delle nostre Alpi, e forse altrettanti soggiorneranno alla Malga dei Faggi nell’Agordino.

In questi giorni qualche anima bella mi ha fatto pervenire una busta piena di bollettini parrocchiali raccolti qua e là: una vera desolazione! Solo annunci di riduzione delle messe festive, di pausa per la stampa parrocchiale. Quando per i preti che seguono l’esempio di Papa Francesco, che rinuncia alle vacanze e continua a “lavorare”, i mesi estivi sono il periodo più propizio per “la grande semina” che darà frutti nei prossimi decenni. Quelle centinaia di ragazzi che vivranno assieme ad un testimone di Gesù i momenti più belli della vita, non potranno mai dimenticare il loro “don” e soprattutto il suo messaggio e la sua testimonianza.

La nuova evangelizzazione passa solamente per questa strada; le altre sono fabulazioni fasulle che non portano da nessuna parte.

17.06.2014

Le “vacanze” del Papa

Ieri, 15 giugno, il Gazzettino ha dedicato al fondo di una pagina interna la notizia che trascrivo integralmente. Posso capire che la stampa consideri di serie B o C una notizia del genere, ma per me, prete cristiano, questa è una notizia che metterei in prima pagina.

Il Papa, fino a pochi anni fa, era considerato non solamente il successore di San Pietro, ma pure un “sovrano”. L’apparato del Vaticano ha questa impronta. I Papi precedenti a Papa Francesco, in verità sempre in maniera più attenuata, comunque si sono adeguati a questo clima e a questa mentalità. Anche le belle figure di Papa Wojtyla e di Papa Ratzinger non si sono scrollate di dosso quel ruolo e, pur essendo dei santi pontefici, si sono inseriti nell’antica tradizione dello Stato Pontificio.

Papa Francesco, però, ha saltato decisamente il muro e nei mesi estivi rimane in Vaticano perché forse il mondo non comprenderebbe un pontefice che abitasse in una casa popolare della periferia di Roma. Comunque trascrivo la notizia perché penso sia bene che anche chi non legge il Gazzettino la conosca.

VATICANO – Bergoglio come l’anno scorso rinuncia alle ferie estive
Il Papa: sui poveri troppe parole e niente fatti
«Troppe parole, troppe parole, e non si fa niente: questo è un rischio» ha detto il Papa preoccupato. «Tante informazioni e statistiche sulle povertà e le tribolazioni umane», finiamo «spettatori informatissimi e disincarnati di queste realtà». Il rischio di parlare troppo e non fare niente «non è il vostro – dice Francesco ai 60 mila in Piazza San Pietro – voi delle Misericordie lavorate bene». Ai convenuti da tutta Italia per il raduno delle Misericordie e dei gruppi Fratres di donatori di sangue, papa Francesco ha offerto vicinanza e attenzione e un discorso teso a incoraggiare la imitazione di Gesù nell’atteggiamento verso i sofferenti. Ha ricordato che misericordia viene dal latino «miseris cor dare», cioè «dare il cuore ai miseri».
Malgrado gli episodi recenti di affaticamento che lo hanno costretto ad annullare vari impegni, come nel 2013 Bergoglio rinuncerà quest’anno al tradizionale periodo di ferie – Wojtyla e Ratzinger soggiornarono in Cadore, Val d’Aosta e Alto Adige – e alla trasferta estiva nella residenza papale di Castelgandolfo ora aperta al pubblico per le visite ai giardini pontifici. Bergoglio terrà regolarmente la preghiera dell’Angelus tutte le domeniche dal Palazzo apostolico, eccetto durante il viaggio in Corea del Sud -13-18 agosto – per la Giornata della Gioventù asiatica. A Ferragosto, dunque, non ci sarà la messa dell’Assunta a Castel Gandolfo.

Vi aggiungo poi un appunto per giustificare il mio interesse quasi morboso a questa notizia. Eccovi la vicenda: parecchi anni fa il Gazzettino, a proposito dei quindici giorni di vacanza del Papa in Cadore o in Val d’Aosta, scrisse che, tutto sommato, venivano a costare venti milioni. In una pagina di diario scrissi pressappoco “Caro Papa, ritengo non sia lecito accettare vacanze del genere quando c’è un mondo di poveri che muore di fame”. Non l’avessi mai fatto! Si scatenò un putiferio di commenti, pro e contro, ne scrisse perfino “Le monde”.

Sono venuto a sapere dopo che la segreteria di Stato tempestò di telefonate la curia di Treviso, e penso anche di Venezia, per sapere cosa ci fosse dietro questa reazione della stampa. Il Patriarca Scola non mi disse una parola, ma mi riservò un comportamento gelido e all’inaugurazione del “don Vecchi” di Marghera disse: «Don Armando parla poco, ma scrive troppo». I miei colleghi più “importanti” presero le distanze.

Cosa capita ora? Il Papa attuale non solo rinuncia alle vacanze in Cadore, ma pure a quelle a Castelgandolfo! Finora però nessuno mi ha detto “avevi ragione”. Così va la vita anche tra i preti.

16.06.2014

“L’avventura di un povero cristiano”

Potrà sembrare strano per i miei colleghi o per la gente che mi conosce, ma uno dei libri che è maggiormente rimasto impresso nella mia coscienza è stato il volume “L’avventura di un povero cristiano” di Ignazio Silone, quell’autore che si è definito “cristiano senza chiesa e socialista senza partito”. Il volume narra la vicenda di Celestino quinto, quello che Dante bollò di ignavia perché rinunciò al papato dando modo all’elezione di Bonifacio ottavo che al sommo poeta non andava proprio giù. Il frate eremita portato al soglio di Pietro è stato uno dei pochi papi che a quel tempo volle accertarsi di quel che c’era dentro all’imponente impalcatura della Chiesa della tradizione e della teologia cristiana.

Mi capita spesso di sentire colleghi e cristiani impegnati che, con fare enfatico si beano di certi misteri cristiani, quasi succhiandosi le labbra per i termini e le modalità con le quali ce li ha trasmessi la tradizione, però ho la sensazione che si accontentino del bellissimo involucro, ma che non si siano mai accertati di che cosa realmente contengono.

Vengo al motivo di questa premessa. Domenica scorsa si è celebrata la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa. Solamente a nominare questo termine la gente di Chiesa pare si inebri per la magnificenza e la sublimità del mistero. Io però, “povero cristiano” non ho mai sentito un prete ed un cristiano che mi spiegasse in che cosa è consistito questo grande portento.

Riassumo in due parole come gli “Atti degli apostoli”, cronaca della prima comunità cristiana, descrivono questo evento: gli apostoli, paurosi ed incerti, erano rinchiusi nel cenacolo, quando un vento impetuoso scosse le pareti e apparve un globo di fuoco che si suddivise in tante fiammelle che si posarono sul capo di ognuno. Da questo evento presero coraggio, spalancarono le porte e cominciarono ad annunciare il messaggio cristiano, ossia che Dio ci ama, che la vita ha un traguardo e una risposta, che Dio è benevolo e Padre che ci aspetta in fondo alla “strada”. E la gente, pur di etnie diverse, comprese questo messaggio e vi aderirì.

La mia domanda, che fatica a trovare risposta, è questa: “Cosa è successo perché gli apostoli siano cambiati così radicalmente?” La mia lettura è questa, o meglio questa è quella che mi convince di più: Dio ha parlato prima attraverso i profeti, poi tramite il figlio Gesù, ora attraverso gli uomini, tutti gli uomini, perché nel loro cuore e nella loro testa c’è la “fiammella di Dio”.

Ora Dio lo posso incontrare nel dialogo e nella testimonianza degli altri, e tanto più accetto la luce che proviene da ogni uomo, tanto più posso conoscere il volto di Dio e recepire il suo messaggio.

Secondo me questa splendida verità e scoperta ha acceso il coraggio e ha fatto si che essi siano usciti, la gente li abbia capiti e abbia accettato la buona notizia, l’Evangelo.

Io rimango un “povero cristiano”, ma soltanto così riesco a spiegarmi l’importanza della Pentecoste.

12.06.2014

Col clero veneziano

Ritorno alla mia visita al seminario perché è stato un evento per me pressoché “storico”. Dopo averci passato dodici anni della mia fanciullezza e prima giovinezza, ci sono ritornato poche altre volte. Ora poi credo che siano passati più di dieci anni dall’ultima visita. Di natura e per scelta io “mi tuffo” in quello di cui mi occupo e normalmente vi dedico tutte le mie risorse, motivo per cui mi resta ben poco tempo per altro.

Gli ultimi incontri con i preti li ho avuti in vicariato, ossia con i preti della zona di Carpenedo. Incontrarmi con tutto il clero veneziano è stato un evento abbastanza notevole. Scelsi un posto in fondo alla sala per poter osservare meglio i presenti e per poter uscire inosservato essendomi accorto che l’incontro non durava solamente per il tempo di una messa, come credevo, ma impegnava l’intera mattinata, cosa che non potevo permettermi anche perché ho fatto i salti mortali per farmi sostituire per la messa d’orario al cimitero.

Ho notato che i colleghi si conoscevano molto bene, tanto da scambiare battutine amichevoli e cordiali. Ho riconosciuto qualcuno del nuovo management, monsignor Dino Pistollato, mio vecchio cappellano, ora prelato assai influente, con la sua barba ben curata e forse l’unico – se si eccettua il Patriarca – che era in tonaca. Ho riconosciuto monsignor Barlese, mio successore a Carpenedo, monsignor Orlando, già parroco in via Piave, e qualche altro notabile. Poi ho osservato “la nuova guardia”, fatta di giovani preti disinvolti, con lo zainetto in spalla, però composta da volti puliti e sereni.

Tutto sommato ho avuto una buona impressione del clero della mia diocesi, mi è parso formato da buona gente. La sala era quasi piena, quindi penso saremo stati più di un centinaio di preti di varie età. La sensazione che ho avuto è di un clero certamente non composto da “arditi”, da “guastatori”, da gente di rottura. Non mi è parso di conoscere gente da “prima linea” che si è fatta notare per ardimento particolare e per essere scesi nelle barricate del nostro tempo.

S’è seduto accanto a me don Antonio Biancotto, che molti anni fa fu mio aiutante alla San Vincenzo di Mestre. E’ rimasto quello di un tempo: una voce calda e fraterna ed un volto buono, due occhi un po’ trasognati. Eppure in questi ultimi anni è stato il prete delle cui gesta s’è parlato di più a Venezia. Assistente dei carcerati a Santa Maria Maggiore, è stato il prete che ha diretto le varie “missioni di strada”, ossia ha guidato giovani provenienti da altre città, ma anche qualcuno dei nostri, che a più riprese hanno tentato di parlare di Gesù ai veneziani e ai foresti che incontravano nelle calli e nei campielli di Venezia.

Ho avuto l’impressione che questo che era il più pacifico ed indifeso dei preti giovani che ho conosciuto, sia diventato anche il più ardito. Ho ascoltato le testimonianze di tre colleghi di età diverse, mi sono ritrovato un po’ di più in quelle di Torta, parroco a Dese e frequentatore dei magazzini del “don Vecchi”. Gli altri mi sono sembrati sublimi, celestiali. Io di certo dovrò fare tanta strada per arrivare a quella spiritualità, ma me ne manca il tempo e poi temo di non averne neppure la voglia, perché preferisco rimanere con la povera gente di questa terra.

11.06.2014

Il seminario

Giovedì scorso sono andato in seminario perché si celebravano i giubilei di sacerdozio. Ci sono andato con fatica perché sono vecchio e perché non amo troppo i discorsi spesso inconcludenti, ma ho voluto far contento il nuovo Patriarca che nell’unico incontro che ho avuto con lui ha riassunto le lacune che mi riscontrava come sacerdote della Chiesa di Venezia in questi due difetti predominanti: «Sei vecchio; non vieni mai agli incontri sacerdotali».

Sono andato quindi per dargli questa consolazione e anche perché quest’anno celebro il 27 giugno le mie “nozze di diamante” di sacerdozio e quindi speravo di offrire almeno una piccola testimonianza di fedeltà alla Chiesa per i preti più giovani.

La prima fase dell’incontro ha avuto luogo nel refettorio costruito dai padri Somaschi, un salone grande, austero, con un pulpitino di marmo ove un tempo si leggeva la vita dei santi durante il pranzo, con in fondo una grandissima tela raffigurante l’ultima cena.

Ora questa sala è stata adibita ad auditorium; restaurata di recente è molto signorile. Ai miei tempi aveva i tavoli da pranzo accostati alla parete ove veniva servito il pranzo dai “seminaristi camerieri di turno”. Quante rape! Quanti fagioli! Quante alette di pollo! Un anno abbiamo perfino celebrato in maniera goliardica il “centenario del fagiolo”, tanto erano frequenti i fagioli in tavola!

Poi gli occhi si sono posati ove ai miei tempi c’era il pulpitino di legno posto di fronte a quello di marmo dei vecchi frati. A turno, dopo cinque ore di scuola, leggevamo la vita del santo del giorno. Non dimenticherò mai quella di un certo santo che era talmente santo che perfino nella prima infanzia, per mortificarsi nei giorni di digiuno, rinunciava a poppare il seno di sua madre! Eravamo più creduloni a quel tempo, ma non tali da non farci una risatina di compatimento il giorno in cui toccava la vita di questo santo: Dopo la vita del santo si leggeva un volume di contenuto più ameno. A me è capitato un anno di leggere quel bellissimo ed avvincente romanzo di Franz Werfel “I quaranta giorni di Mussadag”, volume nel quale si raccontava il tragico assalto, per motivi religiosi, dei turchi ad un villaggio armeno durante la feroce persecuzione degli ottomani agli armeni di religione cristiana. Nonostante la trama fosse davvero avvincente, la stanchezza per la scuola e la difficoltà dei nomi armeni mi resero un vero calvario quella lettura e motivo di infinite risatine da parte di quell’uditorio più attento al piatto che alla trama del racconto.

Giovedì il mio impatto emotivo è stato notevole, perché il ricordo, pur annebbiato dal tempo, era di un edificio fatiscente che tutto sommato manteneva il volto dell’antico convento, mentre ora sembra un “albergo cinque stelle”, in cui la vetustà è messa in cornice.

Il cardinale Scola, a quanto ho sentito dire, ha lasciato dei debiti, ma pure una bella e ricca eredità.

10.06.2014

Un Papa che si fa perfino leggere

Potrebbe sembrare perfino – come si dice – portare “vasi a Samo e nottole ad Atene”, affermare che non solo il nostro Papa si fa ascoltare volentieri, ma perfino le sue prediche si fanno leggere con piacere. Lungi da me affermare che i suoi predecessori non fossero intelligenti, colti e non dicessero delle cose buone, ma penso che una certa tradizione quasi imponesse loro un certo linguaggio ed un modo particolarmente complesso e sofisticato nel porgere le semplici verità evangeliche e le complicate elucubrazioni della teologia.

Non penso sia irriverente affermare che i discorsi dei pontefici erano lunghi, barbosi e difficili. Io ero sempre sorpreso, ma non ammirato, nel sentire qualche pio sacerdote affermare che leggeva quei discorsi; appena appena i teologi di professione citavano con frequenza questi discorsi.

Papa Francesco rappresenta davvero una sorprendente novità, tanto che mi è capitato di leggere che piace tanto perché è “un Papa poco Papa che non cerca Dio troppo in alto e troppo lontano”. Papa Francesco è uscito con decisione dagli stereotipi con i quali l’immaginario collettivo aveva “ingabbiato” la figura, il comportamento e soprattutto la parola del successore di Pietro.

Il Papa piace e si fa ascoltare quando parla: la mimica, le pause, le battute, le argomentazioni, soprattutto quando abbandona il testo scritto, fanno si che la gente ascolti volentieri anche quando ci chiede cose ostiche da vivere. Le folle sconfinate che ad ogni occasione gremiscono piazza San Pietro e via della Conciliazione sono la controprova di questo fascino che Papa Francesco esercita sugli uomini di ogni ceto e di ogni nazione.

Il nostro Papa però riesce a farsi “ascoltare” anche quando scrive. Di solito il discorso scritto è più elaborato, più concettuale e soprattutto è privo di inclinazioni della voce e della mimica del volto, degli occhi e delle mani, motivo per cui è più difficile leggere volentieri un testo scritto, a meno che non sia di contenuti piacevoli o leggeri o sia scritto da persone di enorme elevatezza culturale.

Più di una volta, quasi con stupore, mi sono scoperto a leggere discorsi del Papa su “L’osservatore Romano”, il giornale più barboso in assoluto. La nostra “editrice” pubblica ogni settimana la testata “Il messaggio di Papa Francesco”, curato dal collaboratore Enrico Carnio, contenente in ogni numero il sunto di tre, quattro discorsi del Papa. Meraviglia delle meraviglie ogni settimana vanno esaurite tutte le copie.

In questi giorni poi ho ricevuto il bollettino parrocchiale di San Nicola di Mira che il mio vecchio cappellano, don Gino Cicutto, gentilmente mi invia, e con sorpresa ho constatato che anche lui dedica una pagina intera ad un discorso del Papa. L’autenticità e la semplicità fortunatamente premiano ancora.

05.06.2014

Un amore segreto

Per undici anni ebbi come mio collaboratore don Marco, un giovane prete che ogni tanto lasciava per alcuni giorni la parrocchia per andare a “a ricaricarsi” – come diceva lui – presso un qualche convento. A suo parere aveva bisogno ogni tanto di questi stacchi dalla routine quotidiana per confrontarsi, nella quiete di un convento, con la spiritualità della vita monastica.

La cosa non mi sorprendeva più di tanto perché anche il mio vecchio parroco di San Lorenzo, monsignor Vecchi, diceva di aver bisogno di questi periodi “sabbatici”, per ritemprare il suo spirito. Pure mio fratello don Roberto, che è sempre stato un grande ammiratore della regola di san Benedetto, specie nel passato, si rifugiava talvolta nell’abbazia di Praglia per confrontarsi con l’abate che lui riteneva saggio e santo. Ora credo che abbia smesso queste frequentazioni monastiche e quando è proprio stanco di “vita parrocchiale” si rifugia nel suo piccolo ma attrezzato laboratorio di falegnameria per costruire presepi per Natale o va a imperlinare le pareti degli edifici parrocchiali.

Io, che sono ben cosciente di esser poco incline alla mistica, non ho mai avvertito queste esigenze e quando sono proprio stanco o deluso – perché ad un prete può capitare anche questo – stringo i denti e vado avanti. Spesso mi sono identificato – non so se a torto o a ragione – al cavallo del famoso romanzo “La fattoria degli animali”, romanzo che descrive la vita di un Kolchoz sovietico, una specie di fattoria in cui il cavallo rappresenta lo spirito stachanovista. In ogni frangente veniva chiamato il cavallo a supplire alla stanchezza degli altri fintantoché un brutto giorno, sfiancato per la fatica, crollò tra le stanghe sotto il peso del suo carico. Forse sono presuntuoso o forse sono stupido, comunque penso che le cose vadano così.

Però, a pensarci bene, anch’io talvolta ho qualche rara evasione “di ordine mistico”. Infatti non so chi abbia dato il mio indirizzo alle carmelitane scalze che hanno un convento a Cannaregio a Venezia. Comunque, due o tre volte all’anno, specie a Natale e Pasqua, loro mi mandano dei biglietti di augurio dai contenuti altamente spirituali, assicurandomi la loro preghiera. Io ricambio gli auguri e allego sempre qualche piccolo contributo per sopperire alle loro necessità perché sono certo che possono contare solamente su magre risorse.

Non sono mai stato nel loro convento, non ho mai visto i loro volti, non so i loro nomi e sono pure certo, per quanto mi conosco, che non andrò mai a visitarle, ma mi consola, rasserena e conforta il sapere che una piccola comunità di donne che si sono consacrate a Dio mi vogliono bene e pregano per me. Il fatto poi che il mio interesse nei loro riguardi sia soltanto un sogno, mi rende il rapporto più bello, più caro e più ricco di consolazione.

30.05.2014

Aquileia

Ad Aquileia c’ero già stato almeno altre due volte, ma in tempi lontanissimi cosicché, quando il gruppo che al “don Vecchi” organizza la cultura, la ricreazione e il turismo mi ha informato che l’ultima gita-pellegrinaggio della stagione primaverile avrebbe avuto come meta Aquileia, ne fui particolarmente felice.

Il ricordo di quella antichissima basilica, dei resti del porto di quell’insediamento delle popolazioni venete, era abbastanza sfumato, anche se l’avevano un po’ ravvivato le immagini che la televisione ci ha offerto in occasione del grande sinodo per il ritorno alla freschezza ed autenticità della sorgente del cristianesimo dei veneti e per il rilancio di una nuova evangelizzazione della nostra gente.

Martedì 12 maggio partimmo con due autobus capaci di 110 posti gremiti fino all’ultimo seggiolino. Il viaggio, pur piuttosto lunghetto per le nostre uscite, non ci ha stancato più di tanto ed è trascorso velocemente in lieta conversazione. All’arrivo nel grande piazzale verde, ben curato, s’impose alla nostra attenzione la grande e maestosa basilica che ci apparve come qualcosa di sovrumana bellezza. Ebbi la stessa fortissima sensazione quando molti anni fa mi apparve, quasi improvvisamente, ergersi sul prato di un verde scuro la splendida basilica bianca e il battistero di Pisa.

Allora, di fronte alla sovrana armonia e bellezza di quel grande complesso architettonico, ebbi un’emozione che mi lasciò quasi senza respiro. Allora lo sentii come la preghiera profonda di un popolo ricco di fede. Ad Aquileia le pietre e le linee pacate ed armoniche del grande complesso sacro mi apparvero più calde, più in sintonia con i sentimenti pacati con cui le genti venete cantavano le lodi al nostro Dio. Il verde, pure ad Aquileia, forma una cornice quanto mai appropriata alla grande e maestosa basilica.

Una volta entrati in chiesa i nostri occhi furono pressoché incapaci di abbracciare tanta bellezza soave ed accogliente. Celebrai su un altare laterale e nell’omelia tentai con tutte le mie risorse di sottolineare l’importanza del credere, del comunicare con Dio, fonte di vita, di armonia e di amore. “Aquileia, dissi, rappresenta la sorgente ove esce pura e luminosa la fede dei Veneti” rifacendomi alla bella immagine di Silone che ha scritto che per scoprire, per cogliere l’importanza e il dono dell’acqua non si può aprire soltanto il rubinetto ma bisogna andare alla sorgente. Aquileia e la sua basilica rappresentano ancora una sorgente viva.

Però si smorzò un po’ il mio entusiasmo e la mia speranza venendo a sapere da una addetta al culto che il parroco di Aquileia cura quattro parrocchie e perdipiù insegna religione a scuola.

Poi il mio pensiero è andato all’ultimo grande sinodo di Aquileia, per riscoprire e rilanciare il messaggio cristiano.

Ho concluso che la Chiesa ha bisogno di qualcosa di più serio e sostanzioso dei “pannicelli caldi” del sinodo, quale una riforma radicale che apra il sacerdozio alle donne, agli uomini sposati e che coinvolga realmente tutti i fedeli.

Credo però che anche questo sia ancora poco.

26.05.2014