Formule alternative

Avendo vissuto una vita intera da prete ed essendomi occupato principalmente di cose della religione, sono portato a notare e valutare i fenomeni, anche minimi e banali, che avvengono all’interno della Chiesa e della religione. Ultimamente ho posto la mia attenzione su due fenomeni estremamente marginali che certamente non compromettono assolutamente la fede, ma che a mio parere indicano un cambiamento di tendenza.

Quando è stata aperta la nuova chiesa prefabbricata del cimitero, l’impresa Pedrocco, che lavora i marmi in via Ognissanti, con estrema gentilezza e generosità, mi ha regalato il tabernacolo e l’acquasantiera. Abbiamo collocato l’acquasantiera di marmo rosso di Verona alla porta della chiesa, ma quasi nessuno ormai, entrando, pare intinga più le dita della mano per segnarsi col segno della croce. Talvolta mi dimentico di rimettere l’acqua benedetta, ma nessuno mai si meraviglia o me lo chiede, mentre i miei parrocchiani di un tempo me l’avrebbero fatto osservare come una cosa grave.

Secondo: nella vecchia cappella sono collocate delle ceriere sia elettriche che con ceri di paraffina. Mentre un tempo ogni settimana raccoglievo 15-20 scatole di ceri usati, ora non si raggiunge neanche il dieci per cento di quella quantità.

Mi fermo qui, ma potrei continuare col digiuno del venerdì, con il “perdon d’Assisi”, le veglie, le novene, i primi nove venerdì del mese ed altro ancora.

Mi ripeto che non è minacciata la fede per questi cambiamenti. Vi sono però degli aspetti della vita religiosa molto più importanti che mi pongono dei problemi seri, ai quali penso dovremmo cercare di dare una risposta. Anche per questo voglio fare due esempi. Nei miei trentacinque anni da parroco nella comunità di Carpenedo, parrocchia di antica tradizione, ma ancora viva da un punto di vista religioso, in tempi ormai un po’ lontani celebravo una novantina di matrimoni all’anno. Ora il mio successore, che è un parroco attivo e quanto mai zelante, mi riferisce che ne celebra appena una decina.

Non mi fermo ad analisi e motivazioni che sono complesse, ma concludo che il sacramento del matrimonio, così come era concepito e realizzato, è di certo in crisi.

Vengo ad altro sacramento, quello della confessione. Nel 1956, quando sono arrivato a San Lorenzo e nella ventina di anni che ci sono rimasto, al sabato in due, tre sacerdoti andavamo in chiesa alle tre del pomeriggio e confessavamo fino alle otto. Attorno al confessionale c’erano due code di fedeli che aspettavano il proprio turno anche per un’ora. Per non parlare per Natale e Pasqua.

In questi ultimi anni mi chiamano a confessare in parrocchia per delle celebrazioni comunitarie organizzate tre quattro volte l’anno, ma mai ho confessato per più di un’ora e mezza e più di una quindicina di persone.

Circa questi due sacramenti credo che il problema sia veramente grave e che si debbano trovare soluzioni diverse per raggiungere lo stesso risultato che si raggiungeva nel passato. In proposito avrei qualche idea, ma penso di doverci riflettere in maniera più approfondita. Mi auguro che anche altri ci pensino.

07.09.2014

Sdegno e comprensione

Tante volte ho scritto che da ragazzo, un po’ per quanto mi avevano insegnato i miei maestri di vita e un po’ per quello spirito un po’ romantico e di avventura che ho sempre avuto, consideravo le crociate come qualcosa di epico, alimentato da una tensione profondamente religiosa. Col passare degli anni ho scoperto tutte le brutalità, gli interessi e la carenza di contenuto autenticamente religioso che le ha promosse ed attuate.

Mi è parso che l’unica cosa che potevo fare era di rinnegarle radicalmente come fatto religioso e sentire, come cristiano, di dover chiedere perdono all’umanità. Fortunatamente lo spirito delle crociate è definitivamente tramontato nella Chiesa dei nostri giorni. Purtroppo però mi capita oggi, a dieci secoli di distanza, di registrare che il mondo islamico, che non si è agganciato all’evolversi della storia, sta continuando a fare quello che fece nel primo millennio, allora con una certa giustificazione perché era aggredito, ora senza alcun motivo perché è decisamente lui aggressore del cristianesimo e delle falde più moderate e civili dello stesso islamismo.

Quello che i maomettani fondamentalisti con la fondazione del nuovo califfato stanno facendo, è quanto di meno religioso e di meno umano e civile si possa fare. Tanto che se non fossi ben memore dei “peccati” dei quali si è macchiata la Chiesa al tempo delle crociate, d’istinto mi verrebbe da chiedere al Papa di promuovere un duro intervento militare da parte dei “principi cristiani”.

Questo triste evento rende evidente un problema di fondo: che la Chiesa di oggi, soprattutto nei membri più lucidi e intelligenti, finalmente ha capito che la religione non deve mai impugnare le armi, mentre il mondo islamico pare che sia ancora legato al medioevo predicando e promuovendo una religione antistorica, che invece di aiutare l’uomo a crescere e a realizzarsi, lo riduce schiavo di un ritualismo formale e di un proselitismo feroce e sanguinario.

L’importante però, per noi cristiani, è che dagli errori degli islamici impariamo che una religiosità che non comunica col progresso, con l’evoluzione e la civiltà, diventa, come dicevo, puramente formale, antistorica e fatalmente oppressiva per l’uomo.

I cristiani di oggi devono convincersi che l’Incarnazione, ossia il Dio che si rende presente nel cuore e nella ragione dell’uomo, non è un fatto relegato al passato, ma un evento che riguarda gli uomini che vivono oggi, con la loro cultura, la loro sensibilità, le loro problematiche. Infatti Dio oggi usa le vesti, la parola e il pensiero dell’uomo contemporaneo per parlare e salvare sia il singolo che la collettività.

Oggi il “Verbo” nasce nei campi profughi, nelle città bombardate e nella sofferenza dei cittadini dei Paesi in guerra e si riveste, parla come vestono e come parlano gli ultimi e i più abbandonati di questo povero mondo.

Molti cristiani hanno compreso tutto ciò, ma c’è ancora una massa che si porta dietro una religiosità rituale e formale che non “salva” alcuno. Molti cristiani non hanno ancora compreso tutto questo e i musulmani purtroppo ne sono lontani ancora mille miglia e perciò predicano “la guerra santa”.

03.09.2014

Autocritica

Qualche settimana fa ho letto un articoletto di un giovane collega. L’articolo mi ha messo un po’ in crisi. Verteva sulla recente decisione del nostro Patriarca di chiudere il Marcianum. Questa notizia ha avuto una certa ripercussione in città, ma soprattutto nella diocesi di Venezia perché il patriarca Scola s’era giocato pressoché tutto in quella grande impresa che sembrava del tutto riuscita e il patriarca Moraglia si sta pur giocando notevolmente, prima con la chiusura della scuola diocesana ed ora con la chiusura del Marcianum.

Il collega, riferendo questa notizia, loda in maniera sperticata il vecchio Patriarca ed in maniera altrettanto entusiasta il nuovo Patriarca.

Io sono ben lontano dal giudicare queste due eminenti personalità del mondo ecclesiastico, perché me ne mancano gli elementi di giudizio. Molto probabilmente sono ambedue dei santi uomini, però mi vien da pensare, da come sono andate le cose, che probabilmente il primo sia stato un po’ sventato e il secondo almeno un po’ pavido. Non mi riesce proprio di affermare che ambedue siano stati ugualmente saggi, ugualmente prudenti, perché se fosse stato così avrebbero dovuto arrivare ambedue alle stesse conclusioni. Penso che il primo si sia lasciato prendere la mano dall’euforia ed abbia giocato un po’ d’azzardo, e l’altro si sia lasciato prendere un po’ la mano dalla paura ed abbia mollato con troppa facilità. Comunque lascio “ai posteri l’ardua sentenza”.

Ma questo discorso mi pone un problema più grave, che mi coinvolge più fortemente e penso dovrebbe coinvolgere anche gli altri preti e fedeli. Mi pare che sia invalso nella Chiesa il costume un po’ codino di dare giudizi anche alquanto severi sullo Stato, sulla politica e su tutto l’universo mondo, mentre per quello che riguarda le cose della Chiesa si debba dire solamente bene.

Anche in questa occasione mi sono stati di conforto i giudizi non certamente lievi del cardinal Martini sulla Chiesa in genere e in particolare sulla gerarchia ecclesiastica. E poi, prima ancora, Rosmini, con la sua denuncia delle “cinque piaghe della Chiesa”, non è stato di certo più tenero.

Io rimango convinto che chi ama la Chiesa e se ne sente parte integrante deve trovare il coraggio e l’onestà di fare autocritica, quando è giusta. Ritengo ancora che nella misura in cui uno ama la Chiesa, in quella stessa misura deve avere il coraggio di esprimere con pacatezza, onestà e amore, il suo giudizio non solo a cose avvenute, ma anche prima che avvengano, se i responsabili ne danno la possibilità. Papa Francesco mi pare sia maestro a questo riguardo.

01.09.2014

La cenerentola

Ho letto da qualche parte una sentenza quanto mai sapiente che per me rappresenta un motivo di conforto e di liberazione da un certo incubo che mi viene dal fatto di scoprire che racconto delle cose che ho già detto. Spesso mi ripeto questa sentenza: “Gli anziani hanno diritto a dimenticare”. Lo facevo ancor prima, ma ora non ho più scrupoli né ripensamenti, dico certe cose con candore, come fosse la prima volta che le dico.

Vengo anche oggi al motivo di questo ennesimo uso della “sapienza antica”: io leggo con attenzione e curiosità i cosiddetti “bollettini parrocchiali”. Leggo, talvolta con ammirazione e purtroppo, più spesso, con delusione, non solamente quello che è scritto in chiaro, ma anche e soprattutto quello che posso intuire sotto le righe, anche se non scritto. Vi si scopre un po’ di tutto. Ogni “bollettino” finisce per pubblicare sempre la stessa foto della parrocchia e soprattutto quella del suo parroco. Non si tratta invero di quei ritratti di un tempo, dipinti ad olio in cornici ridondanti dove il parroco veniva ritratto con il breviario in mano, seduto su una poltrona con tanto di braccioli e di seduta e schienale di velluto rosso o damascato. Non sono, quelle dei bollettini parrocchiali che si trovano in ogni chiesa, fotografie classiche, ma immagini un po’ crude, quasi fatte col telefonino, che ritraggono il volto della parrocchia e del parroco non in posa, ma nella realtà della vita quotidiana, spesso vestita in mal arnese.

Non molto tempo fa, in un numero pregresso – perché spesso nel banco stampa si trovano anche numeri vecchi di questi bollettini – ebbi modo di imbattermi nella pubblicazione del bilancio parrocchiale di una comunità abbastanza numerosa e non di periferia ed ho letto, con la solita curiosità che mi viene da una deformazione professionale di “spiare la concorrenza” seppure ora, da vecchio pensionato, parrebbe non avessi più motivo di curiosare nelle vicende degli altri.

Ebbene il bilancio era prova che quel parroco sceglieva la linea della trasparenza, come si dice oggi, però una trasparenza che gli nuoceva piuttosto che dargli vanto. Il bilancio, piuttosto pignolo, informava sui conti del personale, delle utenze, degli interessi, delle uscite più varie. Tutto sommato, di primo acchito, mi è sembrato un bilancio rispettabile e coraggioso. Però mi è cascato l’asino quando sono giunto alla voce “carità” nella quale attivo e passivo si bilanciavano, ma dove appariva subito che la voce “carità” era rappresentata da una cifra irrisoria di fronte alle altre cifre quanto mai consistenti.

Una volta ancora mi vien da denunciare che la voce “carità” risulta troppo spesso la cenerentola tra le altre cifre. Mi auguro che la testimonianza di Papa Francesco, del quale tutti si dichiarano entusiasti ammiratori, incida molto di più sulla coscienza dei parroci e delle relative comunità.

19.08.2014

La parrocchite

Molti anni fa scrissi un articolo su una “malattia” che colpisce soprattutto i parroci, ma talvolta anche i loro collaboratori più devoti e più bigotti. Da quel che ricordo l’articolo rappresentava una mia reazione piuttosto vivace ed incontrollata alla presa di posizione piuttosto risentita da parte di un parroco che era indignato perché un suo “parrocchiano geografico”, non trovando nulla di soddisfacente per cui impegnarsi nella sua parrocchia, aveva scelto di collaborare con la San Vincenzo della città della quale io ero assistente.

L’occasione, o forse il pretesto del mio intervento, ebbe questa origine, ma era da molto tempo che riscontravo, con delusione, talune manifestazioni di gelosia da parte di certi preti quando qualcuno dei loro parrocchiani, per i motivi più diversi, o frequentava un’altra chiesa o, essendo egli propenso ad impegnarsi in un settore di volontariato non presente nella sua parrocchia prestava altrove la sua collaborazione. Questo senso del possesso dei corpi e delle anime dei fedeli, proprio di un monarca assoluto o da satropo orientale, lo giudicavo assurdo, fuori tempo e del tutto biasimevole.

Mi pare che questo articolo sulla “malattia”, che ho denominato “parrocchite” e della quale ho descritto i sintomi, le complicanze e i danni che riporta sulle coscienze delle persone perbene, ebbe un certo successo come clamore, ma destò reazioni del tutto negative, tanto da essere io accusato come un prete che “ruba fedeli” alle altre parrocchie. La cosa è purtroppo vera perché quando ero parroco a Carpenedo, in un sondaggio promosso dalla diocesi, è risultato che ben 700 extraparrocchiani frequentavano la mia chiesa. Il brutto, o soprattutto il sorprendente, non fu che “i danneggiati” si siano dati da fare per frenare l’esodo attraverso un maggior impegno e una maggior vitalità della propria parrocchia, ma che si sono limitati alle più facili e comode critiche sul mio operato.

Questo discorso l’avevo dimenticato da un pezzo, forse perché ormai molti parroci non si accorgono più dell’esodo della loro gente; però, qualche giorno fa, uno dei miei volontari che ogni settimana distribuisce “L’Incontro”, mi ha riferito che un certo prete, che per carità cristiana non nomino, ha protestato col proprietario di un negozio della “sua” parrocchia perché ha accettato di esporre sul bancone il nostro periodico, che pare abbia invece incontrato il gradimento della “sua gente” dato il numero di copie che vengono ritirate ogni settimana.

Mi auguro che si trovi finalmente una medicina che curi “la parrocchite” in maniera efficace, perché è una malattia che di certo fa molto male alla qualità della vita parrocchiale.

18.08.2014

Il ripensamento della Chiesa veneziana

Circa un paio di anni fa uno dei miei vecchi cappellani che il nuovo Patriarca aveva nominato, anche se in via provvisoria, suo vicario generale, ossia il più diretto collaboratore, mi aveva confidato che il nostro nuovo vescovo era seriamente preoccupato per la situazione finanziaria della diocesi che risultava estremamente pesante. Ed avendomi egli chiesto come stavamo noi dei Centri don Vecchi in quanto a finanza, gli dissi che la situazione era assolutamente tranquilla, anzi eravamo, pur moderatamente, in attivo. Al che egli, con una certa “impudenza”, mi chiese semmai avessimo potuto aiutare la diocesi.

Essendomi ricordato quanto un funzionario della curia mi aveva a sua volta confidato e cioè che la diocesi ne avrà per vent’anni di debiti da pagare, compresi che sarebbe servito ben altro di quello di cui la Fondazione, che poi è sempre proiettata in nuove avventure solidali, avrebbe potuto disporre.

Il discorso non è finito lì, perché è proseguito con lo scandalo del Mose, con qualche coinvolgimento se non di carattere giudiziario, comunque almeno in una compromissione ideale con un certo modo di pensare e di agire non proprio evangelico. Quindi è giunta l’intervista del Patriarca su un “ripensamento ed un riordino nella gestione economica”. Infine il “botto” di qualche giorno fa con le relative dimissioni date, o richieste, con la chiusura prima della scuola patriarcale, poi della facoltà di diritto economico, del pensionato internazionale e non so di che altro.

Quello del patriarca Scola è stato un sogno ed un’avventura bella fin che si vuole, ma di certo molto, anzi moltissimo, al di sopra della possibilità della Chiesa veneziana. Mi spiace veramente per il mio vescovo attuale perché credo che sia stato quanto mai amaro e penoso gestire questa situazione fallimentare che dovrà pagare cara in prima persona. Comunque, tutto sommato, penso che queste scelte che la situazione economica ha costretto a fare, tutto sommato siano provvidenziali perché hanno aiutato la Chiesa veneziana ad orientarsi verso quella povertà e semplicità evangelica che doveva essere il suo naturale obiettivo e non una soluzione imposta da elementi che nulla hanno a che fare con gli orientamenti di Papa Francesco e, prima ancora, di Gesù Cristo.

Mai, come in questo momento, mi sono sentito vicino e solidale col nostro Patriarca, con cui vorrei condividere il peso di questa croce, però spero che il cammino sul quale la Provvidenza ha messo la Chiesa veneziana e che non è ancora terminato, debba procedere con lucida scelta verso una Chiesa povera, libera e senza compromessi anche solamente occasionali.

17.08.2014

L’integrismo nostrano

Domenica scorsa la Chiesa ha proposto all’attenzione dei cristiani la parabola del buon seme e della zizzania. Credo che tutti la conoscano, però penso che sia opportuno riassumerla in poche parole. Un signore seminò del buon seme nel suo campo, ma purtroppo “l’uomo nemico” nottetempo vi seminò la gramigna. Quando quello e questa germogliarono, i contadini si accorsero del brutto inghippo e proposero al loro padrone di sradicare la gramigna. Sennonché quel proprietario, uomo saggio, ordinò che si lasciasse crescere anche la gramigna per non incorrere nel pericolo di danneggiare anche il grano ed avocò a sé la cernita a fine stagione.

Fin dal primo momento di riflessione pensai: “Qui ci starebbe bene una bella lezione sull’integrismo, cioè sulla tentazione di chi si crede nel giusto eliminando radicalmente chi ritiene sia dannoso alla società”. Immediatamente mi venne in mente il fondamentalismo islamico che a questo riguardo sembra perfino insuperabile nella sua arroganza, prepotenza e mancanza di rispetto per chi la pensa diversamente.

Poi m’è parso che il discorso fosse troppo comodo perché l’Islam, specie quello fondamentalista, è in arretrato sulla civiltà di almeno mezzo millennio. Sarebbe una pretesa assurda che in poco tempo possa recuperare tanto ritardo! Preferisco riflettere sull’integralismo di casa nostra. Non è vero forse che noi cattolici sul divorzio, sull’aborto, sull’eutanasia, o comunque su quelli che vengono definiti “i valori non negoziabili” siamo integristi?

Dichiaro, senza riserve mentali, che a livello di coscienza penso che queste scelte siano errate, contro natura e dannose ai singoli e alla società. Ritengo però anche, sulla scorta del suggerimento di Cristo, che non sia giusto, anzi sia immorale, imporre per legge questi valori cristiani a chi non li condivide.

Con questo non dico che il cristiano se ne debba stare alla finestra con le braccia conserte a vedere come vanno le cose, ma anzi credo che debba impegnarsi a fondo con la sua testimonianza e come pure col suo contributo razionale per mettere in guardia i cittadini dall’errore di queste scelte e dalla loro nocività.

E’ doveroso invece pretendere che la società rispetti le mie scelte e quelle altrui; questo è il compito fondamentale di una società moderna. Il tempo dello stato confessionale è tramontato da molto ed è bene che sia così perché di danni e abusi sulla libertà degli altri questa mentalità ne ha già fatti fin troppi. Il cristiano deve essere soprattutto un testimone onesto, credibile, però rispettoso di quelli che ritiene siano in errore imparando da Dio stesso questo comportamento.

C’è un salmo che afferma che Dio è talmente rispettoso della libertà delle sue creature, che perfino fornisce loro il tempo e le forze perché lo possano offendere. E’ tempo di pretendere libertà e rispetto per le nostre scelte e di garantire nel contempo la libertà ai nostri concittadini di comportarsi in maniera anche opposta alle nostre convinzioni. A questo riguardo penso che i radicali siano di qualche passo più avanti anche di noi cristiani.

15.08.2014

Finalmente!

In questi giorni, con mia infinita sorpresa, un mio collega, un po’ più giovane di me, prima a voce, poi per iscritto, mi ha manifestato la sua ammirazione per il “diario” che io vado scrivendo da una vita ma che lui ha scoperto solo recentemente su “L’Incontro” e mi ha pure incoraggiato a continuare per il bene della Chiesa di Mestre. La sorpresa è stata ancora più grande perché, sempre nella sua missiva, mi ha confessato che in passato non aveva nei miei riguardi una posizione del tutto positiva. Riaffermo che sono stato veramente sorpreso perché mai, o quasi mai, un collega sacerdote mi ha confidato di leggere i miei scritti, anzi più di uno ha proibito nel tempo che “L’Incontro” fosse in distribuzione nella sua chiesa.

Talvolta sono andato in crisi al pensiero che i miei colleghi reputassero pericoloso per i loro fedeli il mio messaggio e la mia proposta cristiana, che per quanto la giudichi in maniera critica, si rifà, o vorrebbe rifarsi, totalmente al messaggio di Gesù. E’ vero che non sono preoccupato di usare una terminologia e delle riflessioni troppo attente di piacere ai capi, ma nella sostanza ho sempre cercato di proporre una Chiesa libera, povera, aperta al confronto ed estremamente convinta della validità del suo messaggio.

Aldilà di qualche espressione un po’ decisa, credo di non aver mai sfiorano i limiti dell’ortodossia, comunque mai intenzionalmente ho voluto farlo. In molte occasioni, invece, m’è venuto da pensare – ma questo non è di certo virtuoso da parte mia – che certi colleghi e soprattutto certi parroci, temessero il confronto tra il nostro periodico e il loro foglietto.

Un carissimo amico, cristiano convinto e coerente, al quale ho confidato che il foglietto del suo parroco – che è appunto uno di quei parroci che rifiutano il nostro periodico – è veramente inconsistente, anzi desolante, mi ha fatto osservare che ognuno ha le sue doti particolari e perciò si deve comprendere anche chi è meno dotato. Ho trovato saggia e valida questa osservazione, però da un lato rifiuto chi si comporta da despota, o peggio da satropo nel suo territorio e dall’altro lato penso che far spazio a chi ti può dare un aiuto e fargli una supplenza, sia non solo intelligente, ma anche virtuoso.

Comunque sono stato contento di incassare questa approvazione che spero mi faccia da contrappeso alle critiche e ai rifiuti di altri “confratelli”.

Il miracolo in cui credo

Moltissimi anni fa, quando la Rai introdusse il terzo canale – infatti per anni ne funzionavano due soltanto – si disse che quello sarebbe stato il canale prevalentemente culturale. Ora che i canali sono pressoché infiniti e che si perde più tempo per cercare il programma preferito che a cogliere l’oggetto della relativa proposta, le cose si sono confuse alquanto.

Debbo però confessare che talvolta scopro nel terzo canale delle trasmissioni quanto mai interessanti. Qualche sera fa, appunto sul terzo canale, mi sono imbattuto in una bella, intelligente e documentata inchiesta su Medjugorje, il piccolo paese della ex Jugoslavia in cui un gruppetto di ragazzi più o meno grandi affermano che la Madonna appare loro in momenti e giorni fissi.

Da quanto ho sentito, pare che l’ultima commissione di indagine, nominata dal Vaticano per indagare sulla veridicità dell’evento, abbia consegnato a Papa Francesco il risultato della ricerca e Papa Francesco a breve dovrebbe pronunciarsi su queste apparizioni.

Il fenomeno, nato in sordina in quella terra desolata e difficile, è diventato pian piano un evento religioso che di certo supera i nostri santuari mariani, ma forse anche quelli del mondo intero – e non sono pochi in tutte le parti della terra. Pare che di certo superi, come numero di pellegrini ed importanza religiosa, Fatima e sia alla pari, o forse superi, perfino Lourdes, che è tutto dire!

Premetto che, pur con tutto il rispetto delle opinioni, delle scelte e delle convinzioni altrui, io rimango scettico, a livello religioso, di fronte ad ogni specie di apparizione. Per natura sono istintivamente portato a pensare che a questo mondo tutto sia un miracolo così vicino, così grande e così convincente che non sento assolutamente il bisogno di imbarcarmi in lunghi pellegrinaggi per cogliere la presenza e la benevolenza di Dio che mi pare di incontrare in ogni momento ed in ogni aspetto della mia quotidianità.

La storia di Medjugorje è sempre stata un po’ anomala, tormentata ed avvolta in infinite discussioni. La Chiesa è sempre stata perplessa ed è arrivata perfino a proibire ai parroci di organizzare pellegrinaggi. Nessuno le ha obbedito; forse queste perplessità della gerarchia hanno favorito questo fenomeno religioso.

Il bel servizio televisivo mi ha informato a iosa sui milioni di visitatori, sulle infinite conversioni, sull’atmosfera tanto ricca di spiritualità e sulla fede forte che spesso è nata da questa esperienza. Sono rimasto quanto mai interessato, edificato ed entusiasta per queste nuove sorgenti di spiritualità e di fede che sorgono così abbondanti da quella terra aspra, selvaggia, ma benedetta. Non so cosa possa dire il Papa, spero tanto che lasci che le cose vadano per il loro corso. A me non interessa quasi per nulla che i veggenti vedano o no la Madonna, per me il vero miracolo sono la fede, l’entusiasmo, le conversioni che fioriscono a Medjugorje. Spero di trovare anch’io, così razionalista e scettico, la via per andare prima o poi a tuffarmi in questo oceano di fede, perché ne sento tanto il bisogno.

30.08.2014

Le pietre e la vita

Il matrimonio tra il grande fabbricato che sorge alla punta della dogana a ridosso della Basilica della Madonna della Salute e il “Marcianum” è stato di breve durata. Le vicende del Mose hanno affondato l’opera che il patriarca Scola considerava come il fiore all’occhiello della Chiesa veneziana e che, come tale, ha presentato al Papa Ratzinger.

Leggere sui giornali la comunicazione del patriarca attuale, il quale per motivi di ordine finanziario s’è sentito costretto a chiudere quest’ultima pagina altisonante ed impegnativa per la Chiesa di Venezia, mi ha costretto a riandare a quel vecchio e monumentale palazzo veneziano nel quale ho trascorso ben dodici anni della mia fanciullezza e della prima giovinezza. Il palazzone secentesco austero e massiccio è nato come convento dei Padri Somaschi. All’inizio del secolo scorso però venne occupato dal seminario che s’è trasferito da Castello alla punta della Salute.

Quando io vi entrai, nel 1942, ospitava ben 200 seminaristi dalla prima media all’ultimo anno della teologia. Il fabbricato non solo nel suo esterno è austero, ma pure l’interno era, fino a tre quattro anni fa, vecchio, cupo, soprattutto immenso. Eppure io vi passai dodici anni felici. Beata fanciullezza! Nonostante le regole, i cameroni di quaranta letti e le anguste camerette con le inferriate alla finestra quando ero chierico, vi passai tempi sereni e felici. Ricordo che alle 21 toglievano la luce e il “prefetto”, ossia l’assistente, chiudeva la porta a chiave.

Ai miei tempi, tutto sommato, il seminario aveva l’impronta del collegio dell’ottocento. Ripeto che, nonostante ci muovessimo sempre inquadrati a due a due, nonostante avessimo la divisa da questurino con tanto di cappello col sottogola, nonostante i corridoi fossero tanto bui, nonostante a motivo della guerra il cibo scarseggiasse assai, i miei ricordi sono belli. Ricordo con nostalgia non solamente quel tempo, ma anche quell’enorme palazzo.

Da quanto mi ha detto mio fratello don Roberto, che è entrato in seminario venti anni dopo di me, pure lui ricorda positivamente quel tempo trascorso in seminario; anzi, da quanto mi ha confidato, da dieci anni non vi ha messo più piede perché vuole ricordarlo così come l’ha vissuto.

Monsignor Vecchi vi ha operato delle modifiche significative, ma soprattutto il patriarca Scola l’ha trasformato in una università in linea col nostro tempo. Non ho capito a che cosa ora sarà destinato un fabbricato così enorme e così signorile. Qualcuno mi ha riferito che monsignor Pistollato, che attualmente è all’apice della Chiesa veneziana, ha affermato che ne faranno un albergo di lusso. Non mi meraviglierei, perché questo pare sia il destino di Venezia: una grande Veneland lagunare, con strutture alberghiere per turisti.

Pensavo poi che la cosa non sarebbe pure una novità in assoluto perché anche monsignor Vecchi, che aveva fiuto per gli affari, per alcuni anni ne aveva fatto una foresteria durante i mesi estivi, per racimolare un po’ di denaro per mantenere noi seminaristi. I vecchi monsignori di San Marco però misero fine all’iniziativa temendo che il profumo o qualche capello delle signore ospiti potessero mettere in pericolo la castità dei futuri preti. Ora staremo a vedere!

26.08.2014

Povero Papa Francesco!

Ho già scritto fin troppo sul discorso delle ferie. Dovrei dare la mia testimonianza e poi starmene zitto. Purtroppo soltanto ieri ho confessato che sono un peccatore incallito che fa tanta fatica a convertirsi. Ci ritorno quindi ancora una volta nella speranza di dare una mano alla mia “categoria” non solamente a prender esempio da Papa Francesco, ma pure a tener conto di un mondo di poveri che fan fatica a sopravvivere e di una Chiesa che purtroppo non gode più di quella credibilità che è assolutamente necessaria per riscuotere il consenso delle masse e soprattutto dell’esempio di Gesù che è nato, é vissuto ed è morto in povertà ed in totale servizio agli uomini.

Qualche giorno fa una signora che porta “L’Incontro” nelle chiese che l’accettano, mi ha detto: «Don Armando, ne stampi almeno 150 copie di meno perché la chiesa “tal dei tali” rimane chiusa per tutte le ferie, un’altra apre solamente un paio di ore al mattino, ma pure quasi tutte le chiese di Mestre osservano un orario ridotto; sono poche le chiese che rimangono aperte più di quattro cinque ore al giorno». Un altro collaboratore che, conosce il mio desiderio di leggere i bollettini parrocchiali, mi ha fatto sapere che in molte parrocchie la pubblicazione è sospesa durante tutto il periodo estivo. Forse sono appena tre o quattro le parrocchie che continuano a pubblicare il bollettino parrocchiale durante l’estate, come se la formazione cristiana e l’informazione sulla vita della comunità non fosse più utile, o meglio necessaria, durante i mesi di luglio, agosto e, forse, mezzo settembre.

Per non parlare poi delle ferie dei sacerdoti ai quali pare non basti più la frescura, la pace e il silenzio delle nostre belle montagne, ma sperano di poterli trovare solamente in Africa, in America latina, negli Stati Uniti, in Inghilterra e perfino in Asia.

Si, ci sono dei preti benemeriti che girano come trottole per seguire i ragazzi, gli scout e la propria gente, però sembrano essere una minoranza.

Il Patriarca Scola ha fatto qualche anno fa un’affermazione che credo vada letta da un’angolatura ben precisa, tanto che ho sempre sperato che vi avesse dato, prima o poi, un’interpretazione autentica. Suonava così: “Le vacanze non sono solamente un diritto, ma un dovere”. Giustissimo, se si tratta di una breve pausa per riflettere, meditare e programmare per la nuova stagione parrocchiale, ma se si tratta di viaggi all’estero non mi pare che si possano queste ferie pensare in linea con lo spirito sacerdotale.

A questo proposito mi domando come riescano a fare vacanze del genere con lo stipendio dei preti che è discreto, ma di certo non può coprire questo tipo di viaggi. Un richiamo fraterno alla sobrietà, all’attenzione del momento difficile, ma soprattutto alla promessa di povertà fatta in occasione dell’ordinazione sacerdotale, penso che non sia proprio di troppo.

25.07.2014

“Picconate”

Qualche sera fa, a “Rai storia”, hanno trasmesso un bel servizio su Francesco Cossiga, ex presidente della Repubblica italiana, assai discusso e criticato soprattutto alla fine del suo mandato.

Io non conosco più di tanto Cossiga, lo sapevo figlio di quella terra forte ed aspra che è la Sardegna, ho avuto modo di rendermi conto che fosse un uomo intelligente, di vasta cultura e soprattutto un cristiano convinto. Ricordo che in uno dei tanti scontri dialettici di carattere politico e religioso aveva biasimato il suo avversario accusandolo di avere poca cultura teologica, materia di cui talvolta lui faceva sfoggio. Non è proprio frequente – se si eccettua il mistico Giorgio La Pira o forse il (un po’) bigotto presidente Scalfaro – incontrare politici italiani che parlino volentieri e in maniera competente di religione. Ma soprattutto credo che Cossiga sia passato alla storia italiana come il presidente delle “picconate” frequenti e decise.

Il conduttore della trasmissione, esperto di politica, ha inquadrato questo bisogno quasi sadico di picconare una società e le sue istituzioni ormai ingessate e poco propense ad aprirsi ai tempi nuovi. Non sono in grado di valutare se l’azione di Cossiga sia stata opportuna o provvidenziale, sono quindi costretto a lasciare ai posteri “l’ardua sentenza”. Però devo confidare che mentre continuavo a seguire la trasmissione e a seguire il discorso del conduttore, per una strana associazione di idee, e soprattutto di immagini, fui portato a seguire quasi in parallelo l’azione di Papa Francesco nei riguardi della Chiesa, per concludere, dentro di me, che il nostro Pontefice, pur a modo suo e con forme assai diverse, è per la Chiesa un autentico “picconatore” che in poco tempo ha demolito in maniera progressiva e sempre più radicale, il modo di vivere la religione, di rapportarsi con la cosiddetta “gerarchia”, di smantellare una mentalità sacrale per far ritornare la Chiesa ad un costume da Vangelo.

Vi sono alcune immagini che, pur non accompagnate da parole, hanno letteralmente sbriciolata una impalcatura barocca, gerarchica e non in sintonia con la cultura e l’evolversi della sensibilità dell’uomo moderno. Lasciate che vi confidi questi flash che rimangono indelebili nel mio animo: l’essersi scelto il nome di Francesco, la sua richiesta di benedizione ai fedeli, l’augurare buon appetito, rifiutare indumenti particolarmente sfarzosi, salire in aereo con la borsa nera in mano, dare il bacio alla presidente poco benevola dell’Argentina, telefonare anche a semplici fedeli, mandare un obolo ai poveri, salire in pullman con gli altri prelati, il dialogo con Scalfari, scegliere come abitazione Santa Marta, parlare coi netturbini del Vaticano, sedersi tra gli altri in un banco qualunque per ascoltare la predica, andare alla mensa prendendo il vassoio per il pranzo, usare l’utilitaria per spostarsi. Sono queste “picconate” silenziose, garbate, rispettose. Ma in poco più di un anno con esse ha demolito un muro più solido di quello di Berlino!

Può darsi che Papa Francesco passi alla storia come il papa “picconatore”, comunque di fatto lo è stato. Eccome!

23.07.2014

Il pensatore che zoppica

Questa mattina ho terminato di leggere il volumetto dell’editrice Bompiani “Carlo Maria Martini-Umberto Eco – In che cosa crede chi non crede in Dio?”, che un magistrato amico ha avuto lo squisito pensiero di regalarmi.

Gli amici miei, ai quali confido le mie povere esperienze di ricerca religiosa di vecchio prete, forse ricordano che dissi, almeno tre settimane fa, le mie difficoltà di comprendere quanto questi due uomini di cultura – il cardinale di Milano e lo studioso non credente Umberto Eco – si sono scambiati attraverso un diario epistolare.

Come mai tanto tempo per leggere un volume di piccole dimensioni e di soltanto 123 pagine? Due sono i motivi. Il primo: il testo mi risultò talmente difficile che dovetti leggere e rileggere pur senza capire tutto. Forse questo dipende dai miei limiti di intelligenza e di cultura e forse ancora dalle nebbie della vecchiaia avanzata. Avendo una domenica citato il volume durante il sermone, una signora volle a tutti i costi che le fornissi i termini per acquistare il volume. Mi piacerebbe che venisse a dirmi cosa ne ha capito. Il magistrato che me l’ha regalato, persona colta e intelligente, mi disse che “è stimolante”. A me è parso che mi abbia messo in un ginepraio o, peggio, in un labirinto, per cui ho faticato tanto a uscirne.

Il secondo motivo è che un altro mio caro e giovane amico, assieme alla sua fidanzata, in occasione dei miei 60 anni di sacerdozio, mi ha regalato una vita di San Francesco, “Il gioioso mendicante” di Louis de Wohl della Rizzoli, un volume che invece è scritto come una favola incantevole. Perciò ogni tanto, soprattutto quando Eco e Martini mi “mettevano in difficoltà”, mi rifugiavo da San Francesco dicendomi, quando mi pareva di perder tempo: “Rimane pur sempre la vita del più santo degli italiani e il più santo dei santi!”, mettendo così in pace la mia coscienza e riposandomi a leggere “il romanzetto”.

Ritorno però allo scambio epistolare tra Eco e Martini. Mi è piaciuto il garbo, il rispetto reciproco, la ricerca onesta di ambedue di trovare i punti di incontro tra le tesi cristiane e quelle laiche, la grande intelligenza e la grande cultura: Martini più pacato e riflessivo, Eco invece che si lascia andare spesso allo sfoggio di erudizione e agli artifici del letterato. Comunque due belle teste!

Ho letto, vi confesso, con un po’ di trepidazione, il volume, temendo che Eco – cosa che non è assolutamente avvenuta – mettesse in difficoltà Martini e, di riflesso, mettesse pure in difficoltà il mio impianto di pensiero su Dio e su tutto l’indotto.

Ora, con estrema sincerità, devo confidare agli amici che m’è parso che Eco zoppichi terribilmente sulla domanda di fondo: “In che cosa crede chi non crede?”. Il pensatore laico, come è avvenuto per Scalfari su discorsi analoghi, si arrampica affannosamente sugli specchi, scivola da tutte le parti e non convince in maniera assoluta quando tenta di indicare le fondamenta portanti del suo pensiero. Gli atei vanno bene e riescono, quando tentano di demolire – questo però non è il caso di Eco né di Scalfari – ma s’ingarbugliano in discorsi astrusi e non convincono affatto quando tentano di giustificare il loro ateismo. Per fortuna e per grazia di Dio la mia fede ne è uscita indenne, anzi si è rafforzata dal confronto tra Eco e Martini.

19.07.2014

“Vacche magre” nella Chiesa veneziana

E’ noto ormai da secoli l’evento descritto dalla Bibbia nel quale si racconta che in Egitto ad un periodo di grande prosperità è succeduto un tempo di carestia.

Lo scrittore biblico, rifacendosi alla cultura e alla società agreste di allora, dedita soprattutto alla pastorizia, descrive quella che noi definiremmo la crisi economica come il tempo delle vacche grasse e quello delle magre.

Molti paesi del mondo purtroppo non hanno nemmeno la fortuna dell’alternanza perché permangono da secoli nel periodo delle “vacche magre”. Invece noi, nazioni della vecchia Europa, forse avvertiamo di più la crisi perché abituati all’agiatezza e all’opulenza, spesso derivanti dallo sfruttamento dei più poveri.

L’Italia, il Veneto, Venezia e perfino la nostra diocesi sono pure pressati da qualche tempo da questa stagione amara. Non sfugge da questo fenomeno d’ordine economico neppure la Chiesa veneziana. Al nostro Patriarca, per sua disgrazia, è toccato in eredità il tempo delle “vacche magre” e molto saggiamente ha dovuto ricorrere, nella non felice situazione, al “taglio”, non essendo sempre compreso e confortato dalla condivisione di preti e laici.

Ricordo che uno dei pochi amici che ho in curia, in tempi non sospetti, mi disse che la nostra diocesi ne avrà per almeno vent’anni per saldare debiti pregressi. Proprio anche in questi giorni il Gazzettino informava la cittadinanza che il Patriarca sta continuando nella sua amara necessità di “tagliare”.

Alcuni tagli mi hanno lasciato soltanto spettatore curioso, perché non coinvolto e perché critico per natura da tanto tempo ad una impostazione della curia, a mio parere “poco risparmina”. Mi sorprende che quelle rare volte che telefono in curia ad uffici diversi mi senta rispondere, subito dopo il comprensibile centralinista, da una delle segretarie dei titolari di quegli uffici. Io penso di svolgere un’attività assai più rilevante e complessa, senza che mai mi sia passato per la mente di assumere una segretaria.

Ci sono però altri tagli che, almeno in linea di principio, ritengo indice di una tendenza che chiude al domani. Tagliare sulle segretarie, sui doppioni, sulla pomposità, mi va bene. Ma tagliare sugli strumenti innovativi nel settore della proposta cristiana, mi rende più dubbioso.

Qualche settimana fa ho letto della rinuncia dei vescovi del Veneto a Telechiara, l’emittente televisiva d’impostazione cristiana. L’altro ieri l’annuncio dell’abbandono di “Radio in blu”, la “figliastra” di Radiocarpini, l’emittente radiofonica nata nella mia parrocchia e consegnata alla diocesi dopo 20 anni di onorato servizio, con circa duecento volontari ed una serie di ripetitori che coprivano il Veneto per giungere fino a Ravenna.

“Radio in blu” in verità aveva perso lungo la strada i suoi fondamentali connotati di emittente religiosa, motivo che attenua la mia amarezza. Questo ripiegamento su posizioni del passato, è qualcosa che mi preoccupa perché è il percorso proprio dei gamberi.

16.07.2014

I peccati dei preti

Papa Giovanni Paolo II mi pare che per ben due volte abbia chiesto perdono al mondo per i grandi peccati commessi dalla Chiesa durante i secoli. Pure Papa Benedetto, più recentemente, ha solennemente chiesto perdono per gli orrendi peccati di pedofilia commessi dai preti in tempi lontani, ma anche, purtroppo, recenti.

Qualche settimana fa, sempre “smanettando” oziosamente la televisione, mi sono imbattuto in un film che si rifaceva alla “santa inquisizione” in Spagna. Non sono riuscito a vedere il film, tanto sono rimasto turbato dal modo di agire, da parte di frati domenicani e francescani, durante quei secoli bui della vita della Chiesa. Per alcune settimane mi son tornate in maniera ossessiva frasi e comportamenti di quei religiosi che di veramente religioso non avevano assolutamente nulla. Noi tentiamo di minimizzare e dimenticare queste pagine della storia, però esse continuano a pesare sulla coscienza di noi credenti.

Questi “peccati” sono i più eclatanti, però quante meschinità, quanto carrierismo, mestiere, furberie, collusioni con i poteri forti da parte di singoli ministri del culto e di comunità religiose! La Chiesa può sbandierare pure delle figure splendide di sacerdoti in ogni tempo e in ogni Paese, però in quel mezzo milione di preti su cui oggi conta la Chiesa cattolica, le figure scialbe dei burocrati sono pur tante, anzi troppe!

Ricordo che in tempi molto lontani, in una conversazione in cui si parlava delle persecuzioni cruente durante i secoli, che di volta in volta pareva dovessero mettere a repentaglio la sopravvivenza della Chiesa, uno dei presenti, con fare un po’ saputo e pure tanto amaro, disse: «Se non ci sono riusciti i preti, con le loro meschinità e le loro incoerenze, ad affondare la Chiesa, non ci riusciranno di certo i loro persecutori!». A quel tempo non ero ancora prete, ma ci rimasi molto male.

Io non ho certamente il ruolo di domandar perdono a Dio e alla Chiesa di Gesù per i tanti scandali, grandi o piccoli, però sento quanto mai il dovere di chiedere perdono per la mia “povertà” spirituale, per le mie incoerenze e soprattutto per quella mancata santità che è un dovere specifico del prete.

Qualche giorno fa scrissi del bene che mi ha fatto l’atteggiamento del vescovo dei “Miserabili”. Anche oggi la santità umana del sacerdote è la predica più attesa e che fa tanto bene.

22.06.2014