Radiomaria

Ai vecchi tempi Radiomaria è stata una delle antagoniste di Radiocarpini, non di certo per una contrapposizione diretta, ma certamente per la linea editoriale.

Ben s’intende che, anche vent’anni fa, essa era una specie di Golia nel campo dell’informazione nel mondo ecclesiale, mentre Radiocarpini era anche allora tanto meno di David, il ragazzino di bell’aspetto e dai capelli fulvi che con la fionda e il ciottolo di torrente lo colpì a morte. Mentre noi puntavamo su un messaggio diretto al domani e alla ricerca dei lontani, Radiomaria guazzava fin da allora dentro una mentalità piuttosto bigotta, quanto mai legata alla tradizione e più che mai ancorata al passato. Radiocarpini però, nonostante i suoi nobili obiettivi, è morta anche ufficialmente qualche settimana fa. Radiomaria invece è cresciuta a livello mondiale e dispone di mezzi enormi.

Questa partita della mia vita è ormai chiusa da più di vent’anni, con la sola consolazione che la radio non è morta quando era nelle mie mani, ma è terminata per inedia, disinteresse e poca passione di chi l’ha ricevuta, povera sì, ma vitale.

Dopo l’abbandono dell’emittente della parrocchia, mi sono occupato d’altro e perciò ho finito per non interessarmi più della “concorrenza”.

Rarissime volte mi è capitato per caso di imbattermi in qualche trasmissione di Radiomaria, provandone non solo rifiuto, ma spesso anche disgusto. Però, da un paio di settimane, non so per quale arcano mistero, la radio dell’auto che mi hanno donato ha finito per sintonizzarsi appunto su Radiomaria. Normalmente nei miei brevi tragitti tra il “don Vecchi” e il cimitero, ascolto Radio radicale o RadioUno, ma capita che talvolta perda l’onda prescelta, come appunto m’è capitato recentemente, e finisca su qualche altra emittente. Questa volta, come dicevo, il caso ha voluto che abbia centrato, senza volerlo, Radiomaria. Spessissimo trasmette il rosario, che pur essendo una preghiera che mi piace, finisco per rifiutare per tutte le aggiunte, le leziosità e le infinite “varianti sul tema”. Talvolta però, quando imbrocco una conferenza o una meditazione, come l’altro giorno, allora son guai! Perché ho l’impressione che il direttore scelga di proposito o accetti personaggi che penso siano preti o frati veramente sbrodolosi che deformano, imbellettano o infarciscono il messaggio evangelico, che di per sé è sempre così asciutto, essenziale ed umano. Spesso non riesco proprio a seguire l’ascolto, ma nel contempo rabbrividisco al pensiero che una parte molto corposa del Popolo di Dio sia nutrita con pensieri così lontani e incomprensibili dal pensare comune.

Peccato che l’emittente, avendo un’opportunità così splendida, arrischi di impoverire, falsare ed immeschinire ciò che c’è di più sublime a questo mondo con qualcosa di decantante e fuori tempo.

Il prezzo dell’impegno

L’essere critico verso una certa apatia, o perlomeno una mancanza di impegno generoso, dei preti nel loro servizio pastorale, mi determina ad essere particolarmente puntuale a segnalare i casi in cui riscontro un comportamento opposto

Se è vero, come pare, che la categoria ecclesiastica sta piuttosto seduta, priva di iniziativa e spirito di sacrificio, è altrettanto vero che vi sono certi sacerdoti che, a motivo del loro zelo e del loro impegno, sono disposti a “lavorare” in maniera soda e quanto mai generosa.

Sento il dovere di sottolineare la dedizione veramente particolare di una comunità che “coltiva” un vivaio di ragazzi e di giovani a dir poco splendido.

Mi spiace che la protagonista di questo zelo sacerdotale sia, ancora una volta, la comunità di cui è parroco mio fratello, perché questa segnalazione potrebbe essere letta come un caso di “nepotismo”, comunque i fatti sono documentabili e parlano da soli.

Ieri pomeriggio sono andato a Chirignago nella parrocchia di San Giorgio perché quella comunità ha organizzato una splendida mostra antologica per Giovanni Scaggiante, uno dei “maestri” più affermati della città. Ho avuto modo di essere quanto mai ammirato di come l’associazione culturale della parrocchia ha organizzato questo evento di carattere artistico con una signorilità e un buon gusto veramente splendidi.

Tornandomene a casa da questa piccola “divagazione”, nel pomeriggio di domenica andavo riflettendo come pure una comunità di periferia poteva produrre eventi culturali di vera eccellenza e come essa aveva capito che la vita parrocchiale non può essere monocorde, ma deve avere attenzione per l’uomo tutto intero. In quel mentre, nel telegiornale regionale di RaiTre, che normalmente ascolto, ho colto la notizia che un pullman di ragazzi e di giovani di una parrocchia di Mestre, a causa di un guasto al sistema frenante, dopo essere andato a cozzare contro la roccia, s’era letteralmente rovesciato.

La notizia era sommaria e lacunosa, ma siccome durante la visita alla mostra avevo appreso che i giovani di quella parrocchia, per iniziare l’anno di attività, erano in uscita in Friuli, temetti fin da subito che si trattasse dei ragazzi di mio fratello don Roberto. Una serie di telefonate purtroppo confermò la mia ipotesi. Per fortuna fin da subito mi hanno informato che, nonostante l’incidente gravissimo, sembrava che, al di fuori di qualche ammaccatura, non ci fosse nulla di grave per l’incolumità dei giovani.

Per un paio di giorni la stampa locale ha parlato in lungo e in largo dell’incidente. Il triste evento mi riportò ai tanti giorni di ansia di quando avevo centinaia di ragazzi in giro per il mondo, esposti ad ogni pericolo che sempre può capitare perché, finché le cose vanno bene, ci può essere anche un cenno di gradimento per l’impegno del sacerdote nell’educare i giovani, ma se niente niente capita qualcosa di meno felice: povero prete! Tutti gli stan contro!

Grazia volle che a me non sia mai capitato nulla di grave, ma tremo ancora per tutti i sacerdoti che sono ancora “nella mischia”.

“Gente Veneta”

Nutro la convinzione che criticare per amore non sia solo un diritto, ma un dovere per ogni cristiano, specie quando c’è desiderio di migliorare la qualità della fede e della proposta cristiana. Pure sono convinto che questa critica, porti essa un contributo in positivo o in negativo, sia tanto necessaria da diventare, come ho già detto, un dovere.

Spesso i capi della comunità cristiana o vanno frequentemente fuori sintonia con la sensibilità e le attese del mondo di oggi, o rendono il loro operato poco produttivo perché i loro responsabili, col loro ossequio untuoso e di maniera e con la loro presunta obbedienza cieca, li lasciano soli non offrendo loro motivo di verifica e di confronto.

Io passo per essere un criticone, mentre in realtà ho coscienza di intervenire poco e di non favorire di frequente il dialogo e il confronto, soprattutto nelle questioni controverse. Quando però mi imbatto all’interno della mia Chiesa, in qualcosa di valido, sento altrettanto il dovere di sottolineare questi elementi positivi.

Anche ieri, come ogni venerdì, ho ricevuto “Gente Veneta”, il settimanale della diocesi. Vi ho dato una prima occhiata riservandomi di leggere attentamente i “servizi” più importanti, senza trascurare la cronaca, che offre il polso della vita diocesana. Non penso che il piccolo manipolo di giornalisti che scrive questo giornale abbia delle grosse gratificazioni a livello economico e temo che non le abbia neppure a livello di gratificazione morale, perché quando le cose vanno bene generalmente le si dà per scontate. Io però, che in maniera elementare e marginale bazzico da dilettante entro quel piccolo mondo della stampa, sono in grado di testimoniare, in modo quanto mai convinto, che l’équipe che scrive ed impagina “Gente Veneta” è veramente meravigliosa.

A Mestre fa da protagonista in questo settore, per motivi soprattutto storici, “Il Gazzettino” e, da una decina d’anni, fa da comprimario “La nuova Venezia” che, specie in quest’ultimo tempo, è migliorata alquanto, ma “Gente Veneta” ha ben poco da invidiare ai due quotidiani locali che hanno personale, mezzi tecnici ed economici infinitamente superiori e questa testata dei cattolici non è affatto la parente povera della stampa cittadina.

La piccola équipe, formata da Paolo Fusco, Giorgio Malavasi e Serena Spinozzi Lucchesi, Alessandro Polet e da alcuni collaboratori quali Gino Cintolo, Marco Monaco e qualche altro collaboratore locale, fa degli autentici miracoli offrendo ai lettori servizi quanto mai documentati e sempre puntuali sulle problematiche della vita della città, del Patriarcato e del territorio.

Credo che i cattolici del nostro Patriarcato possano essere veramente orgogliosi e fieri del giornale della Chiesa di Venezia e riconoscenti verso queste persone che lavorano con fede, amore, competenza personale e grande generosità. Peccato che la radio e la televisione, che sono parti integranti di questo strumento pastorale, abbiano dovuto chiudere.

Il lumino rosso

Vi sono certi riti e certi segni religiosi ai quali un tempo si dava grande importanza, ma che, in questi ultimi venti, trent’anni non dicono quasi più nulla, pur continuando ad essere presenti nelle nostre chiese. Essi sono diventati quasi dei soprammobili ai quali nessuno bada più.

Quando abbiamo aperto la “cattedrale tra i cipressi” del nostro cimitero, il marmista Pedrocco di via del cimitero, che io ho sposato molti anni fa, con un gesto di grande generosità mi ha donato il tabernacolo in marmo bianco con la figura di Gesù su fondo oro scolpita sulla porticina ed una bella acquasantiera, pure fatta da lui, in marmo rosso di Carrara. Il tabernacolo illuminato rimane la custodia dell’Eucaristia; accanto abbiamo posto un lume rosso a luce elettrica che accendiamo al mattino non appena aperta la chiesa. Ma credo che sia l’acquasantiera, più che il lumino rosso, a non essere notata quasi da nessuno. Per una quindicina di giorni mi dimenticai di riempirla d’acqua benedetta, ma nessuno è venuto mai a dirmelo e, meno ancora, non mi è mai capitato di vedere alcun fedele intingervi le dita per farsi il segno della croce entrando in chiesa. Ricordo che a catechismo mi hanno insegnato che quel gesto significava che il cristiano sentiva il bisogno di purificarsi prima di entrare nella casa di Dio per incontrare il Signore.

Al lumino rosso accanto al tabernacolo un tempo si dava ancora maggior importanza. Quante volte genitori e catechisti mi hanno insegnato che quella lampada rossa indicava la presenza reale di Gesù ed aggiungevano che nelle chiese protestanti non si usava metterlo perché loro non credevano alla presenza reale di Cristo nel segno eucaristico e perciò quei templi erano freddi, quasi disabitati, perché non c’era Gesù ad accogliere i suoi fedeli.

Il lumino rosso ora si accende quando giro l’interruttore – un gesto quasi banale – ma un tempo c’era quasi un rituale che sapeva di mistero e di sacralità: il sagrestano con attenzione rinnovava l’olio, metteva lo stoppino nuovo che era tenuto a galla da tre piccoli sugheri. Ora quasi nessuno avverte più il monito di questi segni.

Romano Guardini, il grande teologo italo-tedesco, ha scritto un bellissimo libro su “I santi segni”: l’inginocchiarsi, i gradini, le campane, il segno della croce e tanti altri gesti cristiani che contengono dei messaggi per lo spirito. Recuperarli non sarebbe male, anche se oggi della nostra fede abbiamo tante altre cose più importanti da recuperare. Comunque, da parte mia, ho deciso che a fine anno, tempo in cui andrò “in pensione” una seconda volta, e quella definitiva, passerò, come il curato d’Ars, l’intera mattinata nella mia “cattedrale” per offrire un segno, mi auguro, ancor più vivo del lumino rosso, di quel Gesù che ascolta, consola, perdona ed offre speranza; sperando che i fedeli comprendano di più questo segno fatto di fede e di vita.

Monsignor Vecchi

Che io abbia stima, riconoscenza ed affetto per il mio vecchio insegnante, prima di lettere, poi di filosofia, ed infine parroco di San Lorenzo, penso sia abbastanza noto. Tra i miei maestri è quello che certamente cito di più e penso di essere stato, tra i suoi allievi, quello che maggiormente ne ha memoria. Ciò, se non fosse altro, per aver dato il suo nome ai cinque Centri don Vecchi.

A Mestre penso che siano veramente pochi i cittadini che non conoscano don Vecchi, anche se spesso solamente per averne sentito ripetere il nome in riferimento agli alloggi per anziani.

Ho già scritto che, per un seguito di vicissitudini, sapevo che il giornalista di “Gente Veneta”, Paolo Fusco, ne aveva scritto la biografia e qualcuno mi aveva pure regalato questo volume, ma l’ho perduto – e solamente, circa un mese fa, avendone avuto in dono una seconda copia dall’ingegner Andrighetti, ho avuto l’opportunità di leggere questa corposa e dettagliata biografia.

In passato non avevo cercato il volume più di tanto, perché pensavo di aver conosciuto molto bene di persona monsignor Vecchi, avendo vissuto accanto a lui in un rapporto molto stretto per moltissimi anni. Ora, avendo terminata la lettura del volume, “Inchiesta su un sacerdote, una chiesa, una città. Valentino Vecchi”, molti aspetti sepolti da decenni sono riemersi alla memoria e altri li ho scoperti in maniera assolutamente nuova. Il biografo deve aver fatto una ricerca veramente certosina scoprendo una documentazione che neppure sapevo esistesse, tanto che anch’io, che pur pensavo di conoscerla bene, con molta sorpresa ne sono venuto solo ora a conoscenza.

Finita la lettura, in maniera globale, non è mutato il mio giudizio nei riguardi del vecchio maestro, però qualche ritocco sono costretto a fare rispetto a come lo ricordavo. Mi soffermo solo su alcuni aspetti assolutamente positivi.

  1. Monsignor Vecchi fu il primo in assoluto a pensare ad una pastorale di tipo globale per le comunità cristiane della nostra città. Se confronto il suo progetto con la situazione attuale, devo concludere che a Mestre in questo campo siamo regrediti di almeno cinquant’anni. I suoi ripetuti, e quasi testardi tentativi, sono andati a vuoto per la passività e il rifiuto di Venezia.
  2. Monsignor Vecchi, nonostante non amasse tanto fare il parroco nella parrocchia che gli fu assegnata – e non si sentisse tagliato per quel “mestiere” – la svecchiò e la portò ad essere, a livello di impostazione pastorale, senza dubbio di smentita, la punta di diamante non solo a Mestre e Venezia, ma pure nel Veneto. Furono veramente tante le iniziative concrete da farne di certo la mosca cocchiera.
  3. A monsignore piaceva parlare, progettare, scrivere e filosofeggiare, però fu il primo, e purtroppo l’unico, a creare gli strumenti concreti perché questa crescita e questa pastorale d’insieme, potessero realizzarsi. Scrissi, e Fusco lo riportò nel suo volume, che Vecchi fu un “generale” di genio, però senza collaboratori, ma soprattutto senza la fiducia e l’appoggio dello “Stato maggiore”.

I preti veneziani

Non sono mai stato troppo amante di frequentare “il palazzo” o la curia, nemmeno quando ero più giovane. Ora non lo sono anche a motivo dell’età. Ci sono stati tempi però in cui ho avuto un ruolo in certi organi istituzionali della Chiesa veneziana e penso di aver sempre ottemperato al mio dovere di parteciparvi e di farlo in maniera estremamente attiva, perfino troppo!

Adesso sono un osservatore attento, curioso e interessato alla vita del clero veneziano che, pur essendo molto ridotto, conta ancora quasi duecento membri. La mia attenzione si estende dagli ultimi arrivati ai più anziani che conosco molto meglio.

In una delle pochissime occasioni in cui il Patriarca è venuto al “don Vecchi” per un incontro sacerdotale, essendo io il “padrone di casa”, mi hanno fatto sedere vicino a lui. Più che un buon parlatore io sono un buon ascoltatore, ma essendo il Patriarca piuttosto riservato e di poche parole, pranzai piuttosto a disagio cercando con un certo affanno argomenti perché il pranzo non si riducesse ad un mortuorio.

In questa ricerca di dialogo chiesi al Patriarca genovese che cosa ne pensasse dei preti veneziani. (Ora mi pare che il clero veneziano sia abbastanza incolore e poco caratterizzato da personalità forti e particolari. Un tempo però era costituito da un repertorio molto diversificato). Il Patriarca mi rispose abbastanza asciutto che me l’avrebbe detto “fra un anno”. La cosa è finita lì perché non ho avuto altre occasioni per incontrarlo.

Oggi, appena aperta “Gente Veneta”, il periodico della diocesi, mi è balzata agli occhi una lunga lista di trasferimenti di preti da un incarico all’altro e, per una strana associazione di idee, m’è venuta in mente la battuta dell’anno scorso sulla qualità dei preti veneziani. Evidentemente, una volta conosciuti i preti, il Patriarca ha cominciato a porre in atto una sua strategia particolare per rivitalizzare la Chiesa veneziana che mi pare abbastanza appiattita, passiva e rassegnata. I nuovi incarichi, le rimozioni e i trasferimenti, mi sembrano molto consistenti a livello numerico. Mi auguro tanto che questi “rimescolamenti delle carte” abbiano buon esito.

Per Mestre di significativo c’è il cambio del parroco del Duomo, per il resto non mi pare ci sia un granché, soprattutto mi sembra di avvertire che sia scomparsa ormai completamente l’intenzione di dare volto ad un progetto pastorale cittadino ed unitario per questa città, che invece anela ad una sua autonomia, ad una sua specificità perché è notevolmente diversa da quella insulare.

In un tempo in cui c’è ancora in ballo un referendum per la separazione, questo orientamento mi preoccupa un po’.

Cambio al timone della Caritas veneziana

Il solito giornalista ben informato della curia, Alvise Sperandio, ha firmato questa mattina sul Gazzettino un trafiletto con varie notizie sui cambi di incarichi che normalmente avvengono con l’inizio dell’autunno nella Chiesa veneziana.

Ho letto con piacere una notizia che aspettavo da più di vent’anni: il cambio del direttore della Caritas veneziana. Monsignor Pistolato lascia la direzione e gli subentra un diacono permanente che ha appena ricevuto dal Patriarca l’ordinazione diaconale.

Monsignor Pistolato è ormai al vertice della Chiesa veneziana e perciò, molto opportunamente, il Patriarca l’ha sostituito con un uomo nuovo e con più tempo a disposizione. Mi pare ormai un luogo comune la constatazione che la permanenza di una persona, ad esempio un prelato, su un determinato compito, finisca per ingessare l’organismo a cui egli è preposto, mentre si spera che l’alternanza possa vivacizzare un organismo quanto mai importante all’interno della Chiesa, qual è la Caritas.

Io, non solamente perché da una vita mi occupo di questo aspetto vitale della Chiesa, ma soprattutto perché la gestione e la promozione della solidarietà, le ritengo importanti almeno quanto la catechesi e il culto, ho seguito sempre con molta attenzione questo settore della Chiesa; spesso ne sono stato pure un critico che ha tentato di pungolare e proporre, però con ben pochi risultati. Di certo sarà dipeso dal mio fare di inesperto, o forse anche da una divergenza di impostazione e di scelte ideali, fatto sta che attualmente nelle parrocchie l’organizzazione della carità langue quanto mai. Inoltre non mi sono mai accorto dell’esistenza di un progetto globale che metta in rete le varie iniziative rendendole quindi più efficaci nei riguardi dei poveri che hanno diritto di beneficiarne, e più capaci di esprimere il cuore della Chiesa veneziana.

Non conosco assolutamente il nuovo segretario della Caritas, non conosco le sue idee e i suoi programmi, comunque al più presto mi metterò in contatto con lui per fargli conoscere il “Polo solidale” del “don Vecchi”, per ricordargli che esiste una realtà chiamata Mestre, che la carità soprannaturale se non diventa operativa è pura aria fritta e soprattutto per chiedergli un progetto in cui tutte le realtà ed iniziative esistenti siano messe in rete facendo sì che le risposte alle attese dei poveri siano non solamente simboliche, ma reali.

Mi auguro che la conoscenza dell’esistente, delle forze in campo e dei bisogni della nostra gente, facciano sbocciare una sinergia che esalti questa dimensione della nostra Chiesa.

Preti in pensione

Questa mattina sono stato a San Girolamo a celebrare le nozze d’oro di uno dei collaboratori più vicini e più determinanti nella bella avventura dei Centri don Vecchi: Rolando Candiani, il figlio del famoso pittore mestrino.

La chiesa di San Girolamo una volta ancora mi ha offerto quella atmosfera sacra e serena propria di un tempio che per molti anni fu ufficiato da un vecchio prete, antico stampo, don Artemio Zordan.

Questa celebrazione voleva essere una testimonianza di riconoscenza e di affetto verso Graziella e Rolando Candiani la cui vita e storia di questi ultimi vent’anni s’è mescolata ai miei sogni e pure alle mie preoccupazioni. La vicenda dei Centri don Vecchi è stata di certo una bella vicenda, positiva e riuscita, però in realtà non è stata una passeggiata su un sentiero coperto da petali di rose, ma carico di difficoltà senza fine.

Durante la celebrazione m’hanno sempre accompagnato la testimonianza di due sacerdoti: quella di don Artemio, cappellano storico di San Girolamo, prete all’antica, però capace di educare la gioventù del suo tempo, e quella di don Fausto, prete all’avanguardia che ha condotto fino ad oggi in maniera intelligente ed innovativa la bella parrocchia del duomo di San Lorenzo.

Un tempo si faceva il prete a vita. Oggi non più: è di certo una conseguenza della mentalità, a mio giudizio non sempre positiva, del sindacato che ha indotto pure la Chiesa ad allinearsi con la società, stabilendo – per me innaturalmente – una data per uscire dal ministero pastorale attivo.

Don Artemio, il vecchio rettore di San Girolamo, che di certo non brillava come innovatore, ha cresciuto generazioni di bravi ragazzi che lo ricordano con affetto e riconoscenza, e tra questi c’era pure, stamattina, Rolando, lo sposo che rinnovava il suo patto d’amore con Graziella dopo cinquant’anni di vita in comune.

La presenza di don Fausto, che a giorni abbandona l’apostolato attivo nel duomo di San Lorenzo, mi ha riconfermato nella convinzione che l’ottemperanza pedissequa alla norma che fissa a settantacinque anni l’età della pensione dei preti, è una solenne castronata che impoverisce la Chiesa veneziana, anche perché ho l’impressione che non vi sia un progetto illuminato per recuperare queste belle potenzialità.

Io ho conosciuto don Fausto ragazzino ai Gesuati, il mio rapporto con lui è sempre stato corretto, però dialettico e sano, per cui non sono mancate pure le divergenze che per me sono un fatto non solo naturale, ma pure arricchente.

Più volte ho ribadito che don Fausto a Mestre rappresenta la punta di diamante per la pastorale. Non conosco parroco più lucido nell’impostazione della comunità cristiana, più aggiornato nel cavalcare la sensibilità dell’uomo d’oggi, più capace non solo di interpretare, ma di dar risposta ai problemi dell’uomo. Il suo “licenziamento” per limiti di età e la mancanza di un progetto lucido per utilizzare questa sua esperienza, mi pare una vera carenza della Chiesa veneziana.

L’apostolato

Mi pare che nella Chiesa il primo punto del fronte che ha ceduto sia quello delle missioni. Il motivo che aggrava questo cedimento è che quel settore del fronte era tenuto dai corpi più forti, generosi e motivati, ossia dai missionari.

Ho sempre pensato ai missionari come ai volontari più generosi ed ardimentosi, quelli che hanno preso seriamente il monito di Gesù: “Andate, predicate l’Evangelo di Dio e battezzate nel nome del Signore!”. Ho sempre pensato ai missionari come a un corpo di élite, come all’avanguardia cristiana, gli arditi della Chiesa che sono capaci di passare la frontiera e portare il messaggio di Gesù in terre lontane. I missionari che ho incontrato nella mia lunga vita mi sono sempre sembrati i cristiani più belli, per la loro generosità, il loro coraggio e la loro capacità di lasciare la propria terra per portare il messaggio di Gesù a creature che vivevano “nelle tenebre”.

Ricordo che quando ero ragazzino si stampava una collana di brevi volumi di color giallo nei quali si raccontavano le stupende avventure dei missionari che vivevano nei paesi più abbandonati del mondo. Quanto mi hanno entusiasmato e fatto sognare quei racconti! Quando poi veniva in seminario qualche missionario a parlarci della loro vita, l’entusiasmo andava alle stelle.

Poi pian piano tutto si rabbuiò, si cominciò a discutere sull’opportunità del proselitismo, si cominciò a preoccuparsi, anche giustamente, di dover rispettare le tradizioni, la cultura di quei popoli, ci si preoccupò di non imporre, sotto il pretesto missionario, il tipo di civiltà occidentale, e cose del genere.

Non è che gli ordini religiosi abbiano chiuso con l’esperienza missionaria, però mi pare che non ci sia più quel fermento, quell’entusiasmo verso le missioni e i missionari che un tempo erano presenti nelle parrocchie.

Ricordo che una quarantina di anni fa in parrocchia aiutavamo un’anziana missionaria più che ottantenne che avevamo denominato “la vecchierella di Dio”, che ci parlava con tale entusiasmo della sua gente di terra d’Africa, dei battezzandi, dei suoi poveri, che veramente destava un interesse quanto mai vivo tra i miei parrocchiani. Oggi questo non capita di certo.

Un altro settore della frontiera cristiana che mi pare sia in grave sofferenza, è quello dell'”apostolato”. Quando ero ragazzino e facevo parte degli aspiranti dell’Azione Cattolica, i miei sacerdoti ed educatori non facevano che parlare del dovere di “conquistare” i compagni sbandati e lontani dalla Chiesa. Crescendo poi, leggendo l'”Adesso” di don Mazzolari, mi nacque nel cuore l’assillo di preoccuparmi e farmi carico degli “ultimi”, e tra questi non c’erano solo i poveri e gli infelici, ma anche coloro che s’erano allontanati da Dio. Mi è sempre rimasto nell’animo il dovere e pure il bisogno di far giungere la proposta cristiana anche ai “lontani”.

Ora la Chiesa parla, sì, della nuova evangelizzazione, ma mi sembra un discorso accademico e fuori dalla vita reale.

Il gap pastorale

Che il mondo giri più rapidamente che in passato è certamente un dato incontrovertibile. Io sono ancora sufficientemente lucido da capire che sono fuori corso ormai da molti anni.

Un paio di anni fa è venuta da me una nipote intelligente e preparata che lavora in un’azienda importante, mentre io stavo impaginando “L’Incontro”.

Ho detto certamente ai lettori che la catena di montaggio del nostro periodico è assai complessa, lenta e laboriosa. Ma che molto dipenda da me forse non l’ho fatto per la vergogna di mostrare quanto io sia “arretrato”.

Le cose vanno così: io scrivo i testi a mano con la biro, la signora Laura li corregge ed inserisce in computer, suor Teresa li traduce in striscioline pari ad una colonna ed io ancora ritaglio le striscioline, le incollo su fogli già predisposti, uguali alle pagine del giornale. Quindi i tecnici esperti riportano il tutto nel computer e preparano le pagine perché possano esser stampate.

Torno alla nipote che, vedendomi fare questa operazione, mi disse sorpresa: «Ma zio, perché non fai tutto questo direttamente col computer? Risparmieresti tanto tempo!» Ho capito che aveva perfettamente ragione, ma soprattutto ho capito che sono assolutamente superato e soprattutto in arretrato perché non so usare il computer, cosa che oggi è assolutamente imperdonabile.

La tecnica, la scienza e pure il pensiero e la cultura oggi procedono velocissime. Tutti criticano l’Italia perché non investe di più sulla ricerca, sull’aggiornamento e perciò si trova in arretrato, non regge al mercato e risulta terribilmente superata.

Se questo discorso è purtroppo vero per me, lo è ancor di più per quanto riguarda l’aggiornamento e lo sviluppo della pastorale per le parrocchie. In questo settore siamo ancora all’età della pietra. Sono poche le persone intelligenti che hanno colto che questo gap ci danneggia in maniera irrimediabile col passare del tempo.

Ritorno alla lettura del volume sulla vita di monsignor Valentino Vecchi di cui ho parlato nel diario dei giorni scorsi. Ho letto questa mattina che nel progetto che monsignore venticinque anni fa ha presentato al patriarca Urbani, lui prevedeva fra l’altro l’apertura di una piccola tipografia per la stampa dei cosiddetti “bollettini parrocchiali”, ove ogni parroco poteva disporre di uno spazio specifico per le attività della sua parrocchia, mentre altri sacerdoti e laici qualificati avrebbero, in maniera competente, fatto un discorso di formazione e di nuova evangelizzazione.

Questa operazione avrebbe offerto periodici personalizzati alla propria comunità specifica e, oltretutto, con discorsi seri e ben fatti. Se poi ogni parrocchia avesse mandato ogni settimana il periodico ad ogni famiglia, il discorso sulla nuova evangelizzazione avrebbe cominciato ad essere un discorso serio. Il progetto non è andato in porto. Ora, se ogni parrocchia continuerà a produrre bollettini parrocchiali vuoti e deludenti, i discorsi sulla nuova proposta del messaggio di Gesù rimarranno una assoluta chimera.

Evoluzione o involuzione pastorale?

Quando è uscito il volume di Paolo Fusco sulla vita e le opere di monsignor Valentino Vecchi e qualcuno me ne ha regalato una copia, vi diedi un’occhiata assai sfuggevole pensando “con lui sono vissuto così tanti anni, prima da studente e poi da cappellano, che non dovrei avere proprio nulla da scoprire di nuovo”. Così misi da parte il volume riproponendomi di leggerlo quando fossi stato un po’ più libero.

Il volume è uscito nel 2001, era il tempo in cui avevo presentato le dimissioni da parroco come esige il codice di diritto canonico. Poi ci fu un tiramolla perché il Patriarca e il suo vicario insistevano perché rimanessi ancora qualche anno avendo difficoltà a sostituirmi. Io allora ero pressato da due pensieri altrettanto gravi e angosciosi. Da una parte temevo che una comunità così complessa ed articolata finisse per implodere ed io dover assistere allo sfascio di una realtà che avevo tanto amato e per la quale mi ero veramente spremuto tutto. Dall’altra parte, essendo sempre stato un prete estremamente attento all’evoluzione così rapida del nostro tempo, temevo pure di non aver più la lucidità per interpretare i tempi nuovi e quindi di darne una risposta adeguata.

Comunque, nel trasloco da una “villa veneta” di parecchie centinaia di metri quadri, ad un quartierino di appena 49 metri, dovetti liberarmi di tutto quello che non mi era essenziale. Per i libri non potevo disporre che di un modesto armadio e perciò dovetti liberarmi di una biblioteca raccolta in cinquant’anni di vita e tra i tanti volumi ci fu anche quello sul mio vecchio maestro.

Me ne dispiacque, ma fortunatamente, proprio in questo ultimo tempo, me n’è stata donata un’altra copia che sto leggendo avidamente e con estremo interesse. In questi giorni sto rivedendo e pure scoprendo una documentazione di cui non ero in possesso e di cui non ero a conoscenza, circa il progetto pastorale cittadino che monsignor Vecchi propose al patriarca Urbani. Allora non se ne fece nulla perché Venezia, in tutte le sue articolazioni, ha sempre considerato Mestre come “una città di campagna” – come dicono, con un certo sussiego e sicumera i veneziani – ma ora sto constatando che c’è una involuzione ed una regressione veramente da far spavento da un punto di vista pastorale.

Il progetto di monsignor Vecchi, a più di un quarto di secolo, appare semplicemente avveniristico, mentre ora non solo non c’è progetto, ma neppure gli elementi base per poterlo sognare in futuro. Sto dicendomi: “Dove sono andati a finire l’AIMC, i Maestri cattolici, la Fuci, i Cappellani del lavoro, il Centro sportivo italiano, l’Associazione imprenditori, l’Azione Cattolica e tante altre realtà? Mi pare di dover constatare, con tanta amarezza, una involuzione quanto mai preoccupante.

Una università diversa

Una quindicina di anni fa operava a Mestre un giovane frate antoniano che viveva nella parrocchia del Sacro Cuore in via Aleardi. Questo sacerdote aveva l’incarico di occuparsi dell’assistenza religiosa degli operai di Marghera. Il nostro polo industriale stava già allora sfaldandosi, ora poi è ridotto ad un cumulo di rovine.

I padri antoniani sono stati gli ultimi sacerdoti, seguendo la strada aperta da don Armando Berna, che han fatto dell’evangelizzazione degli operai di Marghera lo scopo principale della loro vita. Ebbene, fra questi c’era questo giovane frate, particolarmente intelligente, che aveva grande fascino sui giovani di Mestre.

In quel tempo, nella mia parrocchia di allora, avevo una quarantina di giovani della San Vincenzo, divisi in due gruppi, che ci facevano sognare e che rappresentavano la primavera dell’impegno caritativo della comunità cristiana. Essi allora subivano il fascino di questo giovane seguace del poverello di Assisi ed un giorno lo invitarono a parlar loro e ai loro amici sull’azione caritatevole della Chiesa. Partecipai anch’io all’incontro. Quel frate aveva veramente un fascino particolare, sapeva parlar bene,ma soprattutto entusiasmava quando parlava del servizio ai poveri.

Nel dibattito che seguì la conferenza, qualcuno gli chiese se era laureato ed egli, con disinvoltura affermò: «Si, mi sono laureato all'”università della strada”», riferendo le esperienze che i suoi superiori gli avevano fatto fare a favore degli ultimi. Quel “titolo accademico” mi impressionò alquanto capendo che i preti, ma non solamente, devono fare esperienze, vivere per i poveri, con i poveri e come i poveri. Parlare, anche in maniera forbita, sulla carità, può destare anche entusiasmo, però solamente l’esperienza concreta matura una sensibilità atta a capire, condividere e far proprio il dramma dei poveri.

L’altro giorno mi è capitato di leggere il decalogo dell’amore che passava sotto il titolo “La prova del mille”, scritto da madre Teresa di Calcutta, in cui venivano offerte dieci regole che sono la prova del nove della carità. La prima di queste regole afferma: “Mille discorsi sulla carità non valgono un’opera buona”.

Credo veramente, come diceva san Vincenzo, il fondatore delle “conferenze”, che solo salendo le scale dei poveri, sedendo nello squallore delle loro case, si matura alla vera carità. Don Ciotti in una sua intervista pubblicata recentemente, confessava che il suo vescovo, il cardinal Pellegrino, l’aveva nominato “parroco della strada”.

Oggi il nostro Papa Francesco pare che ci spinga un passo più in là quando ci invita ad andare nelle “periferie dell’uomo” e ce ne dà poi un esempio personale, quanto mai fulgido, con le sue telefonate, con le sue interviste ai “poveri della fede”, la sua vita di pontefice che ha abbandonato ogni sfarzo nel vestire, nel parlare e nell’agire, perché parlino solamente le sue scelte e i suoi gesti.

Per la Chiesa è ormai tempo di uscire dalle sue sagrestie, dai suoi campanili e dai suoi riti per essere solidale con chi soffre e con chi è solo e povero. E’ tempo di “scendere per strada”.

Due pesi e due misure

Già altre volte sono tornato su questo argomento, però penso sia doveroso ritornarci ancora perché lo ritengo un problema che siamo ben lontani dall’aver risolto.

Sento però il bisogno di fare un paio di premesse molto precise perché non nascano interpretazioni negative o equivoci che tornino a discapito dell’obiettivo che vorrei raggiungere.

Primo: io amo profondamente la Chiesa cattolica a cui ho dedicato tutta la mia vita e che ho tentato di servire con tutte le mie risorse. Secondo: ritengo che la Chiesa cattolica sia, tra tutte le confessioni cristiane e tra tutte le religioni, la comunità di credenti più fedele ai messaggi di Gesù e nel contempo la comunità che offre le risposte più adeguate ai bisogni e alle attese dell’uomo di tutti i tempi, ed ogni volta che ho parlato o scritto della Chiesa, l’ho sempre fatto per amore, mosso dal desiderio che sia sempre più fedele al messaggio di Gesù e sempre più a servizio dell’uomo.

Detto questo però, ho ancora la sensazione che manchi all’interno della Chiesa una giusta valutazione dell’importanza del confronto tra interpretazioni, proposte e progetti che tenda alla sua purificazione e al suo miglioramento.

Ritengo poi che non si sia ancora acquisita, come apporto positivo, ogni forma di autocritica, atteggiamento che permetterebbe la possibilità di criticare altre realtà per i loro errori o deficienze e nel contempo metterebbe in luce e darebbe la possibilità di correggere errori, deficienze che pur ci sono anche nella Chiesa, come in ogni organismo umano.

In questa mia umile riflessione oggi vorrei sottolineare un aspetto particolare: nella Chiesa non c’è ancora lo stesso trattamento tra chi forse può peccare per certe idee, proposte o progetti che possono essere giudicati dalla gerarchia progressisti, e quelli che invece possono esser giudicati conservatori.

Per rimanere nell’ambito del clero, non ho mai sentito che si siano presi provvedimenti per i preti che pensano e agiscono come se vivessero uno o due secoli fa, mentre si è sempre stati tanto attenti a chi è in ricerca, fa tentativi per aggiornare il pensiero cristiano e coniugarlo con la cultura e il progresso del pensiero che sono in costante evoluzione. Non mi è capitato quasi mai che certi preti cosiddetti progressisti siano chiamati a guidare comunità cristiane importanti, mentre sempre pare si cerchino persone prudenti, allineate, ossequienti e tranquille per questi compiti.

Anche nella storia più recente della Chiesa italiana vi sono preti intelligenti, generosi, appassionati, che sono controllati a vista, mentre vi sono dei “don Abbondio” codini, tranquilli, ossequienti e legati alle norme (che sono sempre in ritardo con la vita) che pontificano indisturbati.

Aiutare la Chiesa ad emanciparsi da questa mentalità e da questa prassi, penso sia una virtù e un segno di amore piuttosto che un peccato ed una mancanza di rispetto e di obbedienza vera ad essa.

23.08.2014

Fanatismo e indifferenza

In questi ultimi anni i mass media hanno giustamente messo in risalto il volto peggiore dell’Islam. A me, prete, verrebbe talvolta da invidiare le moschee strapiene di uomini che si prostrano col volto fino a toccare la terra per lodare il Signore, anche se lo acclamano chiamandolo con un nome diverso da quello con cui io mi rivolgo allo stesso Signore. Ma se poi comincio a pensare che quegli uomini si vestono di nero, si coprono il volto e commettono, in nome di quel Dio che pregano, i delitti più esecrandi, allora provo orrore per quella religione che non ha proprio nulla di sacro e religioso e si manifesta sostanzialmente peggiore di ogni forma di ateismo anche più radicale.

Il secolarismo occidentale, che sta lentamente soppiantando la religione cristiana, persegue, tutto sommato, valori che sono infinitamente più alti, più sacri e più umani di quelli dei praticanti più ortodossi dell’Islam.

I mass media ci passano ogni giorno le notizie più fosche e più disumane e ci mostrano le immagini più crudeli e meno immaginabili dei seguaci dell’Islam che stanno promuovendo il nuovo califfato.

I nostri benpensanti d’occidente si affrettano a dire che questi figuri sono i fondamentalisti dell’Islam ma che nel mondo arabo ci sono pure i moderati. Mi domando però dove sono, cosa fanno questi musulmani moderati per contrastare e condannare questa aberrazione della fede e della religione! Sì, ogni tanto si sente qualche timida voce da musulmani che vivono in Europa, dove non solo i governanti laici, ma pure i cristiani più lucidi e più ferventi si battono perché sia loro garantita la libertà di professare la loro fede e perfino si danno da fare perché abbiano i luoghi di culto necessari.

La medaglia di questo nostro mondo, come tutte le medaglie, ha due facciate: una è quella dell’Islam irrispettoso, settario e intollerante delle altre fedi, l’altra non è meno deludente e meschina. Riempiono questa faccia della medaglia i cristiani e il loro modo di professare la fede, le associazioni cristiane e i governi dei Paesi che si richiamano, come tradizione e come cultura, al cristianesimo rimangono indifferenti come se la cosa non li riguardasse.

Gli unici a muoversi finora sono stati Papa Francesco e gli Stati Uniti. Papa Francesco, che ha mandato aiuti ai cristiani perseguitati dalla ferocia dei soldati del nuovo califfato ed ha invitato i popoli del mondo a pregare e a fermare tanta ferocia e tanto settarismo che sono in realtà la negazione e la bestemmia più grave che la creatura umana può concepire; gli Stati Uniti, che però stanno contrastando il terrore con altro terrore, la violenza con altra violenza.

Purtroppo l’ONU, che dovrebbe far coalizzare tutti gli uomini e i governi di buona volontà, se ne sta zitto, e pure i vescovi, i preti e i cristiani stanno facendo le ferie e perciò non hanno tempo per pregare, creare opinione pubblica ed operare perché col dialogo ed ogni pressione non violenta si possa arrivare ad un rapporto più tollerante. Il fanatismo dell’Islam è esecrabile, però pure l’indifferenza dei cristiani è altrettanto ignobile e condannabile.

20.08.2014

La nostra utopia non è una chimera

Penso che qualche parroco sia un po’ seccato perché questo vecchio “collega” ormai pensionato mette tanto spesso e con tanta decisione il naso non in una delle “cinque piaghe della Chiesa”, come Rosmini prima, e Martini poi, hanno denunciato, ma in qualche altra non meno grave. Mi riferisco al discorso su cui sono tornato innumerevoli volte, ossia la carenza di strutture e di servizi caritativi nelle nostre parrocchie.

Tante volte, con pochissimi risultati, almeno apparenti, ho scritto che la carità, o meglio la solidarietà – come io preferisco dire – è la cenerentola delle preoccupazioni e delle realizzazioni parrocchiali. Talvolta m’è venuto perfino da pensare che certe parrocchie che rifiutano “L’Incontro” lo facciano perché infastidite da queste denunce che il nostro periodico fa spesso a questo proposito e con estrema decisione. La giustificazione più frequente circa la mancanza di servizi sociali nelle parrocchie è addebitata alla carenza di mezzi economici da cui paiono afflitte da sempre certe comunità parrocchiali. A questa obbiezione vorrei ribadire ancora una volta che la carità cristiana non deve ritenersi – a mio umile parere – una passività a livello economico, ma una voce attiva nel bilancio parrocchiale.

Recentemente ho letto su “Gente Veneta” una relazione sulla nuova iniziativa fatta dalla Caritas della diocesi di Venezia con apertura di una mensa e di un dormitorio per i poveri a Marghera. Analizzando quello che c’è scritto sotto le righe dell’articolo, ho concluso che il peso economico che la diocesi deve sobbarcarsi, deve essere consistente e che probabilmente deve provenire dall’otto per mille di cui fruisce.

Scrissi che mi ripromettevo di visitare la nuova struttura, della quale la diocesi pare molto fiera, per accertarmi anche su questo aspetto non irrilevante. La dottrina che supporta tutto il Polo solidale del “don Vecchi”, fa sì che esso sia in attivo sia a livello globale che a livello delle quattro associazioni che lo compongono, più la Fondazione Carpinetum.

Questa dottrina presuppone che nessuno è tanto povero da non avere qualcosa da offrire a chi è più povero di lui. Da ciò nasce che assolutamente nulla viene offerto gratuitamente, ma ad ognuno è richiesto un piccolo contributo “offerta”, che poi viene usata per altri poveri.

Con simile dottrina ognuno deve rendersi conto che nulla piove dal cielo in maniera gratuita; non solamente, ma ognuno deve fare la sua piccola parte, seppur minima, per creare una città solidale il cui benessere diventi frutto dell’impegno di ognuno.

Con questa dottrina non solamente sono nati i cinque Centri “don Vecchi”, che mettono a disposizione degli anziani poveri quasi quattrocentocinquanta alloggi, ma ripeto che ognuna delle quattro associazioni, più la Fondazione, non solamente non pesano su alcuno, ma pure producono un certo reddito.

Alla prova dei fatti la nostra non è una chimera, ma una splendida utopia che, applicata in maniera più vasta, creerebbe una città solidale.

08.09.2014