L’avventura del pulmino

Lo scorso anno il presidente della municipalità ha accompagnato al “don Vecchi” una ragazza piuttosto avvenente per farmi una richiesta-proposta: ossia mi chiedeva se io avrei gradito la fornitura, a titolo gratuito, di un “doblò” attrezzato con carrello sollevatore per trasporto di persone disabili.

La cooperativa che proponeva l’operazione avrebbe fornito l’automezzo, pagato l’assicurazione e il bollo e l’avrebbe ceduto con un tipo di comandato gratuito per quattro anni rinnovabili.

D’istinto mi venne da pensare: “Troppa grazia, sant’Antonio!”.

Poi questa agente della cooperativa illustrò tutti gli aspetti dell’operazione: il Comune e la Fondazione avrebbero avallato, con atto formale, la raccolta della pubblicità presso le aziende cittadine, per cui l’automezzo sarebbe apparso come il manto di un leopardo, ma con macchie di misura e di colore diversi in rapporto alle “icone” richieste dalle singole ditte.

Sembrava che la somma necessaria – cinquantamila euro – sarebbe stata reperita in pochi mesi, ma la crisi economica rallentò decisamente la raccolta. Le aziende, anche le più sane, sono piuttosto guardinghe oggi nello sborsare denaro per farsi pubblicità. Spesso mi giungevano telefonate dalle ditte interpellate, per garantirsi che non ci fossero inganni. Comunque, anche se con una certa fatica, siamo arrivati in porto e con un rito solenne, ci è stato consegnato l’automezzo.

L’impresa m’ha fatto felice per più motivi, da un lato perché il “don Vecchi” è oggi, presso i cittadini, un ente riconosciuto, stimato e meritevole di essere aiutato, e dall’altro lato perché l’automezzo, con l’attrezzatura per il trasporto di disabili, ci è quanto mai utile per accompagnare gli anziani presso gli ambulatori per le visite mediche che oggi sono quanto mai frequenti. Ora si tratterà di reperire tra i residenti un volontario e il servizio sarà bell’e pronto ed efficiente.

Attualmente il parco macchine del “don Vecchi” e delle associazioni che vivono in simbiosi, è ormai rilevante: cinque furgoni, dei quali uno con frigo e due doblò. L’azienda sta prendendo consistenza!

Il segreto dell’attivo

Le confidenze di qualche collega mi hanno turbato in quest’ultimo tempo. Sono venuto a conoscenza che qualche operazione sbagliata e qualche conduzione poco attenta ha messo in difficoltà qualche ente che ruota attorno al mio piccolo mondo.

D’istinto, più volte in questi giorni, mi sono chiesto: “Come mai il don Vecchi gode buona salute, coltiva progetti di sviluppo, come mai la sua contabilità non ha mai conosciuto il rosso? Sono ben lontano dal pensare di potermi ergere a maestro, se non altro perché mai nessuno del mio mondo mi ha chiesto i “segreti” di questa nostra realtà che, nonostante i tempi difficili e la crisi incombente, sogna, progetta e si proietta nel futuro.

Di certo io non ho mai pensato di avere capacità manageriali, ancorché qualcuno, forse per affetto o forse per spirito critico, talora mi abbia definito “l’imprenditore di Dio”.

Monsignor Vecchi, quando io, giovane prete, sognavo ad occhi aperti e proponevo progetti avanzati, mi ripeteva: «Ora, don Armando, non hai responsabilità economiche, ma quando non sarà più così, t’accorgerai quante difficoltà si incontrano!». Questo monito mi ha sempre aiutato ad essere cauto, a non essere spericolato, ma soprattutto a farmi aiutare.

Ieri pomeriggio sono andato al “don Vecchi” di Marghera per l’inaugurazione di una delle tante “personali” che si susseguono ogni quindici giorni. Una volta ancora sono rimasto incantato dal buon gusto, dalla signorilità, dalla cura del prato, come delle sale interne. I numerosi ospiti che sono intervenuti per l’inaugurazione della mostra non facevano che ripetere che quello era un hotel, non una casa di riposo! E mi guardavano come io fossi l’artefice di tanta bellezza, mentre io arrossivo di fronte a queste lodi, perché il merito di tanta armonia era ed è tutto di Teresa e Luciano, la coppia di sposi che investono il meglio del loro cuore e della loro intelligenza per questa struttura che amano e curano come fosse il loro castello, il più bel “gioiello di famiglia”.

Anch’io sono rimasto a bocca aperta di fronte all’incanto di una residenza che si potrebbe immaginare destinata a ricchi mercanti o appartenenti al patriziato veneziano.

I Centri don Vecchi sono vivi, efficienti, belli ed in attivo, perché non c’è settore che non possa contare su un numero sconfinato di persone belle e care che offrono il meglio di sé agli anziani senza censo e, spesso, senza famiglia.

Il testamento

Un mio vecchio parrocchiano che ogni anno, quando andavo a benedire la sua famiglia, ripeteva puntigliosamente che lui non era credente, un paio di anni fa mi ha scritto una lettera diffidandomi dal continuare ad invitare i concittadini a ricordarsi degli anziani poveri e suggerire a chi non aveva responsabilità e doveri verso dei congiunti, di far testamento a favore dei Centri don Vecchi.

Di certo non ho tenuto alcun conto di questa intromissione inopportuna, ho continuato per la mia strada ottenendo, fortunatamente, dei buoni risultati. Per timore che qualche altro concittadino mi accusi di autoreferenzialità, non faccio l’elenco dei lasciti ottenuti, però assicuro che i quattro Centri, con i relativi 315 alloggi protetti, non sono frutto di rapine in banca, ma il risultato di offerte e di lasciti testamentari da parte di concittadini saggi e generosi che hanno pensato anche a chi era meno fortunato di loro.

So per certo che altri concittadini hanno fatto questa scelta. Prego perché questa bella gente sono convinto che meriti una vita lunga e felice, ma spero che il giovane consiglio di amministrazione che governa attualmente la Fondazione, prima o poi raccolga i frutti dei semi che ho seminato, anche se non tutti i miei colleghi e i miei concittadini erano, o sono, di questo parere.

Più volte ho confidato a chi mi legge che io ho un’unica “padrona di casa” a cui mi sforzo di obbedire: la mia coscienza. Finora mi sono sempre trovato bene e perciò non ho nessun motivo per fare scelte diverse. Anche recentemente mi sono incontrato con un concittadino che ha avuto il coraggio e la saggezza di destinare a qualcuno che è in difficoltà il frutto della sua lunga vita di lavoro. Qualche settimana fa mi giunse la telefonata di un vecchio ingegnere che aveva intenzione di lasciare la sua casa alla Fondazione. Lo raggiunsi, lui si informò accuratamente sui progetti che stiamo perseguendo, sull’attività a favore degli anziani e poi mi confermò che avrebbe parlato col suo legale per perfezionare il testamento. Uscii dall’incontro edificato dalla lungimiranza e dalla saggezza di questo signore che ha avuto il coraggio di destinare il frutto del suo lavoro a coetanei meno fortunati.

Confesso che però faccio fatica a capire perché tanti altri concittadini che potrebbero farlo, senza nuocere a nessuno, non lo facciano, affinché la nostra città possa avere delle risposte adeguate alle urgenze più gravi di tante persone in difficoltà.

Ottantaquattro anni

C’è sempre qualcuna delle persone più vicine a me che mi rimprovera amabilmente perché “io dico tutto!”.

Quando ero in parrocchia, ero solito pubblicare su un bollettino parrocchiale, tutte le offerte che ricevevo. In verità, anche da questo lato, io mi ritengo un uomo fortunato, perché mentre alcuni colleghi si piangono addosso dicendo che la gente non è generosa, io ho sempre riscontrato l’opposto, forse anche perché ho puntato a sottolineare la generosità dei miei parrocchiani piuttosto che l’avarizia.

Ricordo un vecchietto di via Guido Negri – una strada di Carpenedo – che era solito fare la somma di quanto dichiaravo d’aver ricevuto durante la settimana e si meravigliava dell’entità. Gli amici mi suggerivano di smettere di pubblicare le offerte. Io però non sono mai riuscito a capire perché, se incontro qualcosa di bello, non lo si debba confidare alle persone con cui vivo. In fondo alle stesse persone segnalo tutte le meschinità che incontro sulla mia strada.

Ho compiuto ottantaquattro anni il 15 marzo. Quest’anno la data cadeva di venerdì; quindi, non per superstizione, ma perché al “don Vecchi” ci saremmo incontrati l’indomani per la messa prefestiva, decisi di festeggiare questa data importante appunto di sabato. I festeggiamenti sono consistiti in una bella messa celebrata assieme, qualche preghiera specifica, molti doni semplici, ma fatti col cuore, un brindisi e la torta offerta con la solita generosità dalla ditta di pompe funebri Busolin, e i pasticcini offerti dal catering “Serenissima ristorazione” che serve i pasti al “don Vecchi”.

In tale occasione tutti si aspettavano una parola ed io ero cosciente di doverla dire (quando si vive in famiglia è giusto mettere tutto assieme). Iniziai dicendo: «Cari amici, vi garantisco, per esperienza diretta, che almeno fino agli ottantaquattro, la vita è bella e si può essere contenti. Vale la pena di vivere con fiducia, di far di tutto per aiutare gli altri, di non risparmiarsi perché l’impegno allunga e rende più bella la vita piuttosto che accorciarla e renderla più faticosa. Di queste cose ero, e sono, pienamente convinto, ed essendo la mia vita sotto gli occhi di tutti, spero di esserne un testimone credibile.

Qualcuno dice che sono “una roccia”, quasi non mi costasse l’impegno. Non è vero, sono invece un pover’uomo soggetto a paure, entusiasmi e scoraggiamenti ma anche, su suggerimento del fondatore degli scout – a lui devo molto – voglio essere io al timone della mia barca e, nonostante tutto, voglio lasciarmi indirizzare dalla “stella polare”!

I fracassoni

Da sempre ero convinto che agli anziani piacessero le vecchie canzoni romantiche e sentimentali, quali ad esempio “Mamma”, “Romagna mia”, “Il tango delle capinere”, “Balocchi e profumi”, o le più celebri romanze della lirica. La mia convinzione era così radicata che, faticando un po’, ho stampato perfino un canzoniere con i pezzi più significativi e popolari di questo genere di musica. In forza poi di questo convincimento, avevo sempre favorito che il “gruppo ricreativo culturale” del don Vecchi, che organizza i concerti domenicali, facesse intervenire cori che hanno nel loro repertorio canti di montagna, canzoni veneziane, canti popolari, romanze celebri e musica del genere, sconsigliando quindi la musica polifonica e i canti rinascimentali, che in genere favoriscono il sonno, piuttosto facile per noi anziani, ma soprattutto le canzoni e la musica moderna.

Invece, all’inizio della Quaresima, un po’ preoccupati per la stagione liturgica, i membri di quel gruppo mi chiesero se potevano far intervenire un complesso che cantava dal vivo canzoni moderne di cui faceva parte il figlio di una nostra residente, il quale si era offerto a suonare per offrire un pomeriggio diverso “ai nonni del don Vecchi”. Io che non ho “scrupoli quaresimali”, acconsentii, raccomandandomi però di moderare il volume degli strumenti elettronici (in cuor mio mi dissi: “farò un fioretto di quaresima”, partecipando, per dovere di rappresentanza, a questo concerto).

I corridoi silenziosi e solenni del “don Vecchi” cominciarono, fin dal primo pomeriggio, a riecheggiare di note assordanti, assolutamente inusuali per la nostra struttura. Fui subito preoccupato per il pisolino, che è un rito sacrosanto per tutti i residenti, poi mi rasserenai col pensiero che siamo quasi tutti mezzi sordi.

Alle 16 cominciò ufficialmente “la baldoria”: suoni e canti a squarciagola che proponevano – una dietro l’altra – canzoni a me sconosciute. Ma capii subito, con notevole sorpresa, che non era lo stesso per i miei vecchi che infatti cominciarono a cantare, a ballare, a battere le mani con un entusiasmo sorprendente. Non ho mai visto gli anziani residenti così numerosi, così euforici e così partecipi. Ho avuto l’impressione che esperienze del genere, nelle vecchie balere o in discoteca, le avessero già fatte e fossero rimaste in qualche parte del loro animo, e che le note marcate dalla tastiera le avessero ridestate.

Penso che d’ora in poi dovremo mettere più spesso in programma “musica dal vivo” per ridestare dal torpore chi ha forse perso il pelo ma non il “vizio”, e mi consolo pensando che anche il “pio re David” si comportò allo stesso modo.

L’EX

Il criterio con cui accettiamo le richieste di entrare al “don Vecchi” è pressoché unico: il bisogno economico o esistenziale.

Abbiamo creato una griglia di valutazione, però essa si rifà fondamentalmente al criterio suddetto. In questa griglia sono assolutamente assenti altre indicazioni, quali militanza politica, pratica religiosa, irregolarità nei rapporti famigliari, storia del passato o i motivi per cui il richiedente è costretto a chiedere aiuto al nostro ente, il quale però non nasconde mai la sua matrice religiosa. L’accoglienza si rifà all’immagine evangelica della “rete buttata in mare e che raccoglie ogni sorta di pesci”. Da noi non c’è cernita alcuna.

Da questa scelta lucida e meditata abbiamo raccolto e stiamo raccogliendo ogni specie di uomo. Per fare qualche confidenza, meno di metà dei residenti viene regolarmente a messa, pur avendo “la chiesa in casa”. Alcuni – pochi ma ci sono – hanno rifiutato il sacerdote che chiedeva di dare la benedizione, alcuni vivono al Centro come fosse un albergo, vanno e vengono, talora degnandosi solamente di un accenno di saluto. Altri si occupano solo dei nipoti, ossia dei figli di quei loro figli che li hanno messi alla porta. Altri ancora non nascondono una certa avversione per il clero e per i suoi “derivati”. Altri sono prontissimi ad approfittare di ogni occasione vantaggiosa, mentre non sono disposti a muovere neppure un dito per la comunità che li ospita. E potrei continuare.

Questo è il volto negativo della medaglia, però c’è anche quello bello, anzi semplicemente meraviglioso. Credo che credere alla carità esiga pagare questo prezzo. Ci siamo proposti di rispettare le opinioni e i comportamenti di coloro che sono i più lontani dalle nostre convinzioni, perché crediamo anzitutto al valore della nostra testimonianza.

Fortunatamente ogni tanto arriva qualche riscontro che aiuta la nostra “fede”. Qualche settimana fa mi è giunto un foglio di una sessantottina radicale che militava in “Lotta continua” e che si dice di estrema sinistra: “Son venuta al don Vecchi perché costretta dal bisogno. Qui però ho incontrato un ambiente `laico’ che mi fa sentire a mio agio. Questa è la `mia casa’ e sono felice di spendermi tutta perché tutti possano vivere con serenità e fraternamente. Ringrazio Lei, don Armando, e il buon Dio perché mi fa sentire ancora viva”.

Al “don Vecchi” si paga poco, l’ambiente è signorile e ricco di cose belle, ma l’aspetto descritto da questa residente è forse una delle componenti più preziose ed esclusive di questa struttura pilota per anziani in difficoltà. Di ciò, confesso, provo orgoglio.

Vecchi contestatori con le unghie spuntate

Qualche tempo fa un residente al “don Vecchi” di Campalto mi ha informato che un gruppetto di anziane signore aveva deciso di bloccare il traffico della strada statale via Orlanda con un sit-in, per chiedere al Comune e all’Anas il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso del Centro che attualmente risulta estremamente pericoloso.

Una notizia del genere mi ha evidentemente sorpreso, sapendo che l’età media dei residenti al Centro si aggira sugli ottant’anni. A me, che ho una fantasia quanto mai vivace, l’immagine di un gruppetto di signore col cappellino in testa sedute sull’asfalto, imperturbabili nonostante il suonare dei clacson delle migliaia di auto e furgoni che transitano velocissimi per via Orlanda, faceva immaginare la sequenza di un film alla Mary Poppins. Sapendo però che vivono al Centro almeno tre, quattro sessantenni, quanto mai esperte in queste cose, ero propenso a pensare che la cosa era più vicina alla realtà che alla favola.

All’annuncio dell’informatore seguì la telefonata di una delle protagoniste – una vecchia conoscenza dei tempi di San Lorenzo che aveva militato lungamente in “lotta continua” – che chiedeva il mio parere. Il mio parere non poteva che essere positivo, “a mali estremi estremi rimedi” pensai. Da un anno non abbiamo fatto che produrre carte su carte presso il Comune e presso l’Anas, senza riuscire a cavarci “un ragno dal buco”. Che cosa avrei potuto ancora fare perché gli ottanta anziani potessero uscire ed entrare senza arrischiare la vita ogniqualvolta hanno bisogno di comperarsi il pane o badare ai nipotini perché i figli lavorano?

La cosa si risolse per fortuna in maniera più prosaica. Un certo perbenismo borghese da un lato sconsigliò un’ azione così eclatante che poteva essere paragonata agli interventi dei Black Bloc e dall’altra l’Anas, dopo un anno e un mese ha dato il sospirato OK, a patto che siamo noi “ricchi” ad assumerci tutte le spese spettanti ai “poveri” Anas e Comune.

Ora ho capito fino in fondo che cosa significhi “Vittoria di Pirro”.

Le soluzioni ci sono ma…

Qualche giorno fa, di primo mattino, mentre riassettavo le ceriere ed i lumini della chiesa della mia “diocesi” popolata da non moltissimi vivi, mi ha raggiunto una inaspettata telefonata dall’Agordino. Un signore mi chiedeva di potermi incontrare per avere più precisi ragguagli sulla nostra meravigliosa realizzazione nei riguardi degli anziani.

Per caso aveva scoperto in internet il “don Vecchi” come una delle “nove meraviglie del mondo”. Spinto dalla curiosità, il mio interlocutore telefonico mi confessò pure che un giorno, in incognito, era venuto a “spiare” il nostro Centro ed aveva visto la hall animata da tanti anziani che gli sono parsi tanto vivi e contenti. Da questa “scoperta” gli era nata l’idea di poter trasformare un suo condominio ad Alleghe, di cui era comproprietario con altri soci, in un Centro per anziani simile al nostro.

A me è venuto il sospetto che la sua sia stata un’operazione commerciale che non ha avuto buon esito, soprattutto a causa della crisi che ha falcidiato le richieste di affitto, durante la stagione estiva ed invernale, di questi costosissimi appartamentini di montagna. Comunque rimango convinto che sia sempre opportuna ogni operazione che sia posta in atto a favore dei nostri vecchi.

Gli risposi che sarei stato ben felice di incontrarlo per mostrargli più direttamente la nostra struttura, ma soprattutto la dottrina che la supporta, cioè offrire un alloggio protetto agli anziani meno abbienti, tanto che anche chi ha una pensione sociale possa abitarvi e vivere, o almeno a sopravvivere, dignitosamente.

Purtroppo ho già incontrato un numero consistente di imprenditori che pensavano di fare un business con questo tipo di alloggi, poi però, quando ho parlato loro di quanto pagavano gli utenti, “è cascato l’asino” perché la nostra è un’operazione sociale con motivazioni ideali e quindi non è realizzabile per chi non accetta la logica della solidarietà.

Ora non mi resta che sperare che il Signore di Alleghe e i suoi amici, magari con qualche aiuto del loro Comune, vogliano entrare in questa logica squisitamente cristiana di concepire il nostro vivere su questa nostra terra.

Cronaca di un pomeriggio diverso

Le uscite degli anziani del “don Vecchi” le abbiamo denominate “minipellegrinaggi” perché sono il compendio di due componenti che si completano a vicenda.

La prima componente, della quale mi occupo personalmente, è di carattere religioso. La seconda è un ibrido tra una lunga chiacchierata pomeridiane ed una merenda a base di salame, formaggio, mortadella e bevande varie. Il tutto sotto la copertura formale di un interesse culturale in uno dei tanti borghi, quanto mai interessanti, della nostra regione.

L’ultima uscita ha avuto come meta l’antico porto fluviale di Bussolé, il borgo e il relativo porticciolo ora interrato per l’avvenuta deviazione del Sile, ove un tempo le “peate” della Serenissima portavano, via fiume, il sale che poi veniva distribuito con barche più piccole e carri, in tutto il Triveneto.

Questa uscite sono sempre appetibili perché poco faticose e soprattutto alla portata di tutti: con dieci euro infatti ogni anziano riceve generosamente i conforti religiosi e quelli gastronomici.

Partenza ore 14 con due pullman e 112 “pellegrini”, santa messa con presentazione, preghiere dei fedeli e canti. Meditazione sul tema: le “ricchezze” che anche i vecchi posseggono ancora. Penso di essere stato così appassionato e convincente che, uscendo di chiesa, tutti devono essersi sentiti nel fiore degli anni.

Il giovane parroco che esercita il suo ministero nel comune più piccolo del Veneto – 500 anime -, docente di patristica all’Università di Padova, è stato di un’ospitalità sovrana, mettendoci a disposizione la bella sala parrocchiale. Subito è cominciata la festa: tre panini a testa, bevande a volontà. Penso che i miei vecchi non sarebbero più andati via dal piccolo borgo di case del 1300-1400!

Quando sentii intonare l’inno di san Marco “Viva Venezia, viva la gloria del nostro leon” ho compreso che si era giunti all’apice della festa. Purtroppo, con quel vinello galeotto, i monumenti, il ponte, la torre e il deposito del sale divennero ben poco interessanti!

Il colpo finale è stato un baracchino che una giovane bengalese aveva piazzato proprio vicino al parcheggio del pullman, dove vendeva caldarroste, noci, patate americane.

Il nostro pellegrinaggio è stato anche la sua fortuna perché in pochi minuti avrebbe venduto anche la bilancia e l’arnese per la cottura delle castagne.

Ancora una volta ho capito che la “felicità” è a portata di mano.

Il fine del Centro don Vecchi

Ci sono detti popolari che probabilmente hanno fatto fortuna per l’assonanza o la rima, o perché legati a tradizioni di un mondo rurale dalla cultura povera che poggia su certa esperienza e soprattutto perché quel mondo non possedeva conoscenze scientifiche aggiornate. Però ci sono dei detti un po’ sornioni che evidenziano limiti e debolezze umane. Ricordo ancora una vecchia sentenza in cui si affermava che la moglie che le pigliava ogni giorno dal marito, se un giorno lui non l’avesse bastonata sarebbe stata felice e riconoscente, concludendo che quell’uomo era fondamentalmente buono, mentre quella che non le prendeva mai, se una sola volta lui avesse alzato la mano, l’avrebbe giudicato come un marito cattivo e crudele.

Sono ritornato a questo vecchio discorso qualche giorno fa in merito ad una questione del “don Vecchi”. Abbiamo scelto vent’anni fa di aprire l’esperienza innovativa di una residenza per anziani poveri, ma autosufficienti: un’alternativa alle case di riposo. Per garantirci questa scelta nel contratto di accettazione l’anziano aspirante ospite e il garante hanno sottoscritto una clausola che sempre viene evidenziata: qualora l’ospite perda l’autosufficienza i suoi parenti provvederanno a toglierlo dal “don Vecchi” per inserirlo in una struttura idonea che preveda l’assistenza che da noi non c’è.

Ora pian piano al “don Vecchi” c’è un po’ di tutto perché, col passare degli anni, anche le tempre più forti sono erose. Ci troviamo dunque nella necessità di invitare i figli o i parenti a provvedere per il loro anziano che non deambula, ragiona poco o niente, ha bisogno di assistenza continua. Apriti cielo! Pare che la nostra sia insensibilità o, peggio ancora, crudeltà mentale.

Dopo qualche incontro in cui ho tentato di ricordare l’impegno, mi sono sentito apostrofare quasi fossi un carnefice. Il “don Vecchi” è bello e inoltre si paga poco, però è inconcepibile che qualcuno pretenda che il centro possa offrire le stesse prestazioni delle case di riposo, che pur essendo meno signorili, nonostante ciò chiedono rette quattro volte maggiori di ciò che si chiede dal nostro Centro.

Comunque il Centro don Vecchi è stato pensato per anziani autosufficienti e tale vogliamo che sia.

Dopo aver sofferto, lottato ed essere riuscito ad offrire a mezzo migliaio di anziani cinque, dieci anni di vita serena in un ambiente signorile, mi si accusa di insensibilità. Mentre decine e decine di colleghi, che han pensato ai fatti loro non curandosi dei poveri, diventano dei santi preti, comprensivi e umani. Vallo a capire questo mondo!

I segni del tempo

Io cominciai il mio ministero sacerdotale presso la parrocchia veneziana di Santa Maria del Rosario, che tutti chiamano “Gesuati”. Infatti la chiesa è stata costruita dall’ordine religioso dei Gesuati, ordine che la Serenissima ottenne dal Vaticano di sopprimere per incamerare i suoi beni in cambio della fornitura di galee per la battaglia navale di Lepanto.

Ricordo di quelle mie prime esperienze pastorali un episodio che a quel tempo giudicai più banale di quanto oggi lo ritenga. Una signora, penso cinquantenne, mi confidò che quando si guardava allo specchio e scopriva le rughe incipienti, si lasciava andare ad un pianto accorato.

Allora una simile reazione mi sembrava futile ed espressione di quella innata e persistente mania tipicamente femminile di essere belle comunque e di continuare ad esserlo nonostante il passare del tempo.

Oggi sono molto più comprensivo, perché talvolta mi capita di provare sentimenti analoghi, che di certo non mi portano alle lacrime, ma non nascondo che mi provocano una certa nostalgia e una certa inconfessata amarezza per i segni che il tempo ha lasciato in tutti gli aspetti della mia umanità.

Ogni anno mi capita di incollare sulla tessera di pubblicista il bollino annuale, tessera che mantiene la mia foto di trent’anni fa: figura asciutta, capelli castani, volto giovanile.

Istintivamente li confronto con la mia attuale zazzera bianca, la pancia abbondante e il volto carico di rughe. Il confronto, confesso, è amaro e deludente.

Qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare qualche omelia che ai tempi di “Radiocarpini”, trent’anni fa, venivano registrate: una voce limpida, un parlare fluido, delle argomentazioni lucide. Tutt’altra cosa oggi! Dire “tutto passa!” è una cosa, constatare i segni del passaggio è tutt’altra cosa, non solo per la mia vecchia parrocchiana, ma anche per il nuovo vecchio parroco in pensione!

Le badanti

Quando io ero bambino, nel mio paese di campagna c’erano ancora famiglie di contadini composte da trenta, quaranta persone. I vecchi morivano in casa, serviti e riveriti da figli, nipoti e nuore, Non vivevano in Paradiso neppure i vecchi di sessanta, settanta anni fa, perché la povertà rendeva difficile la vita, ma non si sentivano certamente soli e abbandonati.

Ora ai vecchi sono riservate due soluzioni: la casa di riposo, oppure la badante. Questa è la sorte di quasi tutti, al di fuori dei pochi privilegiati dei Centri don Vecchi.

Le case di riposo sono assai costose e perciò guardate con estrema preoccupazione, ma anche quando qualcuno riesce ad entrarci, la vita è anonima e in mano a mercenari. La badante è, tutto sommato, una soluzione migliore, quando l’anziano è fortunato e gli capita una donna di cuore.

Talvolta, facendo il funerale di questi derelitti, vedo che la badante è la più addolorata, o perché si era affezionata al vecchio vivendo assieme da mattina a sera, o perché, purtroppo, perde il lavoro.

Di frequente i nostri vecchi non sono troppo buoni con queste creature che tentano di sfuggire alla miseria dei loro Paesi; le ritengono a torto la causa dell’allontanamento dei figli. Ultimamente però mi sono imbattuto in alcuni casi nei quali l’anziana assistita ha fatto testamento a favore della badante. Questa soluzione, se annunciata per tempo, potrebbe rendere meno amara la condizione dei nostri vecchi.

Quattrocento milioni

Un signore che alla domenica viene a cercare pace, conforto e coraggio nell’Eucaristia che celebriamo con tanto fervore nella mia “cattedrale tra i cipressi”, dopo la messa mi ha chiesto di parlarmi, dicendomi che una cliente del suo studio di commercialista aveva deciso di donarmi una somma per il “don Vecchi 5”, avendo ricevuto un’eredità.

Due giorni dopo, dopo un rapido scambio di telefonate, suonai al campanello di un appartamento in una zona centrale di Mestre adibito a studio, ove incontrai la mia benefattrice accompagnata, credo, da un direttore di banca.

Tentai di illustrare le finalità del “don Vecchi” e del nuovo progetto, ma capii subito che lei sapeva già tutto. “L’incontro” penso che raggiunga 15-20mila concittadini e li informi su questa nostra splendida avventura a favore degli anziani di Mestre.

Seduta stante il direttore di banca telefonò in sede e l’indomani arrivò il bonifico di duecentomila euro. Traduco la somma in lire perché ho la sensazione che dica meglio la dimensione dell’offerta: quattrocento milioni!.

Il “don Vecchi 5” costerà otto miliardi, ma avendo alle mie spalle una città con questo cuore, son certo che non è un azzardo cominciare.

P.S. Qualche settimana dopo questa signora ha fatto il bis donando altri 200.000 euro.

La moltiplicazione dei pani

Domenica 29 luglio in tutte le chiese del mondo s’è letto il Vangelo della moltiplicazione dei pani.

Dopo aver letto il testo il primo pensiero che mi frullò nella testa è stato: “Lo mando a Mario Monti. Sono certo che se lo applicherà all’economia italiana, di certo risolverà la crisi economica”.

Il pensiero successivo è stato il seguente: “Se volete vedere la replica, venite al “don Vecchi” e avrete modo di constatare personalmente il rinnovarsi di questo miracolo”.

Tento di riproporre in maniera telegrafica i vari passaggi perché possa rinnovarsi il “portento”.

  1. Prendere l’iniziativa. Non aspettarsi che i guai si risolvano da soli. Bisogna “prendere il diavolo per le corna”.
  2. Adoperare la logica di Gesù, non quella di Filippo che normalmente si adopera; ossia Gesù parte dal bisogno della gente, mentre Filippo parte dalla disponibilità dei soldi in cassa. Con questa logica non si arriva a nulla.
  3. Coinvolgere tutti. Ogni uomo può e deve dare il suo contributo, seppur piccolo (vedi la merenda del ragazzino).
  4. Rivolgersi a Dio. Se uno guarda alle sue forze o al motivo per il quale la gente è nel bisogno, non avrà mai la forza e il coraggio di far nulla.
  5. Eliminare assolutamente lo spreco (raccogliere gli avanzi).

Applicando i criteri di Gesù al “don Vecchi” abbiamo ora strutture del valore di miliardi, ospitiamo 500 anziani, offriamo 375 alloggi, l’ipermercato degli indumenti che ha 30.000 visitatori all’anno, il Banco alimentare aiuta 2.500 persone alla settimana, ecc.

Nella storia della Chiesa chi si fida di Gesù fa miracoli!

Il salvagente

In bicicletta non posso più andare, a piedi mi stanco troppo ed impiego troppo tempo, così “vado al lavoro” con la Punto che un quasi centenario coinquilino mi ha donato un paio di anni fa. I miei spostamenti non sono né lunghi né frequenti però, per andare dal “don Vecchi” al cimitero sono due chilometri ed esattamente altri due per ritornare. Una volta di certo, ma spesso due volte, faccio questo percorso. Ora con la mia Punto bianca, mi sento un re, talvolta sono quasi imbarazzato ad usare alla mia età un’auto così bella e tanto confortevole da offrirmi pure la radio per informarmi sulla vita nel mondo durante il tragitto.
La mia Punto è dotata di aria condizionata, altro che san Francesco!

Nonostante l’età, però, mi vien da pensare al domani. La mia patente scade a gennaio e molta gente mi ha detto che ora lo Stato pretende una salute perfetta anche dai vecchi come me.,

Mi sono lasciato andare a manifestare queste preoccupazioni e subito un coetaneo di Tessera mi ha regalato un’auto cilindrata 49 rossa che sembra una Ferrari cavallino rampante. Questa auto la tengo di riserva per i tempi tristi. L’ho provata, però non mi alletta proprio: va a nafta, perdipiù il figlio del vecchio proprietario, preoccupato della vita di suo padre, l’ha bloccata, tanto che non supera i 30 chilometri all’ora.

Ho fatto un giretto, m’è sembrato che le mancasse solo il cannoncino per sembrare un carro armato, ma per il rumore credo che lo superi. Ho ancora sei mesi di Paradiso, poi vedrò.

C’è stato qualcuno che ha dato ali alla mia speranza dicendomi che Monti, almeno per le patenti dei vecchi, ha portato tutto come prima. Intanto un collega e coetaneo del “don Vecchi”, a cui scade la patente prima della mia, ha messo avanti le mani e m’ha chiesto la Ferrari (la quale fa bella figura, ma lui non l’ha ancora sentita correre).

Tra i tanti problemi dei vecchi c’è anche quello della patente.