Il Patriarca al “don Vecchi 5”

A tre mesi dall’inaugurazione ufficiale il Patriarca ha fatto una breve visita al “don Vecchi 5”. In verità la presentazione della nuova struttura alla città era avvenuta a maggio in maniera frettolosa perché l’assessore alla Regione, dottor Sernagiotto, che aveva puntato a “coprire” quella zona grigia compresa tra l’auto e la non-autosufficienza, “correva” per essere eletto al Parlamento europeo.

Forse questo amministratore della Regione voleva presentare all’opinione pubblica quella sua intuizione che avrebbe permesso agli anziani di allungare la loro autonomia e, nello stesso tempo, avrebbe risparmiato all’ente pubblico l’onere pressoché impossibile delle rette per non autosufficienti.

Sernagiotto penso che abbia considerato il “don Vecchi 5” come il fiore all’occhiello del suo servizio in Regione. Con la scelta di creare questa struttura intermedia volle dimostrare che è possibile raggiungere i due obiettivi suddetti.

La Fondazione dei Centri don Vecchi, senza volerlo, aveva già fatto questa esperienza nelle sue strutture esistenti perché esse, partite per ospitare persone autosufficienti, in vent’anni avevano mantenuto la domiciliarità anche per gli anziani che avevano perso molto della loro autonomia. Il “don Vecchi 5” è diventato così non solamente un’esperienza pilota che vuole aprire una soluzione innovativa per i problemi della terza e quarta età, ma pure una sfida sulla possibilità di garantire agli anziani altro tempo di vita da uomini e donne pressoché normali.

L’uscita di scena dell’assessore alla sicurezza sociale, dottor Sernagiotto, ha almeno per ora, congelato il secondo aspetto dell’operazione, aspetto che prevedeva un contributo, pur minimo, per garantire un maggior supporto all’anziano residente. A livello personale sono stato quasi contento dell’inghippo perché, senza contributo, il “progetto sfida” diventa più radicale “costringendo” le famiglie ad essere più vicine al loro famigliare, fornendogli quell’aiuto che è postulato dalla stessa natura.

Comunque l’esperienza è partita. Infatti tutti i 65 alloggi, sono già occupati e forse per l’autunno del 2015 potremo tirare le somme e farne un bilancio.

Tornando al Patriarca, egli ha parlato agli anziani, dimostrando di essere sufficientemente informato sulla “dottrina del don Vecchi”. Ha scoperto la dedica ai benefattori insigni e visitato molto rapidamente la struttura, perché impegnato in altri servizi. Don Gianni, il parroco di Carpenedo, che è pure presidente della Fondazione, ha presentato in maniera brillante l’opera destinata agli anziani in disagiate condizioni economiche. Io, sollecitato dal Patriarca a prendere la parola, ho precisato che ero il “passato prossimo” dell’opera, ma che mi avviavo rapidamente ad essere il “passato remoto”; comunque desideravo affermare con decisione che i Centri don Vecchi vogliono essere un segno visibile, comprensibile e concreto dell’attenzione della Chiesa di Venezia nei riguardi dei fratelli in difficoltà, anche se a molti pare che la Fondazione viva ai margini della vita ecclesiale.

Nevegal

Qualche settimana fa abbiamo chiuso la “stagione autunnale” delle uscite organizzate per animare la vita piuttosto abitudinaria dei residenti presso i Centri don Vecchi.

Fin dall’inizio di questa iniziativa l’abbiamo denominata “mini pellegrinaggio” o, meglio ancora, “gite pellegrinaggio” perché uniscono il “sacro” con il “profano”. Ai residenti ben presto si sono uniti gli anziani del “Ritrovo” della parrocchia di Carpenedo ed anche un certo numero di anziani provenienti dall’intera città.

L’iniziativa è quanto mai attesa e gradita, infatti anche in questa occasione, i due pullman, capaci di 112 persone, si sono riempiti in un battibaleno.

L’organizzazione è ormai molto vicina alla perfezione. Presiedono al “minipellegrinaggio” i coniugi Ida e Fernando Ferrari, i quali prendono contatto con il santuario prescelto e fissano i tempi di partenza. Accanto a loro lavora uno staff quanto mai affiatato ed efficiente: il signor Sergio, olimpico per la serenità e le battute sornione, che riceve le prenotazioni, i coniugi Anna e Gianni Bettiol, Graziella e Paolo Silvestro e Luciana e Massimo Di Tonno, che preparano la merenda, aiutano i più fragili o quelli in carrozzella a prender posto sui pullman e a riordinare le sale dopo la merenda che segue alla messa. Una signora del Centro don Vecchi di Campalto intona con voce sicura e guida il canto. A me è riservato il compito di preparare la presentazione degli obiettivi che ci prefiggiamo con l’uscita, le numerose preghiere dei fedeli per coinvolgere e precisare il tema specifico per ogni pellegrinaggio, la celebrazione dell’Eucaristia e, in particolare, l’offerta del messaggio specifico mediante la predica.

Dunque questa uscita ci ha portato al Nevegal. In un’ora e mezza di percorso abbiamo raggiunto la meta. Il nuovo santuario dedicato alla Madonna di Lourdes è collocato in un anfiteatro, una radura verde in mezzo ad un bosco del monte Nevegal a mille metri sul livello del mare. La grotta è in stile moderno e la chiesa, per fattezze e colore, sembra una grandissima baita di montagna. L’ambiente è davvero suggestivo anche se la sua costruzione data solamente da vent’anni.

M’ero fissato, per l’occasione, il discorso che non servono miracoli particolari per rendere sacro e benedetto un luogo particolare, perché tutto quello che ci circonda è già miracolo e quando una qualsiasi comunità di discepoli di Gesù prega animata dalla fede, può incontrare il Signore. La preghiera ci rende coscienti di tutto quello che abbiamo ricevuto e ci aiuta a godere di più del dono di Dio.

L’incontro all’altare è stato di intensa spiritualità e più che mai graditi sono stati la merenda e il lungo tempo per le chiacchiere.

I nostri pellegrinaggi, fra i tanti pregi, hanno pure quello di rendere lieta la preghiera, la meditazione e lo stare assieme.

“Felicissima”

Già ho scritto che quando mi libererò da certi impegni – e a questo proposito mi sono già fatto un cronoprogramma presiso – ho in animo di dedicare mezza giornata alla mia chiesa del cimitero, rimanendovi dal primo mattino fino a mezzogiorno: pregando, studiando, ricevendo chi volesse incontrarmi e svolgendo quelle mansioni religiose proprie di questo luogo particolare.

Mentre il pomeriggio voglio dedicarlo interamente ai quasi cinquecento residenti presso i cinque Centri don Vecchi, cosa che in quest’ultimo tempo non ho fatto perché troppo impegnato in altre faccende.

In queste ultime settimane però mi sono recato almeno due o tre volte la settimana al Centro degli Arzeroni. Dare l’avvio ad una comunità di una settantina di residenti al limite, o appena oltrepassato il limite dell’autosufficienza, credetemi, non è proprio la cosa più facile di questo mondo.

L’intesa tra chi ha progettato la struttura e chi ha un suo progetto molto preciso e sofferto che abbia a funzionare offrendo agli anziani un ambiente caldo ed efficiente, spesso lascia a desiderare alquanto perché in genere per l’architetto l’obiettivo più importante e pressoché assoluto è l’estetica, mentre per chi deve organizzare la vita, specie di persone anziane, che sono poco duttili per le loro condizioni fisiche e mentali, gli obiettivi sono ben altri: la funzionalità, la rispondenza alle abitudini e agli stili di vita degli anziani e, non ultimo, l’economicità, perché i soggetti che abbiamo scelto di accogliere sono i più poveri della nostra città. Una volta che questi due progetti si mettono a confronto e si devono assolutamente coniugare, spesso nascono notevoli difficoltà. Al don Vecchi degli Arzeroni le cose non sono andate molto diversamente. A questa difficoltà s’aggiunge il fatto che la Fondazione non può permettersi se non il personale strettamente essenziale e complica ulteriormente la cosa che la catena di comando sia composta esclusivamente da volontari – perciò ognuno vi porta le sue idee che non può imporre ed uno si deve coordinare con quelle degli altri. Confesso che spesso i miei sonni sono stati turbati da incubi notturni suscitati da queste problematiche.

Questo pomeriggio, dopo aver chiuso la mia “cattedrale”, ho fatto una capatina all’ultima struttura per gratificare i volontari, per oleare i rapporti e portare avanti la soluzione che io credo ottimale. Temevo, perché c’era la prima prova del nove per l’efficienza del pranzo. Devo felicemente confessare che ho trovato l’ambiente migliore di quanto sperassi: volontari motivati e disponibili e soprattutto i primi ospiti felici.

Temevo che avvenisse al “don Vecchi” quello che mi capitava di vedere ogni anno al “Germoglio”, la scuola materna della parrocchia nella quale per le prime due o tre settimane mi pareva di trovarmi in una “valle di lacrime”, motivo per cui l’inserimento dei bambini doveva essere graduale e progressivo.

La prima anziana che ho incontrato mi ha subito detto, forse per farmi contento: «Sono felicissima, mi trovo tanto bene!». Un’altra poi mi ha portato a vedere la sua suite che s’apre sul giardino di villa Angeloni: un appartamentino arredato con estremo buon gusto, ordinato e pulito. I responsabili poi mi han detto che in tre settimane sono stati ormai assegnati ben 50 dei 65 alloggi disponibili.

Se “il buon tempo si vede dal mattino”, ho di che consolarmi.

Una creatura ormai matura

La vita è un’esperienza sempre nuova, anche quando si vivono gli ultimi albori della propria esistenza. Mentre per la giovinezza c’è una folla di educatori che tentano di aiutare il ragazzo e poi il giovane, a crescere, ho invece la sensazione che ci siano pochi o nessun educatore che aiuti il vecchio a vivere in maniera lucida e serena il tempo del suo vespero e del suo tramonto.

Ripeto ancora una volta che la mia cultura in ogni campo, compreso quello dell’età senile, è molto limitata. Onestamente ho letto delle bellissime preghiere, messe in bocca a preti anziani, per chiedere a Dio saggezza, serenità, coraggio, equilibrio e comprensione, alcune delle quali ho pubblicato nel mensile “Sole sul nuovo giorno” e me le rileggo con gaudio interiore e profitto. Ho pure letto qualche articolo, però ben poca cosa in rapporto alle problematiche che interessano la terza e la quarta età.

La tecnica ha inventato protesi di ogni genere per le carenze fisiche: occhiali per la vista, protesi per i denti, auricolari per l’udito, deambulatori per le gambe, pace makers per il cuore, stimolanti per altri organi, ma per quello che riguarda le patologie psicofisiche, o meglio esistenziali degli anziani, mi pare che la cultura… sia piuttosto carente e quanto mai indietro.

Io mi sto muovendo a tentoni, talvolta goffo e talvolta maldestro, in queste sabbie mobili degli ultimi tempi, delle quali non ho conoscenza. Penso sia opportuno offrire la mia testimonianza sperando di essere utile, o perlomeno donare qualche elemento di confronto per la gente della mia età, ma di certo non mi avventuro neppure di un millimetro nel campo della tecnica. Sono assolutamente rassegnato, ho abbandonato le mie armi di fronte al computer e a tutte le diavolerie connesse ad Internet. La conquista più avanzata è stata quella del telefonino, però l’unica operazione che conosco è quella di telefonare, meno però quella di ricevere tutte le telefonate.

Vorrei invece fare qualche confidenza ai miei coetanei per quanto riguarda l’impresa dei Centri don Vecchi. So bene che sono l’unico a Mestre ad averla fatta, ma sono certo che pure altre persone di altre città ne hanno fatto di simili. Ho avuto un’intuizione circa la domiciliarietà dell’anziano, ho sviluppato l’idea con l’aiuto di tanti altri concittadini e ne è venuta fuori una bella cosa (almeno io ne sono convinto, ma ne ho avuto il conforto di molti altri).

I primi quattro Centri sono nati “a mia immagine e somiglianza”; mi sono arrabattato, ho spinto, sono sceso a qualche compromesso, però sono quelli che ho sognato. Per quanto riguarda il quinto, quello degli Arzeroni, le cose sono andate un po’ diversamente; ho di certo tentato di dare il mio contributo, ma la forma non è la mia, ma di altri.

Sto avvertendo quanto mi costa voler collaborare, pur cosciente di essere superato, di non dover premere più di tanto, di dovermi fidare dell’intelligenza e delle scelte altrui.

Passare da protagonisti a osservatori benevoli e positivi, m’è costata la fatica di Sisifo.

Città amica

Ho imparato dal patriarca Roncalli che quando si ha a cuore un problema bisogna parlarne un po’ con tuti, perché da qualche parte c’è di certo qualcuno che è disposto a darti una mano; l’importante è incontrare questo qualcuno. Monsignor Vecchi mi ha poi ripetuto mille volte che i soldi meglio spesi per un prete sono quelli che lui investe nei mass media per passare il suo messaggio.

Penso di aver fatto tesoro di questi insegnamenti. Ho speso una barca di soldi per comunicare ai concittadini i miei sogni e i miei progetti. Ho speso un patrimonio per Radio Carpini, le riviste parrocchiali, il mensile “Carpinetum” e “L’Anziano”, il settimanale “Lettera aperta” ed ora “L’Incontro”. Dire che stampiamo e distribuiamo ogni settimana cinquemila copie del periodico può sembrare quasi una notizia banale; vedere però una pila alta un metro e mezzo di fogli A3 è tutt’altra cosa! Eppure ogni settimana si ripete anche questo “miracolo”.

Le spese sono davvero notevoli, ma il “ritorno” è di gran lunga superiore; se non fosse altro la ventina di miliardi spesi per i cinque Centri don Vecchi ne sono la riprova. Non passa giorno che qualcuno si offra di collaborare, che i funzionari delle varie società non agevolino le pratiche, che qualche altro non offra denaro, piante, mobili, tappeti. La superficie dell’ultima struttura è immensa, perfino troppo grande, però non c’è angolo che non offra qualcosa di bello.

Questo riscontro poi, a livello materiale è solo un aspetto, quello però a livello umano e sociale è di certo di gran lunga superiore. Non c’è luogo dove non incontri gente che mi saluta con affetto e deferenza, forse illudendosi che io sia un personaggio che in realtà non sono. Credo di riconoscermi solamente una certa coerenza, un impegno serio e costante al lavoro ed una disponibilità assoluta alle richieste del prossimo. Ho sempre preso sul serio la parabola della pecorella smarrita perché ho scelto che la sorte di nessuno mi sia indifferente. Sono pure convinto che da ognuno abbia qualcosa da ricevere e a cui donare.

Però, per fare tutto questo, bisogna abbassare il ponte levatoio, abbattere lo steccato attorno alle parrocchie, esser coscienti di avere il messaggio più valido e soprattutto aprire un dialogo con tutti. Io non mi sono mai arreso a pensare che la parrocchia sia costituita da quel 10, 15…… per cento che viene a messa alla domenica, perché tutti gli uomini indistintamente sono figli di Dio e fratelli nostri. Sono immensamente grato ai miei “maestri” e mi piacerebbe tanto poter passare anche ai colleghi vecchi e giovani, queste convinzioni che danno respiro alla vita.

06.07.2014

Paradiso

Qualche giorno fa Rolando Candiani, il ragazzino che quasi sessant’anni fa ho incontrato a San Lorenzo e che da vent’anni controlla i conti e la vita dei Centri don Vecchi, avendolo incontrato nel “corso” principale del “don Vecchi” di Carpenedo, si lasciò andare ad una espressione da innamorato: “Questo è un vero Paradiso!”.

Dalle ampie vetrate si intravedeva il parco con il lungo filare di oleandri tutti in fiore, si avvertiva un’atmosfera veramente serena. Non solo condivisi la sua espressione, perché anch’io da quasi dieci anni risiedo in questo piccolo borgo ai margini della città e godo di questa dolce e cara atmosfera, ma ni ha fatto felice l’espressione del mio “ragazzo” perché mi rassicura che il progetto nato da un sogno è veramente riuscito.

Più di una volta mi sono lagnato perché non riscontro una collaborazione attiva da parte di tutti, ma poi penso che io sono uno stacanovista che pretende troppo da sé e pure dagli altri. Del progetto iniziale è forse saltato un pezzo che, per troppa ingenuità, avevo ritenuto un componente essenziale, ossia che al “don Vecchi” risiedessero solamente autosufficienti; infatti nello statuto abbiamo fissato delle norme perentorie per chi perdesse il bene di essere autonomo.

Queste clausole prevedono ancora che qualora uno perdesse l’autonomia, i famigliari lo debbano trasferire in una struttura adeguata alle sue condizioni. Ciò però non è avvenuto, non solamente perché ci siamo accorti che nonostante si sia studiato un contratto con delle clausole legali ben decise, abbiamo in realtà constatato che se un residente si rifiuta di uscire, non è moralmente possibile “sfrattarlo” ricorrendo ai carabinieri.

A questo motivo se n’è aggiunto uno ancora più consistente. La dottoressa Francesca Corsi del Comune, donna intelligente e veramente attenta ai bisogni e ai diritti degli anziani, un giorno mi disse: «Questa è la loro casa e perciò, se lo desiderano, hanno diritto di morirvi dentro». Questa cara donna mi convinse; perciò al “don Vecchi” abbiamo ora un po’ di tutto e constato che la vita, come l’acqua, finisce per trovare il suo rivolo e perciò tutto è andato a sistemarsi, per cui l'”autosufficienza” si raggiunge sempre con l’aiuto di qualche supporto sempre più consistente che in ogni caso viene trovato.

Ritengo che al “don Vecchi cinque”, nonostante i problemi che la struttura sta creando a quelli che si aggiunge un’ulteriore difficoltà perché stiamo accogliendo anziani che sono in perdita di autonomia fin da subito, finiremo per sistemare le cose in maniera conveniente. Non pagando affitto, ma solo i costi condominiali e le utenze, ed avendo invece in cambio un alloggio più che confortevole, spazi per la socializzazione perfino esagerati ed un minimo di monitoraggio offerto dalla Fondazione, l’espediente dell'”assistente di condominio” – o meglio “di comunità” – finirà per rendere possibile la permanenza anche per i meno abbienti e meno autonomi.

Questa è almeno il mio obiettivo e la mia speranza, anche se si avesse tanto più in considerazione l’esperienza pregressa, si sarebbe agevolato il cammino di questa speranza.

02.07.2014

Non sempre “i poveri sono santi”

La mia campagna in favore degli anziani in difficoltà sta per finire a motivo dell’età incalzante. Consapevole di ciò, già un paio di anni fa ho chiesto e ottenuto dal Patriarca che affidasse ad un sacerdote più giovane la presidenza del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi. Ho pensato che questo fosse l’unico modo perché l’impegno della Chiesa veneziana nei riguardi di questo nuovo tipo di povertà – ossia l’estremo disagio degli anziani in difficoltà – potesse avere un seguito.

Attualmente il mio impegno è ormai marginale, però mi sta ancora a cuore perfezionare la “dottrina” che fa da supporto a questa esperienza pilota. Le problematiche aperte sono molte, ma man mano che affiorano, prima rifletto e poi suggerisco, a chi sta mettendo a punto questa dottrina, le soluzioni che ritengo più opportune, in modo che chi vuole approfittare della nostra esperienza possa avere un modello quanto mai valido.

Ma fra i tanti problemi affiorati in questi vent’anni di sperimentazione c’è anche questo: coinvolgere attivamente gli anziani che hanno ottenuto un alloggio al “don Vecchi” nella gestione del Centro, non solamente per tener bassi i costi di gestione, ma anche per costruire una comunità solidale di mutuo aiuto. La proposta viene fatta in maniera quanto mai esplicita al momento dell’accettazione della domanda e purtroppo non viene mai evasa se non da un gruppetto sparuto di beneficiari. Una volta ancora rimane vera la battutaccia meridionale “grazia ottenuta, gabbato lo santo!”.

Tanti residenti si impegnano per figli e nipoti, che praticamente li hanno cacciati di casa, altri si danno alla bella vita oziando e pensando ai fatti loro. Si, ci sono “i soliti”, ma sono pochi e, poverini, sono sempre quelli!

Mio padre, di fronte a questa constatazione che sono stato costretto a fare già da parroco in altri tempi, mi disse: «Armando, non preoccuparti, su un centinaio di persone ce ne saranno tre o quattro che hanno la “mania” di lavorare, punta su quelle».

Mi ero illuso che il “don Vecchi”, a livello religioso, fosse una specie di convento, ma presto è scoppiata questa bella bolla di sapone. M’ero pure illuso che i Centri diventassero delle grandi famiglie in cui ognuno collaborasse per il bene comune: “Illusione, dolce chimera sei tu!”. I miei maestri però, don Mazzolari e Madre Teresa di Calcutta, mi insegnano che devo impegnarmi comunque, anche se gli altri non lo fanno, anche se chi ne beneficia ne approfitta in maniera potente.

07.06.2014

Aquileia

Ad Aquileia c’ero già stato almeno altre due volte, ma in tempi lontanissimi cosicché, quando il gruppo che al “don Vecchi” organizza la cultura, la ricreazione e il turismo mi ha informato che l’ultima gita-pellegrinaggio della stagione primaverile avrebbe avuto come meta Aquileia, ne fui particolarmente felice.

Il ricordo di quella antichissima basilica, dei resti del porto di quell’insediamento delle popolazioni venete, era abbastanza sfumato, anche se l’avevano un po’ ravvivato le immagini che la televisione ci ha offerto in occasione del grande sinodo per il ritorno alla freschezza ed autenticità della sorgente del cristianesimo dei veneti e per il rilancio di una nuova evangelizzazione della nostra gente.

Martedì 12 maggio partimmo con due autobus capaci di 110 posti gremiti fino all’ultimo seggiolino. Il viaggio, pur piuttosto lunghetto per le nostre uscite, non ci ha stancato più di tanto ed è trascorso velocemente in lieta conversazione. All’arrivo nel grande piazzale verde, ben curato, s’impose alla nostra attenzione la grande e maestosa basilica che ci apparve come qualcosa di sovrumana bellezza. Ebbi la stessa fortissima sensazione quando molti anni fa mi apparve, quasi improvvisamente, ergersi sul prato di un verde scuro la splendida basilica bianca e il battistero di Pisa.

Allora, di fronte alla sovrana armonia e bellezza di quel grande complesso architettonico, ebbi un’emozione che mi lasciò quasi senza respiro. Allora lo sentii come la preghiera profonda di un popolo ricco di fede. Ad Aquileia le pietre e le linee pacate ed armoniche del grande complesso sacro mi apparvero più calde, più in sintonia con i sentimenti pacati con cui le genti venete cantavano le lodi al nostro Dio. Il verde, pure ad Aquileia, forma una cornice quanto mai appropriata alla grande e maestosa basilica.

Una volta entrati in chiesa i nostri occhi furono pressoché incapaci di abbracciare tanta bellezza soave ed accogliente. Celebrai su un altare laterale e nell’omelia tentai con tutte le mie risorse di sottolineare l’importanza del credere, del comunicare con Dio, fonte di vita, di armonia e di amore. “Aquileia, dissi, rappresenta la sorgente ove esce pura e luminosa la fede dei Veneti” rifacendomi alla bella immagine di Silone che ha scritto che per scoprire, per cogliere l’importanza e il dono dell’acqua non si può aprire soltanto il rubinetto ma bisogna andare alla sorgente. Aquileia e la sua basilica rappresentano ancora una sorgente viva.

Però si smorzò un po’ il mio entusiasmo e la mia speranza venendo a sapere da una addetta al culto che il parroco di Aquileia cura quattro parrocchie e perdipiù insegna religione a scuola.

Poi il mio pensiero è andato all’ultimo grande sinodo di Aquileia, per riscoprire e rilanciare il messaggio cristiano.

Ho concluso che la Chiesa ha bisogno di qualcosa di più serio e sostanzioso dei “pannicelli caldi” del sinodo, quale una riforma radicale che apra il sacerdozio alle donne, agli uomini sposati e che coinvolga realmente tutti i fedeli.

Credo però che anche questo sia ancora poco.

26.05.2014

L’origine remota

Ho già raccontato che al liceo ebbi per un paio d’anni un insegnante di storia assai originale nel modo di ragionare, ma che comunque era un uomo assai saggio ed intelligente. Si trattava del professor Angelo Altan, personaggio di cui ho raccontato che comperava il Gazzettino, lo metteva nel suo scrittoio e lo leggeva dopo settimane dicendoci che così aveva modo di valutare l’intelligenza dei giornalisti e la consistenza dell’evento di cui scrivevano. Questo professore, quando faceva lezione su un particolare evento storico, cominciava sempre con l’inquadrarlo citando le ragioni remote e prossime che avevano prodotto quell’evento. Il suo discorso era di certo intelligente e colto, ma noi studenti talvolta, celiando, dicevamo che avrebbe sempre dovuto partire da Adamo ed Eva e dal relativo peccato originale, e lui, stando al gioco, affermava: Perché no! Ogni evento dipende sempre dall’origine da cui è sorto!Ÿ.

Mercoledì scorso, 14 maggio, durante l’inaugurazione del “don Vecchi 5” è intervenuto anche il consigliere regionale Gennaro Marotta, il quale si arrogò un certo merito nei riguardi della nuova struttura per anziani in perdita di autonomia. Ne raccontò la genesi che io avevo totalmente dimenticato.

Le cose andarono così: il dottor Bacialli, direttore dell’emittente “Rete Veneta”, mi invitò a partecipare ad un dibattito sulla residenzialità degli zingari, forse sapendo che io avevo affermato più volte che quella del sindaco Cacciari di costruire a Favaro le casette per gli zingari mettendoli tutti assieme era stata una grossa “castroneria”: ghettizzandoli era come favorire certe loro abitudini malsane.

Lo studio televisivo è alla periferia di Treviso. All’andata mi accompagnò Bacialli stesso e per il ritorno chiese al consigliere Marotta di portarmi a casa, perché da solo mi sarei di certo perso nel labirinto delle strade della Marca Trevigiana.

Nei tre quarti d’ora di strada fu giocoforza parlare e io gli parlai degli anziani, argomento che mi stava a cuore. Marotta mi promise di darmi una mano per come poteva. Infatti qualche settimana dopo accompagnò il dottor Remo Sernagiotto, assessore alle politiche sociali della Regione Veneto, al “don Vecchi”. L’assessore rimase “folgorato” dalla struttura, dalla dottrina da cui nasceva e dall’economicità della gestione. Sposò immediatamente il progetto di affrontare una esperienza pilota per risolvere il problema degli anziani che si trovano in quella zona grigia che sta fra l’autosufficienza e la non autosufficienza. Attualmente le strutture che provvedono alla non autosufficienza, sono strutture costosissime per la società e per di più di stampo, tutto sommato, ottocentesco, che privano il soggetto di ogni rimasuglio di autonomia.

Da quell’incontro nacque la sfida della Fondazione di sperimentare un progetto assolutamente innovativo che rispetti la persona e le permetta di rimanere tale anche nel disagio della vecchiaia. Da quell’incontro nacque la proposta del mutuo a tasso zero in 25 anni e l’offerta di una modestissima diaria per offrire un minimo di assistenza agli anziani che sarebbero stati accolti.

Il mio piccolo sacrificio di dedicare una serata a quel dibattito ha prodotto una struttura del costo di quattro milioni di euro che per almeno cent’anni metterà a disposizione degli anziani poveri di Mestre 65 alloggi. Ne è valsa la pena!

22.05.2014

Il discorso che vorrei fare

Mercoledì prossimo (il 14 maggio 2014, NdR) verrà inaugurato il “don Vecchi 5” in quel degli Arzeroni, alle spalle dell’Ospedale dell’Angelo.

La nuova struttura è un’opera veramente notevole: quattro milioni di euro, dieci mesi di lavoro pressante, 65 alloggi per anziani in perdita di autonomia. Un passo avanti in relazione agli altri Centri “don Vecchi” nei quali, almeno ufficialmente, vivono anziani autosufficienti, ma che in realtà terminano i loro giorni nell’alloggio dove han trascorso, a loro dire, i giorni più sereni della loro vita, in un ambiente signorile, con infinite agevolazioni a tutti i livelli e soprattutto non dovendo pesare, da un punto di vista economico, sui loro figli. E’ sempre stato un punto d’onore, prima della parrocchia e poi della Fondazione, che anche gli anziani con la pensione sociale potessero vivere con gli stessi confort dei colleghi con pensioni più consistenti.

Questa è la prima volta che non devo presentare alla città e ai suoi reggitori la nuova impresa di carattere solidale: sarà don Gianni, il mio giovane successore, che avrà questo compito che per me è sempre stato faticoso. Non so se mi chiederà di dire una parola, andrà bene in ogni caso, ma se mi fosse richiesta, direi queste cose al sindaco, alla Regione e ai concittadini.

  1. Quest’opera non è costata nulla alla società civile né alla Chiesa. La Regione ci ha anticipato duemilioniottocentomila euro, ma le saranno restituiti fino all’ultimo centesimo. Neppure alla diocesi è costato un solo centesimo perché il milione e duecentomila euro che mancano ai quattro milioni lo ha regalato la popolazione.
    L’opera è stata realizzata in dieci mesi mentre per la “rotonda” del nostro cimitero sono occorsi 14 anni!
    Il costo è stato di quattro milioni, mentre per l’ente pubblico sarebbe costato almeno sei. In conclusione l’ente pubblico dovrebbe sempre avvalersi del “privato sociale” perché più agile, più economo, più veloce.
    Durante questi mesi era una festa vedere trenta, quaranta operai lavorare sereni ed altrettanto le ditte che hanno appaltato il lavoro, perché i soldi sono arrivati sempre puntuali; neppure con un giorno di ritardo.
  2. Questa struttura appare già ora elegante e signorile, ma fra due tre mesi lo sarà molto e molto di più. Arrederemo con quadri, mobili di pregio, tappeti, piante; per i poveri la signorilità non è mai troppa.

Aggiungerei con infinita decisione: «Questo luogo è destinato ai poveri, se mi accorgessi che si deviasse da questo scopo, verrei anche dopo morto a “tirare i piedi” a chi facesse altrimenti. La Chiesa ha il dovere di impegnarsi sempre e comunque per i fratelli più poveri e più in disagio».

Infine aggiungerei ancora, con convinzione e con forza, che è tempo ed ora che l’ente pubblico snellisca la sua burocrazia; se il Comune ci mettesse al massimo un mese per rilasciare la concessione edilizia, fra un mese sarebbero nuovamente messe in moto le gru per costruire la “grande casa per i cittadini in disagio”.

Non so se mi sarà data l’opportunità di fare questo discorso, comunque lo porto nel cuore e farò di tutto perché pungoli l’ente pubblico ancora lento, farraginoso e spesso inconcludente.

08.05.2014

“Madonna dI rosa”

Questi giorni di primavera favoriscono alquanto una iniziativa che da anni una piccola ma generosa ed intelligente équipe di amici del Centro don Vecchi ha posto in atto e sta perfezionando nel tempo. La denominazione dell’iniziativa riassume assai bene le finalità che essa persegue: “minigite- pellegrinaggio”.

La proposta, concentrata in un tempo molto limitato, persegue almeno tre obiettivi diversi tra loro, ma che si coniugano assai bene per raggiungere una forma di umanesimo integrale, anche se a livelli abbastanza elementari.

Essa offre:

  1. un’occasione di aggregazione sociale e di fraterno rapporto;
  2. la possibilità di scoprire le realtà di ordine naturale, sociale ed artistico del nostro territorio;
  3. un approfondimento di carattere spirituale di un qualche aspetto specifico della nostra lettura cristiana della vita.

Questi obiettivi, che a livello teorico possono sembrare eccessivamente pretenziosi, abbiamo tentato di tradurli in un’esperienza esistenziale quanto mai semplice e gradevole. Cercato un borgo con una chiesa relativamente significativa e preso contatto con i relativi responsabili, si chiede loro la fruibilità della chiesa e di un salone attiguo. Si prosegue, per tempo, con un annuncio dell’uscita. Partenza in autobus nel primissimo pomeriggio, celebrazione liturgica particolarmente curata e tesa a mettere in luce una verità cristiana che illumini un aspetto reale della nostra vita, celebrazione con presentazione dell’argomento trattato, canti appropriati, quanto mai incisivi sull’argomento prescelto, ed approfondimento mediante una serie di preghiere dei fedeli. Normalmente il rettore della chiesa ne illustra la storia e accenna a come essa si innesti nel territorio e nella sua sensibilità religiosa.

Al momento specificamente spirituale segue una bella e abbondante merenda, con panini imbottiti, vino e bevande a volontà, merenda che quasi sempre si conclude con canti popolari spontanei, quindi una passeggiata turistica nella piazza principale del borgo o di una delle tantissime cittadine del nostro Veneto.

Il fatto poi che l’uscita costi solamente 10 euro, tutto compreso, facilita alquanto le adesioni sempre numerosissime.

L’ultima uscita dell’altro ieri ha avuto come meta San Vito al Tagliamento con il relativo santuario della “Madonna di Rosa”, con 115 partecipanti.

L’eucaristia è risultata quanto mai intensa di spiritualità e aveva come tema: “Prendere coscienza della nostra ricchezza umana”. La merenda è stata piacevolissima e soddisfacente, il giro nella piazza di una bellezza particolare per i suoi palazzi medioevali ben conservati, per la roggia di acque limpide che l’attraversa e per essersi potuti abbandonare sulle sedie fuori dal bar come turisti di lusso. L’entusiasmo ha raggiunto le stelle e la richiesta a gran voce è stata di ripetere presto l’iniziativa in un’altra località.

Mi sono dilungato a descrivere questo evento per proporlo alle parrocchie come soluzione che con poca fatica e meno soldi dà una risposta alle attese globali della persona.

Confesso che a mio parere il risultato di un ritiro spirituale, spesso sopportato e con poche presenze, è di molto inferiore ad una di queste gite-pellegrinaggio che arricchiscono tutta la persona e passano senza fatica, anzi con molto gradimento, valori quanto mai importanti.

29.04.2014

Chiampo

Giovedì 27 marzo era una giornata un po’ freddina, anche se in cielo splendeva il sole, però non nel pieno del suo fulgore; comunque la prima gita-pellegrinaggio dopo i rigori dell’inverno è stata quanto mai positiva.

Queste uscite, con la formula che noi abbiamo brevettato e che sta riscuotendo tanto successo, stanno diventando, un po’ alla volta, un evento a livello cittadino nel mondo della terza età.

Partenza nel primissimo pomeriggio con un cargo di 115 anziani raccolti presso le stazioni del “don Vecchi” di Carpenedo, Campalto e Marghera. Poi una galoppata in autostrada che ci ha offerto il volto più bello della primavera, della nostra campagna e dei colli Berici. Méta la pieve di Chiampo.

Prima fase dell’uscita: un’ora e mezza circa di chiacchiere tra vecchi e nuovi amici. Allo sbarco, nel bellissimo parco di Chiampo, ci ha accolto una rubiconda e loquace suora francescana a piedi nudi nei sandali di san Francesco e dalla parlata calda e vivace di autentica napoletana. La guida s’è dimostrata fin da subito di una estrema simpatia e con altrettanta capacità ci ha fatto un bello e corposo sermone su san Francesco, sulla Madonna e su Domineddio senza che assomigliasse ad una predica.

L’ambiente di Chiampo che incornicia la Pieve, la grotta di Lourdes, la miglior Via Crucis d’Europa e soprattutto il nuovo santuario, è veramente dolcissimo e incantevole.

Bello il discorso sulla grotta di Massabielle, riproduzione felicissima del “mistero” mariano di Lourdes, ma più bella ancora la contemplazione, perché tale è stato il modo con cui il centinaio di anziani, in maggioranza donne – notoriamente chiacchierone – hanno ascoltato la spiegazione ed ammirato gli stupendi mosaici del presbiterio del nuovo santuario, capace di un migliaio di fedeli.

L’autore di questi mosaici moderni è un frate che, come i grandi artisti del passato, conduce “una bottega” di alunni che cooperano con lui, con lo spirito religioso con cui si dipingevano le icone russe. E’ impossibile descrivere la bellezza, la forza, l’armonia, la vivacità dei colori e la dolcezza di questi “dipinti” che attingono armonia e colore non da una tavolozza ma dalla pietra, dai cristalli e dalle vernici speciali. Per tre quarti d’ora si è avverato il miracolo di cento vecchi in silenzio e in contemplazione di questo mistero di bellezza. Credo che appena per l’ascensione di Gesù al Cielo si avverò la stessa estasi spirituale.

Poi una bella messa cantata coralmente ed infine la solita merenda nel refettorio dei frati. Tornando, in pullman, penso che i pellegrini mi avrebbero fatto “santo” per aver loro regalato questa mezza giornata “di Paradiso”.

Spero che il miracolo si ripeta per l’uscita appena dopo Pasqua.

03.04.2014

In trasferta

La scorsa settimana l’ho dedicata a quella che una tradizione ormai secolare ha chiamato comunemente “la benedizione delle case”. In questo caso si è trattato dei 64 appartamentini del “don Vecchi” di Campalto.

Essendo il parroco di Campalto solo, come ormai quasi tutti i parroci della nostra diocesi, ho capito che non avrebbe potuto dedicare un po’ del suo tempo ai nostri anziani. Avendo poi la convinzione che la proposta religiosa passa soprattutto attraverso l’incontro personale, nonostante qualche difficoltà dovuta alla mia età e ad altri impegni, ho ritenuto giusto, anzi doveroso, incontrarmi con ognuno di loro per conoscerli personalmente, per pregare assieme il buon Dio perché conceda ad ognuno tempi sereni e per suggerire loro che la fede va alimentata con la pratica religiosa.

Confesso che sono felice d’aver fatto questa scelta. Per prima cosa ho potuto constatare che averli accolti in questa struttura protetta è stata una vera benedizione perché per molti di loro ha significato una vera “salvezza” da situazioni esistenziali veramente disastrose, e mi sono rassicurato così che l’essermi impegnato a dar vita a questa struttura è stato un vero atto di carità cristiana e, come tale, essi l’hanno inteso. Per me non è proprio poco constatare che la mia scelta è stata veramente in linea col messaggio di Gesù e soprattutto con il comandamento della carità.

Spesso qualcuno, anche dei preti miei colleghi – non so bene per quali motivi – ha trovato da dissentire e da criticare quanto io ho ritenuto giusto fare, mettendomi in crisi sulla validità di questa mia scelta.

Inoltre ho avuto modo di constatare quale disastro umano sta determinando il venir meno della stabilità della famiglia così com’era concepita da noi cristiani. Lo spirito radicale e libertario non solamente ha scardinato uno dei punti di forza della nostra società, la famiglia, ma ha portato pure a delle situazioni economiche veramente gravi per cui famiglie che vivevano discretamente si sono ridotte quasi alla miseria.

Infine ho potuto cogliere una messe di calda ed affettuosa riconoscenza, cosa che mi ha commosso e ripagato in maniera sovrabbondante dei sacrifici e delle preoccupazioni che ho dovuto affrontare per realizzare questo progetto di offrire una risposta alle situazioni di disagio di molti anziani.

Ripeto quello che ho affermato la scorsa settimana: che Gesù è, come sempre, di parola ed ogni atto di solidarietà lo ricambia col “centuplo e la vita eterna”.

24.03.2014

“Ho pazienza, aspetto volentieri”

Pare che il “don Vecchi” favorisca la longevità. Sarà che l’ambiente è confortevole, sarà per la certezza che nessuno ti manderà via, sarà perché si ha la sensazione di vivere in un borgo, come una volta quando gli anziani si sedevano su una panchina a fumar la pipa e le vecchie a ricamare al tombolo o all’uncinetto raccontandosi le cose di casa, comunque sta di fatto che attualmente l’età media ha superato abbondantemente gli 84 anni e che gli ultranovantenni non sono proprio rari.

Un paio di settimane fa, dopo aver portato l’Eucaristia a nonna Gianna, che ha già compiuto novantanove anni, dato poi che avevo un po’ di tempo, mi sono fermato a conversare con lei. In pratica è stata lei a tenere il bandolo del discorso, perché io, piuttosto di essere un buon parlatore, sono cosciente di essere un ottimo ascoltatore, offrendo via via all’interlocutore nuovi indirizzi al discorso quando esso sembra stia per esaurirsi.

La veneranda signora mi ha raccontato delle figlie che sono sempre presenti, dei nipoti che pur essendosi affermati nella vita non dimenticano mai la loro nonna e la coprono di attenzioni e di affetto. Mi ha riferito delle sue abitudini alimentari, del cioccolato che prende ogni pomeriggio come tonificante, della birretta analcolica che non si fa mai mancare, del pranzo che le portano dal catering, ma che le basta per il mezzogiorno e per la sera. Mi ha detto di Tania, la sua assistente, che la coccola con tenerezza e che è meglio di una figlia. Mi ha pure descritto come passa la giornata tra riposini, ora in poltrona ora a letto, ascoltando la radio per non sentirsi sola. Ed essendo quasi cieca segue i dibattiti alla televisione riconoscendo dalla voce i principali protagonisti della vita politica. Mi ha raccontato dei suoi fiori dei quali gode accarezzandoli dolcemente con le mani.

E ad intervalli ritornava a ringraziare per l’appartamentino che le è stato assegnato più di vent’anni fa, ripetendo con commozione: “Qui mi trovo veramente bene, io sono pronta, ma se il Signore mi vuol tenere qui qualche tempo ancora, ci rimango contenta”. Poi ha concluso, con un tono un po’ sornione e divertito: «Io ho pazienza e aspetto volentieri, anche se il Signore ritarda a chiamarmi in Cielo!»

Al “don Vecchi”, come tutti possono immaginare, non è “tutto rose e fiori”, però credo che, tutto sommato, questo sia il clima e l’atmosfera che si respira generalmente, perciò penso che valga la pena di sopportare qualche croce pur d’avere la soddisfazione che gente che ha sofferto, patito, lottato tutta la vita, possa viverne così serenamente il vespero. Sono sempre stato convinto che la vita sia “una cosa buona”, ma se ci mettessimo un po’ di buona volontà potrebbe essere più bella ancora.

02.02.2014

La nostra piccola “cattedrale”

Domenica, prima della messa delle dieci, un fedele che puntualmente viene a visitare la sua amata Concetta Lina che riposa nel nostro camposanto, mi ha portato in sagrestia la raccolta degli articoli che in tempi ormai lontani scrivevo per “Il Gazzettino” e che la sua amata consorte aveva raccolto in una cartella.

Curioso di ricordare ciò che pensavo allora, presi un foglio a caso: era il “Diario di un prete” della fine del secolo scorso, un quarto di secolo fa. L’ho letto con curiosità ed ingordigia. M’è parso di prendere in mano una fotografia di quando ero giovane: freschezza, poesia, sogno, coraggio! Lo ricopio, nel desiderio che da un lato gli amici sappiano che c’è stato un tempo in cui non ero scontato, prolisso ed aggrovigliato come ora, e dall’altro lato perché non mi dispiace che la città venga a conoscere i protagonisti e le vicende che accompagnarono quella bella realtà che oggi a Mestre sono i Centri don Vecchi.

Spero che mi si perdoni questo soprassalto di nostalgia di tempi andati.

Domenica 9 settembre 1990

Qualche anno fa, assieme ai miei anziani, ho avuto modo di fare il giro della Toscana. Porto ancora nel cuore le dolcissime sensazioni di quei caldi paesaggi fatti di colline arate di fresco, di quegli orizzonti trapunti dal verde scuro dei cipressi, ora solitari, ora in fila come fraticelli oranti, di quelle cittadine raccolte, intime e belle di una bellezza pudica e gentile.

La Toscana è una terra benedetta dall’arte, dalle pietre e dalla parlata sonora, veloce e pungente.

C’e però un’emozione intensa che non potrò mai dimenticare anche se campassi, mill’anni. Un giorno dal cielo cupo, carico di odore di pioggia imminente, in un silenzio greve, sbucai quasi improvvisamente in quello spiazzo d’erba verde cui sono raccolti, come gioielli, la cattedrale, il battistero, il cimitero e la torre pendente: eravamo arrivati a Pisa!

Mi si mozzò il fiato, la gola mi si rinchiuse e a stento trattenni le lacrime. Non ho mai visto tanta bellezza in uno spazio così ristretto: il biancore dei marmi, l’armonia totale delle linee, maestà e dolcezza, bellezza e poesia, sogno e realtà. La cattedrale pisana e gli edifici che la circondano sono veramente l’apice di una cultura, la punta di diamante di un popolo colto e laborioso che seppe pregare Dio sommo con la pietra, gli archi, le colonne e la poesia. Ricordo come fosse un istante fa che in quel momento nell’ebbrezza di quella visione, mi dissi, quasi sognando: «Anche noi dobbiamo costruire la nostra cattedrale, testimonianza del nostro tempo, della nostra cultura e dei nostri ideali».

Il «don Vecchi», per cui solamente giovedì scorso il sindaco mi ha consegnato la concessione edilizia, sarà la nostra piccola cattedrale; sorgerà ai margini di un parco erboso, là dove le pietre si raccordano con la terra e il presente industriale tende la mano al passato agricolo.

La nostra piccola cattedrale nascerà con la fatica e l’intelligenza dell’intera città. Già le sue fondamenta sono state poste con il concorso di tutti: politici, amministratori, donne del popolo, vecchi, operai, preti, socialisti e democristiani, destra e sinistra. Come non ricordare l’assemblea dell’antica Società dei 300 Campi che decretò il dono del terreno, Cesare Campa che raccolse il consenso dei fieri e liberi cittadini di viale don Sturzo, il prosindaco Righi che con pazienza certosina pose le premesse legali per l’assegnazione del terreno, la scelta coraggiosa del socialista Pontel che ne propose in giunta l’assegnazione, la telefonata del sindaco Bergamo, che dopo una notte insonne a qualche ora dall’elezione mi disse «Non si preoccupi don Armarndo, gliela diamo la licenza», gli incontri agostani di Salvagno e di Pavarato che misero attorno ad un tavolo una turba di funzionari più desiderosi di legittime vacanze che di lavoro e le tessiture intelligenti e puntuali di Santoro e della Miraglia, la pazienza di Chinellato nello sfornare progetti su progetti, e le preghiere delle nonnette e gli incoraggiamenti dei parrocchiani fedeli ed «infedeli»?

Nelle fondamenta della piccola cattedrale che sorgerà ad onore di don Valentino Vecchi, il prete che sognò una città migliore e solidale, ci siamo tutti, proprio tutti, e tutti insieme abbiamo vinto: il comune e la parrocchia, la stampa e la preghiera, la poesia e la politica.

Se non riuscissi, a mettere neppure una pietra, sarei comunque contento perché un’intera città, una volta tanto, s’è trovata unita e concorde per progettare un qualcosa di nuovo e di più umano per i propri anziani.

don Armando Trevisiol

30.01.2014