L’aspetto della pastorale che riguarda i poveri mi ha sempre interessato quanto mai perché da sempre sono convinto che se la religione alla fin fine non diventa solidarietà si riduce ad essere “aria fritta”. Per questo motivo ho speso metà della mia vita per aiutare i più poveri della nostra società e l’altra metà per stimolare le parrocchie e i singoli cristiani a impegnarsi seriamente in favore dei poveri.
Sono dovuto arrivare però a questa veneranda età per comprendere che non basta darsi da fare per aiutare chi è in difficoltà organizzando la comunità per recuperare quello che serve per prestare questo soccorso perché, fino a quando non si riesce a calarsi nella realtà in cui vive il povero, si rischia di fare solo della beneficenza ma ben difficilmente “ci si fa prossimo” come ci ha insegnato Gesù nella parabola del Buon Samaritano.
Qualche giorno fa sfogliando un giornale mi è capitato sotto gli occhi l’immagine di una giovane donna che con i sandali ai piedi cammina sulle dune di sabbia del deserto. La didascalia informava che si trattava di una “piccola sorella di Gesù”, ossia un’appartenente a quella congregazione religiosa che si rifà alla testimonianza di Charles de Foucauld, religioso che ha insegnato che per comprendere e aiutare i poveri bisogna vivere “come loro”.
La fotografia mi ha fatto venire in mente un episodio di tanti anni fa. Un giorno, alla porta della mia canonica, bussarono due giovani donne, una francese e una di Napoli, “due piccole sorelle di Gesù”, che mi chiesero se potevo aiutarle a trovare un lavoro perché avevano esaurito la loro piccola scorta di denaro. Dissi prontamente che avrei provveduto io ma gentilmente mi risposero che il pane volevano guadagnarselo. Proposi allora alcune soluzioni che mi sembravano confacenti alla loro condizione di suore ma gentilmente rifiutarono nuovamente: “Noi vogliamo vivere come le donne più povere, quindi le saremmo grate se ci trovasse un lavoro umile come lavare le scale”.
Capii allora che per occuparsi veramente e in maniera efficace dei poveri bisogna calarsi nella loro condizione esistenziale. Ho tentato. Quando sono andato in pensione infatti ho scelto di vivere al Don Vecchi come gli anziani poveri che ho cercato di aiutare però, quando entro nel mio studiolo, stanzetta di cui nessuno di essi dispone, mi sento sempre un po’ in colpa!