Ormai da quasi una decina di anni vive con me al “don Vecchi” mia sorella Rachele nata, tra i sette figli dei nostri genitori, immediatamente dopo di me e quindi mi segue come età ad un paio di lunghezze.
Mio cognato Amedeo, compagno dei giochi d’infanzia, era un capomastro di impareggiabile bravura; sennonché, una ventina di anni fa, un ictus prima lo portò sull’orlo della fossa e poi, fortunatamente, si salvò, ma rimase fortemente condizionato.
Mia sorella e mio cognato, una volta sposati i quattro figli, erano rimasti terribilmente soli, tanto che a tutti in famiglia sembrò che al “don Vecchi” avrebbero trovato un alloggio alla portata della modestissima pensione e soprattutto “un borgo” in cui sarebbe stato facile intessere nuovi rapporti umani. E così fu. Amedeo visse tempi veramente sereni, concludendo un paio di anni fa la sua vita, circondato dall’affetto e dalla stima della nostra comunità.
Mia sorella invece, che ha ereditato dal babbo una facilità di intessere amicizie, ha un dialogo facile e piacevole con tutti ed una capacità di collaborare senza farsi condizionare dagli anni e dagli acciacchi. Ogni tanto mi capita di sorprenderla a raccontare fatti della nostra famiglia, episodi della nostra infanzia, incuriosendo le sue amiche con episodi che io, piuttosto riservato, ho sempre tenuto per me, non perché mi vergogni del mio passato più che modesto, ma perché sono piuttosto introverso e solitario: l’opposto di lei.
Credo che talvolta però aggiunga ai racconti qualcosa di suo, comunque queste evocazioni mi portano a galla sentimenti, abitudini e manie proprie della mia infanzia e spesso mi fanno comprendere che la personalità di quel bambino dai pantaloncini corti è rimasta viva tuttora, nonostante che una valanga di anni l’abbia ormai coperta.
Qualche giorno fa l’ho sentita raccontare, con una certa enfasi, e con la mimica di un’attrice provetta, la mia mania dell’ordine. Abitavamo in una casetta di campagna: da un lato c’era un fornello per la polenta, dall’altro il pollaio che mio padre sorvegliava col suo schioppo calibro 16, il giardinetto e il cortile. La mamma affidava a me, che ero il più grande, il compito di scoparlo ogni pomeriggio. Mi aiutavano qualche volta anche le mie sorelle. Io però ero incontentabile e maniaco: non solo pretendevo che fosse perfettamente pulito, ma esigevo che il cortile risultasse quasi un’opera d’arte, che le scopate fossero ordinate ed armoniose.
Son passati settant’anni, ma i Centri don Vecchi hanno la stessa impronta: non una pianta, una foglia, un quadro, una sedia, possono rimanere fuori dal loro posto!
Da grande, negli scritti di ascetica e di morale, ho imparato la giustificazione: “Conserva l’ordine e l’ordine ti salverà”. Mi pare che i residenti al “don Vecchi” “bongré o malgré” hanno imparato la lezione ed osservino anche loro le mie vecchie manie!