Il vestito del prete

E’ ben vero che “l’abito non fa il monaco”, però è altrettanto vero che l’abito aiuta a identificare la funzione di una persona nella società; se poi questa persona possiede anche tutti o tanti requisiti che quella divisa comporta, essa aiuta a presentare in modo più preciso quella funzione.

Questa riflessione, sulla funzione e sulla validità della divisa del sacerdote, m’è venuta osservando recentemente un prete vestito all’antica maniera: la lunga tonaca nera, la cotta inamidata con tanto di merletto, il tricorno in capo ed un ampio mantello.

Questa foggia di vestire m’ha sorpreso e incuriosito perché è piuttosto difficile incontrare un sacerdote vestito alla maniera preconciliare. Ora i preti vestono in tutte le maniere fuorché quelle indicate dalla disciplina della Chiesa, che col Consilio Vaticano Secondo ha suggerito un abito sobrio, pantaloni e giacca, e il collare bianco. Molti hanno aggiunto una crocetta d’argento sul bavero.

Adesso è facilissimo incontrare preti con i jeans, in cravatta, con colbacchi di pelo, giacconi, borselli e vestiti di tutte le fogge e di tutti i colori.

Il nostro è il tempo delle note “grida” manzoniane, spesso riproposte dalla stampa della categoria, osservate da pochi e non fatte osservare da chi avrebbe il dovere di farlo.

Io ritengo che la lunga tonaca nera sia un abito talmente fuori dal sentire comune, che perciò è opportuno abbandonare, però penso che una uniforme (nel senso letterale della parola, ossia uguale per tutti) sia quanto mai opportuna, anzi doverosa.

La divisa dà un senso di ordine, di disciplina, facilita un certo controllo di sé e aiuta a certi comportamenti che sono in linea con la serietà del ministero scelto dal sacerdote, che si distingue dagli altri per essere l’uomo della fede, della Chiesa e del sacro.

Ricordo quando, prima del Concilio, il mio vecchio parroco, mons. Da Villa, chiedeva a me e a don Giancarlo d’accompagnarlo a fare quattro passi in città; pretendeva che avessimo non solo la tonaca, ma anche la “spolverina”, magari al braccio, e il cappello rotondo a larghe falde alla don Camillo. Ogni volta che ero costretto a questo supplizio mi sembrava di assomigliare alla ronda dei carabinieri in alta uniforme in piazza san Marco, tanto che al passaggio di questi tre spilungoni vestiti nell’uniforme tutta nera, la gente si voltava indietro guardandoci, seppur con rispetto, ma anche giustamente con meraviglia.

Giunto il Concilio, andammo con monsignor Vecchi nei grandi magazzini di Coin alle Barche e uscimmo in clergyman elegante, compreso il cappello Borsalino, che però non adoperai mai avendo sempre avuto una selva di capelli quanto mai scomposti e ribelli.

Non rimpiango la tonaca, ma non mi entusiasmo neppure per il modo di vestire attuale di molti preti. Ora spero che il nuovo Patriarca metta un po’ di ordine anche in questo settore, pur marginale, della vita del clero.

2 risposte a “Il vestito del prete”

  1. Molte inesattezze. Il Concilio non VIETO’ la talare. ma dove sta scritto???? Incredibile: ognuno tira il concilio dove vuole. Inoltre, ha mai visto il Papa? E’ figura che deve essere da esempio per i preti. Bene, il Papa è sempre in talare. Le dice qualcosa? Inoltre anche il cardinale Scola era sempre in talare. Abbia un po’ di umiltà, e torni a indossare al “tonaca”. Non se ne pentirà.

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