Qualche giorno fa un’assistente sociale del Comune mi ha telefonato chiedendomi se ero disposto a celebrare un “funerale di povertà”. Acconsentii immediatamente, essendo “il titolare” incontrastato di questo tipo di commiati religiosi.
Il “funerale di povertà”, come tutte le cose di questo mondo, ha due facciate. Una civile, che si caratterizza dal fatto che, dopo una procedura un po’ laboriosa e a certe condizioni ben precise, l’amministrazione comunale si assume l’onere di fornire gratuitamente la “cassa da morto” che attualmente, pur nella sua estrema sobrietà, è decorosa, a differenza di quella di un passato non molto lontano, e le altre spese connesse alla sepoltura. A livello religioso, si tratti di ricchi o di poveri, il funerale è identico per tutti e, almeno nella chiesa del cimitero, né per questo né per nessun altro funerale, si richiede tariffa di sorta.
Normalmente, in chiesa, il “funerale di povertà” si distingue invece dagli altri perché ci sono pochi partecipanti e talvolta tra i pochi c’è qualcuno con i segni ben marcati della devianza o dell’emarginazione.
In questo caso non è stato così. Una sorella ha aggiunto qualche spicciolo, l’impresa funebre un po’ di benevolenza, motivo per cui l’esteriore non manifestava alcuna differenza. Erano presenti alcuni famigliari, anche se chi “partiva” se n’era allontanato da decenni, un sacerdote della Caritas, un amico “barbone” – che s’era collocato all’ultimo posto come il pubblicano – un rappresentante della mensa di Betania ed uno del dormitorio di Betlemme.
Quello che mi colpì di più fu un giovanottone, alto e prestante, che mi disse che da cinque anni seguiva questo infelice. Ebbi modo di conoscere questo giovanotto, prossimo alla laurea in architettura, il quale mi confidò di vivere assieme ad altri quattro giovani che avevano fatto la scelta di vivere in comunità e di dedicare il tempo libero ai “barboni” che passano la notte alla stazione di Mestre o che vivacchiano in qualche modo ai margini della vita cittadina.
Da quello che ho capito tra le righe del discorso, la loro scelta s’appoggia su motivazioni d’ordine spirituale. Nel mio animo, d’istinto, associai questa esperienza a quella di Francesco d’Assisi, in versione terzo millennio.
La tenerezza, la comprensione, il rispetto con cui mi parlava dei poveri ai quali dedicava tutto il suo tempo libero, mi avvolse come una dolce folata di profumo di primavera.
Da giorni questa immagine bella ed umile di umanesimo cristiano mi accompagna e mi aiuta a sperare nella redenzione di questo nostro mondo che, ogni giorno di più, sembra perdere pace e dignità.
Sto pensando che questa piccola comunità giovanile, silenziosa e sconosciuta, pur nella sua esiguità, può controbilanciare l’enorme desolazione della società di oggi.