Un “Matusa”

Le mie gaffes sono proverbiali, un po’ sono dovute al fatto che non sono fisionomista, e un po’ perché sono perennemente distratto e continuo a pensare ai fatti miei anche quando, le mutate situazioni, mi dovrebbero costringere a voltar pagina.

Due tre mesi fa mi si è chiesto di celebrare il commiato di un membro di una nota famiglia di Mestre, che pur provenendo dall’Istria, s’è totalmente integrata nel tessuto della nostra città motivo per cui moltissimi mestrini la conoscono. Io ebbi tra i miei alunni delle magistrali, una ragazzina di questa famiglia.

Ai tempi della scuola quarant’anni fa, quella ragazza si faceva notare perché bella, disinvolta, brillante nel modo di fare e di atteggiarsi, il fatto poi che nella sua parlata ci fosse l’accento ed il calore della terra oltre l’Adriatico, erano elementi per cui mi è sempre stato facile ricordarla.

La mamma poi di questa ragazza mi aveva raccontato dello stile di vita d’inizio secolo, di quella gente, questo coniugato alle tristi vicende dell’esodo e della bellezza di quella terra e di quel mare, mi hanno favorito nel mettere in una cornice particolarmente bella a quella creatura.

L’altra mattina due signore, che avevano superato di certo la mezza età, mi salutarono con particolare calore e vedendo che faticavo a riconoscerle mi ricordarono del funerale.

Finalmente ci arrivai ad inquadrare queste due care creature come appartenenti a questa famiglia trasferitasi a Mestre dalle terre della Dalmazia.

A questo punto accadde la gaffe; mi venne da chiedere notizie della mia alunna, che supponevo fosse una figlia, se non una nipote di queste due signore. “Sono io” mi disse la più piccola di statura. La guardai sorpreso e tentai goffamente di riparare lo svarione. Ci salutammo con affetto, lei certamente accusò il colpo, pur facendo finta di non averlo ricevuto ed imputando a malessere le detestabili ed amare tracce che il tempo aveva lasciato sul suo volto.

Quando rimasi solo, da un lato mi dispiacque di averla involontariamente ferita, riproponendomi di essere in futuro più cauto e dall’altro lato ricordai della vecchia e saggia sentenza della chiesa, “Sic transit gloria mundi”. È tanto effimera ed inconsistente la bellezza. Poi mi autoflagellai dicendomi: “Cosa penserebbero di me tutte quelle ragazze che ho incontrato quarant’anni fa sui banchi delle magistrali?”

Se fossimo nel ’68 di certo mi definirebbero col termine “Matusa”.
Debbo ricordarmelo!

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