Penso che la gente non si renda conto delle grandi difficoltà che un prete incontra dovendo ogni settimana “predicare” alla comunità. Se uno si accontenta di fare un fervorino in cui ripete con parole proprie il racconto della pagina del Vangelo della domenica, magari facendo qualche considerazione d’ordine morale, la cosa non è impossibile, ma se un prete sente la responsabilità di passare una verità che morda, che dia dei dubbi ad un certo perbenismo imperante nella comunità dei fedeli, se sente il dovere di far crescere il cristiano, di impregnarlo di mentalità evangelica, allora le difficoltà crescono alquanto e diventa una vera impresa offrire ogni domenica qualcosa che desti l’interesse e metta in crisi la coscienza, passando qualcosa di già saputo e di scontato.
Scendo ad un esempio: questa mattina la pagina del Vangelo da trattare era quella che, nel gergo del mondo ecclesiale, è definita comunemente “la correzione fraterna”. Gesù insegna alla comunità che non si può rimanere indifferenti agli errori dei singoli, ma si deve invece aiutare il singolo a crescere e maturare in spirito evangelico e perciò offre un metodo che presuppone che l’intervento per correggere un errore – cosa molto facile che avvenga – sia sempre animato dall’amore e l’intervento per la correzione degli sbagli altrui sia graduale e progressivo, fino a coinvolgere direttamente l’intera comunità cristiana.
Ho cominciato quindi il sermone con due premesse assai convinte. Se Cristo fa giungere questo intervento, significa che la comunità a cui esso arrivava – e nel mio caso quella che stamattina gremiva la mia chiesa prefabbricata tra i cipressi del nostro cimitero – ne ha bisogno. Cristo non parla mai a vanvera e per niente, quindi tutti, o perlomeno molti, ne hanno bisogno e quindi devono sentirsi interpellati personalmente.
Secondo: ogni cristiano, vivendo in comunità, ha delle precise responsabilità verso i membri che la compongono, quindi non può rimanere indifferente agli errori suoi, ma neppure a quelli degli altri. Egli non può e non deve disinteressarsi degli altri.
Dopo queste due premesse ho tentato di proporre la verità che m’è è parsa più importante: il Padre ha mandato suo figlio non solamente perché ci aiuti a scoprire e a percorrere il sentiero che porta in Paradiso, ma per insegnarci a vivere, a cogliere la vita appieno come una cosa bella e preziosa, come un dono straordinario.
Ho quindi speso tutte “le mie cartucce” per affermare che diventa vero discepolo di Gesù chi vive una vita positiva e felice, chi è libero, giusto, pacifico, solidale e ricco d’amore.
Se il prete non riesce a passare in maniera pregnante questo messaggio, credo che sia un fallito perché Gesù ha affermato: «Sono venuto perché abbiate la gioia e la vostra gioia sia grande!».