Ho già ripetuto più volte che almeno i tre quarti della mia attività di prete sono costituiti attualmente dal suffragio cristiano: anniversari, commemorazioni, funerali. Anche quando commento il Vangelo nei giorni feriali e in quelli festivi, celebrando in una chiesa le cui pareti confinano col campo ove attualmente si seppelliscono i morti e dalle cui finestre si vedono campi di croci, qualsiasi argomento io debba trattare, rimango sempre condizionato dall’ubicazione della mia “cattedrale tra i cipressi”.
Qualche giorno fa ho celebrato il commiato cristiano di un vecchio medico di Mestre del quale era abbastanza noto, se non l’ateismo, almeno un notevole scetticismo riguardo la Chiesa e la fede. Questo fatto mi ha condizionato abbastanza, tanto che mi sembravano poco adatti gli schemi a cui spesso sono costretto a rifarmi. La morte e l’aldilà presentano purtroppo fatalmente le stesso problematiche, motivo per cui non c’è molto spazio ideale sul quale impostare il discorso.
Mentre mi arrovellavo, non tanto per trovare immagini ed argomenti con i quali far bella figura, ma per approfittare dell’occasione per fare una catechesi efficace ai molti presenti che appartenevano al mondo della sanità, emerse dalla mia memoria un vecchio ricordo di molti anni fa che quasi mi si impose e mi costrinse a riflettere su quello che un medico ed un prete rappresentano nella vita e nella società.
Un giorno molto lontano stavo uscendo dalla cappellina ottocentesca su cui sbocca la vecchia entrata del camposanto, quando incontrai il dottor Caprioglio, il padre del famoso architetto di Mestre, Gianni, e del medico di oculistica, Giancarlo. Probabilmente aveva fatto una visita alla tomba di sua moglie. Conoscevo bene questo pediatra appunto perché padre dei due ragazzini che avevo incontrato a San Lorenzo più di mezzo secolo fa e che sono diventati, col passare degli anni, due ottimi professionisti. Credo che questo dottore abbia curato, assieme al dottor Montesanto, i bambini di tutta Mestre. Era una persona semplice, buona e veramente credente.
Incontrandomi appunto sul vialetto, scambiammo qualche parola di circostanza, quando lui mi disse: «Fortunato lei, don Armando! Vede, nonostante tutti i miei sforzi, i miei pazienti finiscono prima o poi per morire, ed io finisco per essere sconfitto, mentre lei risulta sempre vincitore perché i suoi pazienti prima o poi ottengono la vita nuova e migliore che lei va insegnando.»
Anche il famoso Camus, nel suo splendido romanzo “La peste”, tratta lo stesso argomento; infatti nel racconto sono coprotagonisti il prete e il medico nella città assediata dal morbo letale. In realtà Camus, tutto sommato, da non credente ha uno sguardo di simpatia per il laico, pur lasciando intravedere che l’alternativa all’opera e al messaggio del medico, rimane il sacerdote.
Questo ricordo m’ha fatto bene perché senza boria e, meno ancora, euforia, ho pensato che il buon Dio mi ha assegnato la parte del vincente.