La vecchia canonica

Qualche giorno fa don Gianni, il mio giovane successore nella parrocchia di Carpenedo, mi ha mostrato con un certo orgoglio i restauri che sta conducendo nella sua canonica.

Il nuovo parroco, a tre anni dal suo arrivo, ha affrontato in maniera radicale il restauro del vecchio edificio. La canonica di Carpenedo, addossata alla chiesa, risale al 1700, quindi è più vecchia di un secolo e mezzo della parrocchiale. La casa del parroco è un palazzotto che si rifà, ma in tono molto minore, alle vecchie ville venete. Sia al piano terra che al primo piano c’è un vasto salone sul quale si aprono le porte di quattro stanze. Nel sottotetto c’era il granaio, in cui i parroci depositavano “il quartese”, ossia il contributo che i parrocchiani, quasi tutti contadini, versavano per il mantenimento del parroco.

Quando io nel 1971 andai ad abitare in quello stabile, esso era veramente in malarnese. Alla struttura ordinaria dell’edificio i miei predecessori avevano apportato delle varianti secondo le loro necessità e i loro gusti, interventi che avevano abbastanza deturpato le linee originali assai ordinate e pulite. Comunque, a parte l’impoverimento della sistemazione della struttura, tutto era estremamente fatiscente. Ricordo che mio fratello don Roberto, e don Gino che poi diventò il mio cappellano, volendo ridipingere le imposte, consumarono un quintale di stucco per rabberciare alla meglio i balconi.

Nella fase iniziale della mia presenza dovetti pensare ad altro: al patronato che non c’era, all’asilo che era rimasto pressappoco quello del 1911, l’anno in cui fu costruito, al cinema, talmente malandato che tutti lo chiamavano “il peoceto”.

Anche per quanto riguarda il mobilio, esso era più che povero; quando infatti mi chiesero di fare il parroco di Carpenedo, non possedevo neppure un cucchiaio e neppure qualche lira per acquistarlo. Ricordo che caricammo sul furgoncino della San Vincenzo i mobili dell’appartamentino della signorina Rita, che aveva accettato di condividere la mia avventura pastorale come perpetua. I suoi mobili erano tanto pochi per arredare quell’edificio così grande che lei aveva definito “non una casa ma un municipio”.

Col tempo feci ripassare il tetto, costruire tutti gli infissi, rifare il marmorino dei muri esterni, i pavimenti che erano quasi tutti di tavole ormai marce per l’umidità. A me, allora, la canonica parve una reggia, tanto che quasi mi vergognavo di abitare in una casa così grande e così bella.

Come gli uomini, così i preti passano, mentre gli edifici rimangono e spesso hanno impressa qualche piccola traccia di chi li ha abitati. Mi auguro che anche la vecchia canonica di Carpenedo, ora diventata davvero una villa veneta, possa continuare queste storie di preti impegnati e in linea con i loro tempi.

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