Ricevo almeno due telefonate al giorno da parte di persone disperate che non sanno più dove battere il capo. Quasi sempre, prima di telefonarmi, si sono rivolte al loro parroco il quale, quasi sempre, non sapendo cosa fare, fa loro il mio nome.
Non credo di essere il più amato e stimato dai miei colleghi, ma di certo so di essere spessissimo usato come una speranza o, peggio, come pretesto che li libera dall’imbarazzo di non avere soluzioni da offrire.
Io sono un pensionato, non ai margini della vita della mia Chiesa, ma anche oltre i margini, una voce scomoda che i più si rifiutano perfino che giunga presso la loro gente, però rimango un comodo pretesto nei momenti imbarazzanti posti dalle vecchie e nuove povertà.
Di certo, finché avrò fiato, non cesserò di ripetere che la solidarietà, quella concreta, spicciola, non quella che si colloca nella stratosfera, è una componente essenziale del messaggio cristiano.
Non cesserò di ripetere che la nostra Chiesa, se vuol essere fedele al messaggio di Gesù, deve farsi carico dei poveri. E rifiuto quei vecchi e superati discorsi di comodo per i quali qualcuno pensa di liberare la propria coscienza affermando che le soluzioni concrete spettano allo Stato, mentre la Chiesa può continuare ad occuparsi delle candele e dell’incenso. Non cesserò di ribadire che non soltanto è un dovere, ma che la nostra Chiesa oggi ha tutte le possibilità di dare delle risposte concrete.
Un tempo pensavo che la carità avrebbe portato in chiesa chi ha beneficiato del suo aiuto. Ora non lo penso più, però rimango convinto che la si debba fare anche se non ci fossero ritorni in pratica religiosa.